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Se ci rubano la privacy genetica

di Pietro Greco - 19/05/2006

 
Il più preoccupato è Sir Alec John Jeffreys, il genetista inglese che per primo ha sviluppato le tecniche del «Dna fingerprint», letteralmente l'impronta digitale a Dna. L'idea e, soprattutto, la pratica di acquisire e conservare in una grande banca dati il profilo genetico di persone sospette da parte della polizia, sostiene, è molto pericolosa: perché può essere fonte di gravi discriminazioni nei riguardi di singoli individui e di interi gruppi sociali. Meglio sarebbe acquisire e conservare il profilo del Dna dell'intera popolazione: almeno così saremmo tutti sulla medesima barca e nessuno potrebbe essere discriminato in partenza.

Sir Alec John Jeffreys propose la sua provocazione l'11 settembre 2002, un anno dopo l'attacco terroristico alla Torri Gemelle di New York, quando si venne a sapere che la polizia di Sua Maestà Britannica aveva allestito una banca dati del Dna dove venivano conservati i profili genetici di 1,5 milioni di persone, non solo criminali, ma anche semplici sospetti.

Il tema è tornato ieri di attualità, quando l'Unità ha dato notizia che un qualcosa di analogo è avvenuto in Italia a opera dei carabinieri del Ris. Inevitabile la domanda: è lecito violare la privacy genetica e conservare il profilo del Dna di criminali conclamati e/o di criminali solo presunti? Il diritto alla riservatezza genetica di ogni singolo individuo ha la priorità anche nei confronti del diritto di tutti alla sicurezza? A queste domande è già stata fornita una risposta in sede europea dal Gruppo per la tutela dei dati personali, nominato dalla Commissione di Bruxelles e diretto da Stefano Rodotà, che il 1 agosto 2003 ha adottato un documento molto chiaro: la raccolta dei dati biometrici che consentono l'identificazione e l'autenticazione/verifica automatica di ogni individuo è una faccenda molto delicata e, quindi, deve avvenire con estrema cura. I dati biometrici sono molti. Alcuni di tipo comportamentale: la firma, la calligrafia, il modo di battere su una macchina da scrivere. Altri, ritenuti più affidabili, di tipo fisiologico: le impronte digitali, il riconoscimento dell'iride, l'analisi della retina, la geometria della mano, la struttura del Dna.

Per tutti questi dati, sostiene il documento dell'Unione europea, la raccolta può avvenire, purché venga seguita una rigorosa procedura. Che prevede la lealtà (i dati non devono essere conseguiti all'insaputa della persona che ne è proprietaria), la giusta finalità (il fine deve essere determinato, esplicito e legittimo) e la proporzionalità (i dati raccolti devono essere pertinenti e non eccedenti rispetto ai fini). È bene, infine, che i dati biometrici non vengano conservati in una banca dati centralizzata, ma conservati in memorie localizzate, magari in possesso della persona interessata. Per evitare che, in maniera più o meno intenzionale, possano essere integrati con altri dati e/o finire in mani non disinteressate.

Queste indicazioni - che dovrebbero valere per tutti i paesi europei, Italia inclusa - non fanno altro che riprendere le preoccupazione di Sir Alec John Jeffreys e organizzarle secondo la prudenza e la logica giuridica. Una banca centralizzata di dati biometrici, raccolti peraltro all'insaputa degli interessati, non è, in linea del tutto generale, auspicabile. Tuttavia, si dirà, la polizia di tutto il mondo da decenni conserva in banche date centrali alcuni dati biometrici, come le impronte digitali. Perché, si ritiene, che la sicurezza di tutti viene prima della privacy dei singoli.

Può, dunque, in materia di dati biometrici lo stato derogare ai principi di lealtà, giusta finalità e proporzionalità indicati dalla Commissione europea? Lasciamo ad altri la risposta in punta di diritto. Conviene, qui, rilevare che una specifica tecnica biometrica, quella che consente la determinazione della struttura del Dna di ciascuno di noi, apre problemi nuovi e diversi rispetto alle tecniche di raccolta delle impronte digitali o della geometria della mano. Il Dna, infatti, non contiene solo i caratteri utili per l'identificazione univoca e l'autenticazione/verifica di ciascuno di noi. Contiene molto di più. Contiene la nostra storia passata. E la storia passata della nostra famiglia: nel nostro Dna c'è scritto, per esempio, di chi siamo figli e di chi siamo fratelli. Un dato che, spesso, è sconosciuto persino al proprietario del Dna e la cui diffusione può sconvolgere la vita di un insieme, piuttosto ampio, di persone. Ma il Dna contiene, anche e soprattutto, il nostro possibile futuro. Certo, per la gran parte in termini probabilistici. Dall'analisi del nostro materiale genetico si ricava la propensione verso alcune malattie e, nei prossimi anni, si potrà forse misurare la nostra propensione verso alcuni comportamenti. Queste propensioni hanno un tasso di determinazione variabile: la certezza nel caso di malattie genetiche monofattoriali, solo una possibilità, più o meno labile, nel caso di malattie o comportamenti multifattoriali.

E, tuttavia, la diffusione (intenzionale o non intenzionale) di queste informazioni può avere effetti enormi. Io stesso potrei non voler mai sapere, per esempio, se ho una propensione piuttosto alta a contrarre un certo tipo di tumore o anche solo il diabete. Potrei non volere che i miei familiari sappiano e si angoscino prima del tempo. Certo non voglio che conoscano la mie propensioni genetiche la mia assicurazione e/o il mio datore di lavoro: potrei perdere - come è successo negli Stati Uniti - la mia occupazione attuale e/o la mia futura copertura previdenziale. E già penso con orrore ai futuri «call center» delle industrie farmaceutiche che nell'era della medicina predittiva ti chiamano a ogni ora del giorno (e spesso della notte) per chiederti se, sulla base del tuo profilo genetico in loro possesso, vuoi comprare questo nuovo farmaco o essere aiutato a sviluppare quel particolare stile di vita.

No, quella genetica è una privacy molto più delicata delle altre. E va più attentamente tutelata. Non solo rispettando nella maniera più rigorosa possibile le indicazione del Gruppo europeo diretto da Stefano Rodotà. Ma forse prevedendo qualcosa che in Italia ancora non c'è. Nel nostro paese la privacy biometrica è tutelata dal Garante, che è un'autorità amministrativa. È sufficiente? Non c'è forse bisogno di una legge organica, che tenga conto della specificità del Dna e della privacy genetica e contribuisca a farci entrare con maggiore fiducia, per coglierne le opportunità e minimizzarne i rischi, in quella particolare era della conoscenza che è l'era della medicina predittiva?