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Le recenti alluvioni nel Nordest pongono un doppio problema di ordine politico

di Francesco Lamendola - 09/11/2010

 
Il Nordest, la “locomotiva d’Italia”, è stato messo in ginocchio da due giornate di pioggia e da una serie impressionate di alluvioni, che, oltre ad aver provocato danni gravissimi alle abitazioni private e alle aziende, hanno invaso il centro di una città d’arte come Vicenza e minacciato da vicino opere di inestimabile valore, come il Teatro Olimpico del capoluogo berico.

E subito è scoppiata la polemica politica: il governo non sta facendo abbastanza; il Veneto e il Friuli, che sempre hanno contribuito tanto al benessere nazionale, ora chiedono e, se necessario, esigono, di non essere considerati come una remota provincia dell’Impero; i mass media nazionali hanno ignorato o minimizzato il disastro.

Sono giuste queste critiche, sono giustificate queste lamentele, questo sdegno, questa insofferenza nei confronti dello Stato? E come si conciliano con la conclamata volontà di “fare da soli”, di non voler chiedere nulla allo Stato, a patto che Stato, da parte sua, la smetta di chiedere troppo?

Diciamo che la gente del Nordest, per secolare tradizione, è non solo laboriosa e determinata (vedi come i Friulani si sono fieramente rimessi in piedi dopo i due tragici terremoti del 1976), ma anche straordinariamente paziente, per non dire stoica e quasi rassegnata alla sordità altrui nei confronti delle proprie problematiche.

Tutti ricordano come si comportarono Veneti e Friulani all’epoca del disastro del Vajont, nel 1963: piansero e seppellirono i loro morti; poi si asciugarono le lacrime, si rimboccarono le maniche e ricostruirono Longarone e gli altri paesi distrutti, ricominciando là dove il disastro li aveva fermati, magari dopo anni di sacrifici fatti all’estero per costruirsi la propria casetta (il friulano «mal dal madòn», ossia «mal del mattone»).

Bisogna pur dire, per amore di verità storica, che un disastro come quello di questi giorni, o come altri che hanno colpito queste regioni negli ultimi decenni (valga per tutti il caso dell’alluvione del Polesine, nel novembre del 1951: sì, ancora il mese di novembre; perché in novembre piove parecchio, chi lo avrebbe detto?) sono difficilmente immaginabili nel contesto di uno Stato locale efficiente e attento all’assetto idrogeologico del territorio, come lo era, per millenaria sapienza ed esperienza, la Repubblica di Venezia.

Quindi viene da chiedersi perché e come una popolazione, da secoli e secoli abituata a gestire con oculata prudenza il proprio territorio e le sue risorse, sia oggi così palesemente incapace di fronteggiare con un minimo di previdenza uno dei fenomeni naturali più scontati e, purtroppo, regolari: le forti piogge autunnali e gli smottamenti, le frane e le alluvioni che inevitabilmente le accompagnano.

E non si dimentichi la tragedia della Val di Stava, nel Trentino Alto Adige (sempre Nordest), nella quale - correva l’anno 1985, stavolta nel mese di luglio - trovarono la morte, sotto qualcosa come 160.000 metri cubi di fango, ben 268 persone.

Sono dunque cambiate le genti venete, friulane e trentine, oppure è cambiato qualche cosa nel rapporto fra le attuali classi dirigenti di queste tre regioni e la loro consapevolezza delle necessità vitali e dei problemi più urgenti e più gravi del territorio?

È venuta a mancare la saggezza, è venuta a mancare la lungimiranza, nella gestione del tanto (troppo) sbandierato “miracolo del Nordest”, nella irresponsabile gestione di una crescita economica che ha ridisegnato radicalmente il rapporto fra l’uomo e l’ambiente in questa parte d’Italia?

«Roma ladrona», si dice e si ripete nei comizi e nelle adunanze politiche di queste regioni, sotto il segno di una forte e radicata presenza leghista che, sempre più, si presenta come sponda di una richiesta identitaria e come difesa di una specificità minacciata dai fenomeni più oscuri legati alla globalizzazione.

O meglio, lo si diceva fino a qualche tempo fa: ora lo si dice molto meno, e per una ragione semplicissima: e cioè che la Lega è a capo delle amministrazioni locali ormai da molti anni e, come se ciò non bastasse, siede al governo, accanto a Forza Italia, da un numero di anni non molto inferiore.

E allora?

I casi sono due. Se Roma è ladrona, come mai la Lega è andata a Roma e non ha saputo far nulla per modificare l’andazzo, specie in presenza di particolari circostanze, che rendono quanto mai necessario rivedere il rapporto fra il dare e l’avere del Nordest con il governo nazionale? Chi si è preso la briga di fare due conti, è giunto alla conclusione che gli alluvionati del Veneto hanno ottenuto in questi giorni, da Roma, uno stanziamento di “aiuti” che equivarrebbe a qualcosa come… otto euro a testa. Ogni commento ci sembra superfluo.

Quanto alle amministrazioni locali leghiste, insediate, in molti comuni ed in molte province, da dieci, quindici anni e anche di più: che cosa hanno fatto di diverso dalle aborrite amministrazioni precedenti (in massima parte democristiane), per la messa in sicurezza del territorio, per porre un freno alla cementificazione dissennata, per una politica di interventi preventivi sugli argini dei fiumi, sui bacini lacustri alpini e prealpini, sulla rete stradale e ferroviaria? Si è fatto qualcosa o non si è fatto niente? Oppure - peggio ancora - si è lasciato che il territorio venisse impunemente saccheggiato e massacrato, in nome di una industrializzazione selvaggia e senza regole, gestita in modo tanto più deprecabile, se si considera che essa ha potuto giovarsi, fin dagli anni Sessanta del secolo scorso (gli anni d’oro della Democrazia Cristiana) di una vera e propria pioggia di finanziamenti di pubblico denaro?

Tanto per schiarire la memoria di qualcuno: è già stata dimenticata la “lezione” dell’incendio alla fabbrica di elettrodomestici De Longhi, in quel di Treviso, nell’aprile del 2007, quando si alzò un’altissima nuvola di fumo e si verificò, quasi certamente, una massiccia fuga di diossina, proprio alla periferia di un grosso centro urbano?

E che dire degli allagamenti che ripetutamente, negli ultimi anni, con impressionante regolarità, mettono in ginocchio la stessa Treviso, oppure Pordenone e tante altre città grandi e piccole del Nordest, in seguito alle piogge autunnali; e che avrebbero dovuto suonare come altrettanti campanelli di allarme nei confronti di un assetto idrogeologico decisamente compromesso?

Una volta si diceva anche: «Piove, governo ladro».

Ma che dire adesso che al governo ci sono i rappresentanti della propria regione, organizzati in un partito fortemente strutturato; mentre nelle amministrazioni locali siedono, ancora, gli uomini di quello stesso partito, che sono stati eletti dopo aver fatto tante promesse e dopo aver soffiato sul fuoco, bisogna dire anche questo, di tanto malcontento?

Questa, dunque, è la contraddizione che sta portando al pettine i nodi irrisolti, e anzi vieppiù intricati, del rapporto politico, economico, sociale e culturale esistente fra il Nordest e il resto d’Italia.

Da una parte c’è la percezione, sempre più diffusa tra le genti venete, friulane e trentine, che la Patria sia matrigna nei loro confronti; che sia sempre sollecita ad esigere, ma lenta ed avara nel concedere; che, insomma, le tratti secondo un cliché largamente diffuso nel cinema degli anni Cinquanta e Sessanta: da gran lavoratori un po’ fessi, che si lasciano mettere nel sacco con estrema facilità dal tipico “romano” furbo, alla Alberto Sordi.

Dall’altra parte c’è una classe dirigente, sia a livello locale che a livello nazionale, che ha qui le sue radici e che, teoricamente, ha raggiunto quello che voleva raggiungere e in nome di cui ha ricevuto il mandato dai propri concittadini: il controllo degli strumenti amministrativi e legislativi mediante i quali, in teoria, si sarebbe dovuto ripristinare un rapporto più giusto ed equilibrato fra il dare e l’avere dei Veneti, dei Friulani e dei Trentini nei confronti dello Stato.

Esistono una crescente delusione, una crescente amarezza, un crescente risentimento, da parte dell’elettorato leghista verso il partito che, dopo tanti slogan e dopo tante assicurazioni, non si è mostrato per niente all’altezza della situazione; che ha evidenziato, anzi, in modo involontariamente impietoso, una impreparazione, anche culturale, che mai si sarebbe immaginata.

Sullo sfondo di questo silenzioso (per ora) esodo dalla Lega, che lascerà un vuoto politico di cui è difficile intravedere la portata, ma che fuori dal Nordest è ancora pressoché ignorato perché i media nazionali lo passano sotto silenzio, avanza un movimento che vorrebbe essere alternativo, ma che di fatto è - in qualche modo - ad essa speculare: Verso Nord, tenuto a battesimo da personalità come l’ex sindaco di Venezia, il filosofo Massimo Cacciari.

Verso Nord si presenta come una sorta di alternativa al Carroccio che, però, ne raccoglie talune istanze e si candida ad interpretarne meglio, ossia con più efficienza, talune esigenze; ma con un limite invalicabile: la sua origine intellettuale e, per molti aspetti, velleitariamente intellettuale, priva cioè di un autentico radicamento a livello di coscienza popolare.

Basterà un solo esempio a chiarire il concetto. Davanti all’affermazione di Luca Zaia, all’indomani dell’ultimo fatto di sangue che ha coinvolto le nostre truppe in Afghanistan, secondo il quale quel Paese è diventato «il nostro Vietnam» e faremmo bene ad andarcene il prima possibile, Alessio Vianello, portavoce di Verso Nord, ha replicato duramente, sostenendo che si è trattato di un paragone storicamente inaccettabile e che il nostro dovere è quello di rimanere in Afghanistan, a difesa della democrazia e a sostegno dell’alleanza internazionale di cui facciamo parte.

Questo è un tipico esempio di quella mentalità teorica, astratta, velleitaria e radical-chic che rappresenta il peggio della sinistra italiana: il disprezzo per il sentire comune della gente, che ritiene la guerra in Afghanistan un errore e non condivide la crociata, a suo tempo intrapresa da Bush junior con incosciente leggerezza, alla quale ci siamo accodati per delle ragioni che non sono mai state veramente chiarite e che oscillano fra una generica politica di intervento umanitario e “pacifico” (un bell’ossimoro, non c’è che dire, per una spedizione militare in piena regola) e una fumosa necessità di cooperare alla difesa della “rinata” democrazia afghana, nonché alla stabilità geopolitica dell’Asia centrale e del Medio Oriente.

Va dato atto a Bossi, ma solo al Bossi prima maniera, di avere a suo tempo preso le distanze dal filoatlantismo sperticato allora ostentato da Berlusconi e di avere perfino espresso solidarietà a dei popoli, come Baschi, Fiamminghi e Gallesi, impegnati a rivendicare la propria autonomia contro il centralismo di nazioni alleate dell’Italia, quali la Spagna, il Belgio e la Gran Bretagna; salvo poi appiattirsi sulla politica di Stati Uniti e Israele in tutto quel che riguarda il Medio Oriente, a cominciare dallo scacchiere iracheno e afghano.

Se, dunque, qualche esponente leghista parla di riportare a casa i nostri alpini e lascia intendere che l’intervento in Afghanistan è stato un errore, non fa altro che tornare alle posizioni originarie della Lega, da sempre favorevole all’autodecisione dei piccoli popoli nei confronti delle grandi potenze; mentre la sparata di Vianello ha tutto il sapore di un predica in cattedra da parte di chi non ha la minima idea di quello che realmente sente e pensa la gente comune. Altro che avere il polso della situazione nel Nordest: i signori di Verso Nord mostrano, fin dall’inizio della loro avventura politica, di assomigliare più ad un salotto di intellettuali benpensanti che a un autentico movimento popolare, capace di dialogare con la gente e di mettere radici nel territorio.

Davanti alla dilagante crisi economica, che nel Nordest appare ancora più drammatica, perché falcia ogni mese migliaia e migliaia di posti di lavoro (mentre al Sud, per esempio, c’è poco da falciare, dato che il lavoro scarseggiava già prima), è semplicemente grottesco che un movimento politico che vorrebbe candidarsi a interpretarne gli autentici bisogni, invece di parlare dei giovani disoccupati e dei tanti, troppi laureati che se ne vanno all’estero, viene a parlare… della necessità di continuare a combattere e a morire sulle montagne dell’Afghanistan, quali truppe ausiliarie di un sinistro personaggio, Bush junior, che da tempo ha dovuto abbandonare il ponte di comando.

È questa la futura classe dirigente del Nordest, che vigilerà affinché due giorni di pioggia non lo mettano mai più in ginocchio?

Che Dio ce la mandi buona, allora…