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Il raìs e l’Occidente

di Luigi Spinola - 23/02/2011

Fonte: ilriformista

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Occidente. La difficoltà di scaricare il nemico riabilitato, business partner e alleato contro il terrore.

Quando il Colonnello era il «cane rabbioso del Medio Oriente» (Ronald Reagan, aprile 1986), in molti sognavano un regime change a Tripoli. La Libia era uno stato canaglia ante litteram. Americani e britannici ci hanno anche provato. Ma adesso che Gheddafi ha (quasi) compiuto il percorso di riabilitazione, l’occidente assiste a malincuore alla sua caduta. E la richiesta della delegazione libica all’Onu di «intervenire per fermare il genocidio» per ora cade nel vuoto.

L'Italia è un caso limite. Solo Silvio Berlusconi in questi giorni ha avuto la delicatezza di non «disturbare» il Colonnello. Barack Obama ha espresso «grave preoccupazione» e il Dipartimento di Stato ha garantito che gli Stati Uniti avevano già reso noto al regime le «forti obiezioni per l’uso di forza letale». Condanne simili sono giunte da Parigi, Londra, Berlino e Bruxelles, mentre il nostro ministro degli Esteri in un primo momento chiede all’Europa di «non interferire». In serata i distinguo cessano. E anche Berlusconi parla di «violenza inaccettabile»

E’ chiaro a tutti che noi italiani abbiamo più da perdere dalla caduta del raìs. Nessuno ha investito sul Colonnello come Roma. Nessuno lo ha vezzeggiato e abbracciato pubblicamente come noi. La nostra diplomazia ha seguito il decalogo commerciale di Silvio Berlusconi che prescrive «di farsi concavo o convesso» per conquistare il cliente. E si è fatta troppo concava. A forza di offrire pulpiti al Colonnello in tournée, il governo italiano ha finito col credere alle sue lezioni di democrazia, indicando come modello il «riformista» Gheddafi, che ai suoi sudditi offre alcune «sfogatoi» (Frattini dixit).

Gli altri governi hanno tenuto un profilo molto più basso. Non dovevano peraltro farsi carico del passato coloniale. E non avevano “l’emergenza” immigrazione da gestire. La nostra intesa con Tripoli però si è celebrata all’interno di un più ampio processo di riconciliazione tra Libia e occidente. Il Colonnello con gli anni è diventato, non solo per noi, un alleato della guerra al terrore, oltre che un prezioso business partner.

La conversione di Gheddafi segue un percorso accidentato. All’inizio degli anni 70, il giovane golpista si presenta come l’erede del Che, pronto a creare «dieci, cento, mille Vietnam» per indebolire l’Impero. Il libico è generoso e promiscuo. Finanzia i palestinesi, incluso il gruppo Settembre Nero. Aiuta i più svariati movimenti di liberazione africani, dalla Sierra Leone alla Liberia. Fa partire bastimenti carichi di armi per le Farc colombiane e l’Ira nord-irlandese. Mette i piedi anche in Europa continentale, lavorando con la Rote Armee Fraktion in Germania ovest e con la Stasi a est. L’intelligence libica però il 5 aprile 1986 lascia tracce nell’attentato al night “La Bella” di Berlino, gonfio di soldati americani. Ronald Reagan dieci giorni dopo risponde con l’operazione El Dorado Canyon che fa 45 morti a Bengasi e Tripoli. La rappresaglia libica si ferma al largo di Lampedusa. Due anni dopo l’abbattimento del volo Pan Am 103 sopra Lockerbie uccide 243 persone. E l’incriminazione del libico Abdelbaset al-Megrahi esclude la Libia dalla comunità internazionale per tutti gli anni novanta.
La nuova era geopolitica che si apre l’11 settembre apre però la strada allo sdoganamento di Gheddafi. Il Colonnello si è detto pronto ad impegnarsi contro al Qaeda già nel 99. Dopo l’attentato alle Twin Towers si muove bene per rientrare in gioco. È il primo leader arabo a condannare senza se e senza ma il terrorismo internazionale. E quando cade il raìs a Baghdad, lancia l’operazione trasparenza sulle armi di distruzione di massa, rinunziando al programma chimico e nucleare. L’ultimo passo è la piena assunzione di responsabilità per l’attentato di Lockerbie (agosto 2003).

Tony Blair già nel 2004 vola a Tripoli, per incontrare «un forte alleato nella guerra internazionale contro il terrorismo». Nicolas Sarkozy è il primo a offrire la piazzola per la tenda (nei giardini dell’Hotel Marigny), ospitando Gheddafi a Parigi a fine dicembre 2007, in cambio di una ventina di Airbus e una sfilza di accordi commerciali. Pochi mesi dopo passa da Tripoli anche Condy Rice per «migliorare il clima per gli investimenti americani». La stretta di mano tra Barack Obama e Muammar Gheddafi al G8 dell’Aquila pare la fine di un’epoca.

Quell’estate però, il trionfale ritorno in patria dello stragista malato (?) al-Megrahi ammonisce sui rischi che si corrono ad avvicinarsi troppo al raìs. Il sospetto che Londra abbia barattato la “compassionevole” liberazione del terrorista con nuove opportunità economiche viene accreditato dalla stessa famiglia Gheddafi. E svergogna il governo britannico anche di fronte all’alleato americano. Business is business ma non va esposto con brutalità.
Ed è pensando al business e alla stabilità perduta, oltre che ai diritti umani violati, che la comunità internazionale segue il tragico evolversi della crisi libica. Solo i più sprovveduti nascondono la testa sotto la sabbia. Gli altri condannano e premono. Ma nessuno se la sente di raccogliere gli appelli che chiedono di fermare il genocidio.