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Il rivolo di lava

di Ugo Gaudenzi - 26/02/2011

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Un secolo fa iniziava il disfacimento dell’impero ottomano. Ai vilayet turchi si sostituirono gli artigli d’Occidente.
Una polverizzazione “scientifica” dell’Arabia Felix, una nazione unica, in tanti territori divisi tra loro per dominarli meglio. Anche perché ricchi di materie prime. E comunque perché strategici: come l’Egitto o la fascia nordafricana dalla Libia alla Tunisia all’Algeria e al Marocco. Da governare “su mandato” o da affidare a capiclan locali su cui contare. Sceicchi o emiri, o re in qualche modo discendenti dal Profeta.
Una costruzione a tavolino, “con squadra e compasso” come attuata dai signori diplomatici di Gran Bretagna e Francia Sykes e Picot ancor prima della fine della prima guerra mondiale e della disfatta turca.
Un banchetto coloniale al quale chiedeva di partecipare - e partecipò - anche l’Italia appena riunificata, con l’occupazione della Cirenaica, di Antalya, del Dodecaneso e quindi di tutta l’attuale Libia.
Dopo la sconfitta nell’ultima guerra, l’Italia, messa fuori dalle porte dell’Arabia dai vincitori che, tra l’altro, non avevano gradito il suo sostegno ai nazionalisti in Iraq o in Palestina, era riuscita tuttavia a riconquistare un suo ruolo collaborativo e paritario con i suoi vicini dell’altra sponda del Mediterraneo.
Merito di Enrico Mattei, in particolare, ma anche - non è un peccato ammetterlo - di governanti allora forse politicamente capaci di guardare un po’ più in là del loro naso e per di più attratti da idee di lucro.
Con corollari che possono piacere o non piacere, ma che tali restono. Nel caso libico, il sostegno italiano, ad esempio, a Gheddafi contro gli armati che lo volevano rovesciare per riportare Idriss sul trono; la jattanza del colonnello contro gli italiani di Libia colpevoli soltanto di aver partecipato alla rinascita di quello Stato; le isterie di un ex leader carismatico che, dopo aver esautorato il suo compagno di rivoluzione, Jallud, è rientrato nella pratica tribale del potere ereditario; le richieste roboanti di danni di guerra (ovviamente senza restituzione dei finanziamenti pubblici allora destinati dall’Italia alla Libia) e così via.
Bene. Si da’ il caso, ora, che di fronte a tutta la polveriera araba in deflagrazione, l’attenzione sia rivolta non tanto ai morti arabi (quelli, si sa, non contano), né a cosa accadrà in Egitto (dove la bolla della “rivoluzione di Google” si è sgonfiata miseramente) o in Tunisia, o in Aden, o in Algeria, o nel porto ormai insicuro dove ormeggia la VI Flotta Usa, il Bahrein, ma su quanto accade a Tripoli.
Dove sta accadendo un semplice fatto: il colonnello Gheddafi - autoproclamatosi Guida del suo popolo - non ha più un popolo che lo ritiene sua Guida.
Evento amplificato dal megafono mediatico dell’Occidente che trepida per quello che potrebbe essere il totale disfacimento, questa volta, del proprio impero nella regione.
Anche se, deviando l’attenzione dal vulcano per seguire un rivolo di lava, si guadagna soltanto un po’ di tempo.