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Quando la Libia era proprietà delle compagnie petrolifere

di Tonino Bucci - 01/03/2011




Un libro reportage di MacFarquhar, corrispondente per il Medio Oriente del "New York Times"

L'informazione italiana, notoriamente, non è molto prodiga sulle questioni internazionali. Prendiamo il caso dell'Africa mediterranea. Se ne sa in media poco o nulla. Grosso modo, la rappresentazione più diffusa dell'altra sponda del Mediterraneo è quella di una terra di orde barbariche in procinto d'invadere le nostre città e le nostre laboriose province. Quanto a questo, l'Italia non ha fatto grandi passi in avanti nella rielaborazione del proprio passato di paese colonialista. In fondo, al livello di memoria pubblica, non ci siamo spostati molto dalla retorica fascista della quarta sponda, coniata da Italo Balbo per designare i possedimenti di Tripolitania e Cirenaica, che dovevano essere il primo passo verso la costruzione della Grande Italia imperiale e mussoliniana.

Torniamo ai nostri giorni. Le rivolte popolari nell'Africa maghrebina hanno preso alla sprovvista gli opinion makers di casa nostra. I moti di piazza che hanno rovesciato i regimi autocratici di Tunisia ed Egitto sono insurrezioni spontanee, trasversali, composite. Una miscela sociale esplosiva, alimentata per un verso dal disagio di ceti popolari messi a dura prova in questi anni da politiche economiche liberiste e, per un altro verso, dalle frustrazioni di un ceto medio alla ricerca di maggiori spazi di libertà. Ma la vaghezza dei reportage giornalistici sconta anche i limiti soggettivi e culturali dei commentatori. Innanzitutto, pesa la scarsa conoscenza della storia dei paesi mediterranei, a maggior ragione di quelli come la Libia le cui vicende passate sono intrecciate alla nostra storia nazionale. In secondo luogo, a rendere talora indigeribili i commenti giornalistici è la retorica, la consuetudine ipocrita e cinica di un occidente che utilizza l'argomento dei diritti umani a intermittenza, a seconda delle convenienze. Per averne conferma basta guardare alle variazioni di registro nei ritratti di Gheddafi sui media, da grande amico della nazione italiana a despota sanguinario. Più che una prova di sensibilità verso le repressioni a danno degli insorti libici, questa è la prova di pragmatismo di chi fino all'altro ieri chiudeva un occhio sì, e l'altro pure, di fronte ai diritti negati di migliaia di migranti rinchiusi da Gheddafi nei campi di detenzione.

Ma la domanda meno frequentata è un'altra: che rapporto c'è tra il Gheddafi "prima maniera", quello della rivoluzione nazionale e anticoloniale che restituì il petrolio alla Libia togliendolo alle compagnie occidentali, e l'ultimo Gheddafi, tragica caricatura di se stesso? Cosa ha a che fare il leader cui vengono imputati crimini di massa, dato per asserragliato nel suo bunker, e il capo del colpo di stato contro Idris, il re fantoccio e servo degli inglesi? E' mai realmente esistita la Giamahiria araba, popolare, di vago orientamento socialista di cui Gheddafi menava vanto nel Libro Verde? Forse qualche indizio può darcelo Neil MacFarquhar, corrispondente dal Medio Oriente per il New York Times e autore di un libro dal titolo semiserio, L'ufficio stampa di Hezbollah ti augura buon compleanno (Utet, pp. 450, euro 1Cool. MacFarquhar ha vissuto parte dell'infanzia proprio in Libia. «Vivevamo a Marsa Brega, sulle coste sabbiose del Mediterraneo, dove mio padre, ingegnere chimico, sovrintendeva a una raffineria e a un impianto per la desalinizzazione dell'acqua. La cittadina era stata costruita da una delle maggiori compagnie petrolifere del mondo - la Esso - per raffinare e spedire via nave il greggio di buona qualità estratto dai giacimenti nel deserto del Sahara». Lo scenario è quello di un'enclave, trenta chilometri quadrati di deserto recintati dalla compagnia petrolifera per timori di sabotaggi da parte degli oppositori del re Idris. «Brega in realtà aveva un'aria più texana che libica».

La mattina del primo settembre 1969 arriva la notizia del colpo di stato contro la monarchia, per opera di un gruppo di ufficiali guidato da un capitano ventisettenne, Muammar al-Gheddafi. «Diceva di ispirarsi a Gamal Abdel Nasser, il presidente dell'Egitto, e predicava il socialismo e l'unità araba». In Libia MacFarquhar tornerà anni dopo, nelle vesti di corrispondente. «Adesso, quasi trent'anni dopo, Gheddafi aveva l'aspetto grinzoso di una rock star che provi a surrogare la giovinezza perduta con un guradaroba appariscente. Faceva pensare a Mick Jagger». L'immagine è quella ricorrente di un personaggio eccentrico, imprevedibile, scontroso, «L'istrionismo volubile, spesso adolescenziale, di Gheddafi sembrava l'incarnazione della forma di caos controllato che caratterizzava sia la politica sia l'economia della Libia e che, aspetto ancora più importante, garantiva il lungo regno del Colonnello.

Gheddafi aveva definito questo stato di cose "rivoluzione permanente", ritagliando per sé il ruolo del leader lungimirante, della guida. Secondo la definizione del suo stesso sito web, Gheddafi era la "Guida nell'Era delle Masse"». «Ufficialmente, in Libia era il popolo a governare. In pratica, però, il popolo non governava un bel niente. Tuttavia, il paese intero si fermava quando si riunivano i Comitati del Popolo». Si discute di «faccende strettamente interne, ma a volte c'erano in ballo anche problemi di politica estera». «Le riunioni dei Comitati rivelavano come il cittadino comune, nei Paesi arabi, sia perfettamente consapevole che la società in cui vive non è al passo con il resto del mondo: la gente non ne può più né dell'incompetenza dei governanti, né dell'imprevedibilità della vita quotidiana». «Mi sembrava che esistessero due Libie», «quella di Gheddafi, uno stato ricco grazie al petrolio, che smaniava per ottenere qulche riconoscimento sul palcoscenico mondiale», «l'altra Libia era il paese dove vivevano i restanti 5 milioni di abitanti». «Tutti i libici con cui ebbi modo di parlare erano furibondi perché erano convinti di trarre troppi pochi benefici dalle opulente entrate petrolifere».