Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Un parallelo tra la tumultuosa epoca di Sant’Agostino e i giorni nostri

Un parallelo tra la tumultuosa epoca di Sant’Agostino e i giorni nostri

di Silvia Ronchey - 08/03/2011

http://i82.servimg.com/u/f82/11/42/57/42/teodos10.jpg


Tra il quarto e il quinto secolo dopo Cristo l’impero romano era assediato dai barbari: Goti, Vandali, Galli, Unni, Alani, Persiani, Saraceni, Sassoni, Alamanni, Sciti, Ircani, Sarmati, Quadi, Burgundi, Vidini, Agatirsi, Scordisci. Quell’epoca, che gli storici avrebbero chiamato «la Decadenza», fu descritta da un tormentato filosofo nordafricano, Agostino, che assistette al sacco di Roma dei Visigoti nel 410 e lo interpretò come il segno dell’imminente fine di una civiltà e del sorgere di un’altra a lei contrapposta. Pochi decenni dopo Roma avrebbe subito un secondo, ancora più epocale saccheggio, da parte dei Vandali, che la raggiunsero per via d’acqua salpando dalla costa della Tunisia.
Nel frattempo, anche e soprattutto fuori della capitale, le province erano in fiamme, in un incendio etnico e religioso che investiva l’impero mediterraneo e le sue zone di «irradiazione spaziodinamica» che Braudel avrebbe chiamato Mediterraneo Maggiore. Sembrava proprio che si stesse avvicinando la fine del mondo. O, almeno, la fine di un mondo.
Del grande sommovimento etnico cui un tempo gli storici davano il nome di «invasioni barbariche», ma per il quale oggi si usa più correttamente la definizione inglese di Migration Period a sua volta calcata su quella tedesca di Völkerwanderung - «movimento di popoli» appunto -, gli storici hanno voluto scorgere cause a volte tanto bizzarre quanto sorprendentemente attuali. Per esempio il cambiamento climatico - allora di segno opposto all’effetto serra -, secondo alcuni causa dello smottamento a catena di popolazioni. O l’avvelenamento da piombo - all’epoca provocato non dall’inquinamento atmosferico ma dalle stoviglie e dagli utensili -, che avrebbe indebolito le popolazioni cittadine, rendendole più vulnerabili a febbri ed epidemie, incrementate peraltro dall’ampliarsi dei bacini microbici a seguito dei fitti scambi consentiti dall’immensa rete viaria dell’impero tardoantico. Un precedente delle odierne pandemie, virali o batteriche, favorite dalla facilità dei trasporti e dai continui spostamenti nel mondo globalizzato?
Molto più certo e fondamentale il ruolo della Grande Crisi, che nel terzo secolo aveva depauperato l’impero e disintegrato il potere economico con cui Roma controllava, a suon di tributi, le etnie «barbariche» lungo le vaste frontiere geopolitiche della sua influenza. Di questi veri e propri ancorché fluidi stati satelliti il «gendarme mondiale» dell’epoca aveva condizionato le rudi élites, colmandole di privilegi e regalie e garantendo così la propria egemonia imperialistica, espansionistica o difensiva, sul piano militare come su quello economico e sociale.
Dopo la Grande Crisi, le cose cambiarono. E mentre le periferie dell’impero erano devastate da lotte etnicoreligiose e rivolte per il pane, la vita politica e civile della Città Eterna era caduta tanto in basso quanto mai nella sua lunga storia. Ammiano Marcellino raccontò angosciato la lussuria sessualedei nobili, l’avidità dei ricchi, l’inutile vita dei plebei tra alcol e stadio, i loro deprecabili cibi.
Marcellino considerava particolarmente perniciosa per la società del suo tempo una minoranza turbolenta: i cristiani. La loro religione era, secondo lui, troppo assoluta. Trovava pericolosi l’integralismo dei nuovi monoteisti e la loro disinvolta vicinanza con la morte, che non temevano, considerando la vita individuale come eterna. Di recente si è istituito un parallelismo tra il cristianesimo «talebano» che insanguinò il Nordafrica tra la fine del quarto e l’inizio del quinto secolo e le frange fondamentaliste con cui l’attuale Islam sembra infiltrare o comunque estremizzare le rivolte nuovamente divampate in quelle regioni del globo. L’anno scorso il film Agorà di Alejandro Amenábar ha narrato i tumulti di piazza nell’Egitto dell’epoca, culminati nel feroce assassinio di una tollerante filosofa, Ipazia, sotto gli occhi della più moderata classe dirigente cristiana rappresentata dal suo allievo Sinesio, in seguito vescovo di Tolemaide nell’attuale Libia. L’assassino di Ipazia, il patriarca cristiano Cirillo, era presentato nel film come un terrorista e i suoi adepti come integralisti islamici, perfino nell’accento.
A un anno di distanza, guardando con sgomento esplodere, dopo i Balcani, dopo il Caucaso, dopo le antiche Mesopotamia e Battriana, oggi Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, anche le tradizionalmente più occidentalizzate nazioni del Nordafrica - l’Egitto di Ipazia, l’Algeria di Agostino, la Libia di Sinesio -, molti sono tentati di pronosticare di nuovo un’apocalittica «fine» del nostro mondo, nel cosiddetto odierno «scontro fra civiltà» come nello scontro tra paganesimo e cristianesimo segnalato da Agostino.
Se l’attualizzazione storica è sempre forzata - per esempio il ruolo di «gendarme internazionale» esercitato da Roma era certo molto diverso da quello degli Usa, impero in senso stretto il primo, mai stato tale il secondo -, non è per questo meno legittima. Se ogni epoca legge la storia antica con gli occhi del presente, è non solo possibile, ma anche auspicabile leggere il presente guardando alla storia antica. Come diceva Tucidide, è a questo che serve la storia: a proporre, attraverso la «diagnosi» dei fatti passati, una «prognosi» di quelli futuri.
Ma gli storici hanno ormai fatto giustizia dello stereotipo della «decadenza». I cosiddetti barbari finirono per integrarsi nei meccanismi di governo e nelle classi dirigenti dell’impero. Alla «caduta silenziosa» della sua parte occidentale nel 476 è opposto oggi il prosperare millenario della «Seconda Roma» fondata da Costantino sul Bosforo: un impero in cui le civiltà in apparente scontro e le religioni in apparente antitesi avrebbero continuato a convivere e a integrarsi a vicenda, creando un ponte tra Oriente e Occidente, tra popoli e tra civiltà.