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Ritrovare un linguaggio comune, fuori dalla logica della contrapposizione civile

di Francesco Lamendola - 17/03/2011

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L’Italia è bloccata: lo dicono, concordemente, gli economisti, i sociologi, i politologi e Dio sa chi altri ancora.
Non sa sfruttare le sue eccellenze, eppure ne possiede non poche: mi diceva un’amica arredatrice, di ritorno da un viaggio di lavoro a Parigi, che in Francia gli operai si presentano nelle case in cui devono lavorare, senza nemmeno prendersi il disturbo di portare con sé la valigetta degli strumenti; chiedono in prestito il martello di qua, le tenaglie di là (tanto che pare ci sia un detto, a Parigi, secondo il quale con un cacciavite si mette su un’impresa); in tutta Europa, soltanto i Tedeschi lavorano altrettanto bene degli Italiani.
Non sa sfruttare il suo immenso patrimonio storico, archeologico, artistico e naturale, che sarebbe il suo vero petrolio: possiede il più alto numero di siti dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità, ma ci guadagna la metà, un terzo o un quarto di quel che ci guadagnano altri Paesi, che ne hanno molti di meno: fa scappare i turisti con la sua incuria, lascia andare in rovina i suoi tesori, assiste rassegnata al loro furto quotidiano; con un ministro per i Beni e le Attività Culturali che, per mesi, non è scomodato nemmeno a recarsi nel suo ufficio.
Non sa essere previdente: Paese sismico fra i più a rischio del mondo, ogni volta che la Terra trema, si lascia sorprendere in maniera quasi incredibile: e Dio sa quante vittime avrebbe fatto, da noi, un terremoto della forza di quello giapponese; Paese ormai gravemente dissestato dal punto di vista idrogeologico, ogni volta che piove per due giorni di seguito, deve contare i suoi disastrosi allagamenti, i suoi danni per miliardi di euro, i suoi morti; e intanto continua a costruire abusivamente, a disboscare, a cementificare ovunque il proprio territorio (ha la più alta percentuale di superficie edificata in Europa).
Non sa risparmiare, né stabilire delle priorità: il mancato accorpamento della data dei referendum con quella delle prossime elezioni amministrative (operazione voluta nel meschino e trasparente desiderio di far mancare il quorum dei primi) verrà a costare 300 milioni di euro, ossia 5 euro a testa per ogni cittadino italiano; in compenso, siccome le celebrazioni per il centocinquantennale dell’Unità d’Italia costerebbero troppo e, secondo la Lega e la Confindustria, non possiamo permetterci le spese relative, saranno i lavoratori a pagare gentilmente per quella giornata lavorativa che andrà persa.
Non impara mai nulla dalle lezioni del passato: non sa tesaurizzare l’esperienza, non sa farne materia di riflessione e di evoluzione, per cui ripete sempre gli stessi errori, va sempre a sbattere contro lo stesso albero, credendo che sia una foresta; forse anche perché assiste indifferente al continuo stillicidio di cervelli che prendono la via dell’estero: quel 5% creativo che costituisce l’ossatura di una data società, senza il quale un popolo non è che una massa amorfa d’ignavi e di conformisti, un gregge che qualunque mandriano, bene o - più spesso - male intenzionato, può condurre e trascinare dove vuole.
Non possiede costanza, tenacia, perseveranza: popolo di immaginativi, di creativi e di emotivi, gli Italiani sono capaci di brillanti intuizioni e di autentici colpi di genio, ma faticano a portare avanti un lavoro di lungo periodo, i cui frutti non si vedano subito; perfino una guerra di lunga durata, se proprio devono farla - come accadde con l’ultima - la fanno di malavoglia, senza credere in se stessi, anzi, facendo di tutto per perderla: salvo poi voltare bandiera e consolarsi con l’essere stati essi pure vincitori, dopotutto (ma contro se stessi, in una tremenda guerra civile).
Infine, non si vuol bene: questo è il suo male nascosto, il suo cancro segreto, che ne mina e ve vanifica le enormi potenzialità.
Gli Italiani sono l’unico popolo al mondo che parlano continuamente male di se stessi, anche e soprattutto davanti agli stranieri; e non lo fanno quasi mai per evidenziare difetti che si vogliano superare, ma in maniera distruttiva, con compiaciuto furore masochista, con una sorta di «cupio dissolvi» che, poi, altro non è se non l’alibi per poter continuare a sbagliare, a intrallazzare, a fare i furbetti peggio di prima.
L’Italia vuol bene solo ai suoi calciatori, anche se perdono sempre, e perdona senza limite le malefatte dei suoi politici ed amministratori, anche se nei bar e sugli autobus si dice di loro peste e corna: nessun popolo al mondo è altrettanto generoso con i propri cialtroni, quando essi occupano posizioni importanti nella società; nessuno è, almeno a parole, altrettanto severo con se stesso, anche quando le persone normali, che vivono onestamente del proprio lavoro, non avrebbero proprio nulla da rimproverarsi.
Così, a forza di imprevidenza, faciloneria, colpevole ignoranza e inafferrabili sensi di colpa, subito lavati in un bagno purificatore di auto denigrazione, l’Italia si è cacciata sempre più in un vicolo cieco, e adesso ha finito per trovarsi davanti ad un muro.
Il cittadino non ha più fiducia nello Stato, lo Stato non ne ha mai avuta nei propri cittadini: mai, fin dall’inizio: altrimenti, Cavour e i Savoia non avrebbero fatto l’Italia con l’aiuto delle armi straniere, ma facendo appello al popolo; del quale, invece, avevano paura, senza peraltro conoscerlo (Cavour stesso era stato a Londra e a Parigi, ma non si era mai spinto più in giù di Firenze).
Manca una classe dirigente degna di questo nome: basta ascoltare le interviste di Marchionne, i discorsi della Marcegaglia, gli sproloqui di Ferrara, i bizantinismi del Parlamento, dalla destra alla sinistra, per rendersene conto. Se un terremoto come quello del Giappone si verificasse nel nostro Paese, ci vorrebbe poi un secolo per rimetterlo in piedi: e non solo perché, come si è visto all’Aquila, le case vecchie resistono e quelle nuove di zecca vanno giù come castelli di sabbia; ma proprio perché non abbiamo un classe dirigente capace di fronteggiare una tale emergenza: anzi, a dire il vero, nemmeno a fronteggiare l’ordinario (vedi le immondizie di Napoli).
Come se ne esce?
Forse è giunta veramente l’ora di firmare una specie di armistizio sociale; o, quanto meno, una tregua d’armi.
Siamo sempre stati bravissimi a dividerci, a odiarci, a far di tutto non per realizzare qualcosa, ma per impedire ad altri di realizzarla; a fare in modo che una metà degli Italiani riesca a far fallire i disegni dell’altra metà.
Siamo sempre quelli dei tempi in cui l’Italia era divisa in Guelfi e Ghibellini, in Guelfi Bianchi e Guelfi Neri; e in cui la Penisola era percorsa da torme di esuli cacciati dalle propria città per mano dei loro avversari politici, e il cui scopo principale era quello di organizzare il ritorno e la vedetta, magari con l’aiuto di qualche città nemica o di qualche potenza straniera.
L’importante, per noi, non è affermare un’idea, realizzare un progetto, concludere un disegno: ma boicottare, insidiare, danneggiare quelli altrui; l’importante è trovare una bandiera dietro la quale poter marciare contro qualcosa o contro qualcuno.
L’attuale presidente del Consiglio, che è bravissimo nello sfruttare questa perversa psicologia di massa, è riuscito a far sì che metà degli Italiani lo sostenga, anche in presenza dei peggiori scandali legati alla sua persona e al suo governo, avendoli convinti che egli è vittima di una persecuzione e di un odio ingiustificato da parte dell’altra metà degli Italiani: in breve, alimentando perennemente un clima da guerra civile. E i suoi avversari sono stati così sciocchi, così puerili, così nulli dal punto di vista politico, da aver fatto in pieno il suo gioco, fino a costruire un autentico partito la cui bandiera è puramente negativa: quella di mandare a casa lui e i suoi.
Siamo vittime di un cerchio stregato, prigionieri di un sortilegio.
Dobbiamo riscuoterci, dobbiamo reagire: l’Italia si merita qualcosa di meglio di questa commedia delle parti; e, soprattutto, la sua gente si merita qualcosa di meglio di questa eterna, sterile contrapposizione, che va molto oltre la (modesta) figura dell’attuale capo del governo.
Dobbiamo ritrovare le ragioni dell’unità; dobbiamo ritrovare le ragioni del bene comune, il senso della vita associata.
Non abbiamo alternative.
O riusciamo a compiere questo salto di qualità, oppure noi, che pur siamo un grande Paese, precipiteremo nel caos e diventeremo, di nome e di fatto, una colonia di qualche altra potenza: perfino della scalcinata dittatura di un Gheddafi.
Per riuscirci, dobbiamo in primo luogo ritrovare un linguaggio comune: perché, finora, non ne siamo stati capaci, ma ci siamo resi schiavi di linguaggi artefatti, ideologici, estremisti, che ci hanno resi capaci soltanto di insultarci reciprocamente o, nel migliore dei casi, di ignorarci; certo, non ci hanno reso facile il capirci gli uni con gli altri.
Abbiamo quasi disimparato a parlare il linguaggio dei fatti: parliamo ormai quasi soltanto il linguaggio degli stereotipi, degli slogan, delle opinioni più strampalate: la stampa e i telegiornali per primi. Dobbiamo ricominciare a guardare i fatti e a lasciar perdere tutto l’armamentario delle idee precostituite.
Molte persone, pur essendo in buona fede, sono preda di questa schizofrenia: non ascoltano più i fatti, non lasciano parlare il proprio buon senso: pensano e parlano come hanno insegnato loro giornali e telegiornali di partito e di parrocchia.
Se, per esempio, vedono che il presidente del Consiglio è messo sotto processo per tutta una serie di reati, concernenti tanto la sfera pubblica che quella privata, essi insorgono contro la magistratura politicizzata che sta perseguitando il loro leader. Certo, non si può negare che una certa magistratura sia politicizzata; e non si può negare, onestamente, che ciò non sia un bene per nessuno.
Tuttavia, la domanda giusta che i cittadini dovrebbero farsi, comunque la pensino politicamente, crediamo dovrebbe essere soltanto se quei reati siano stati commessi, oppure no; e, invece di anticipare il giudizio in base alle loro simpatie personali, dovrebbero augurarsi che i processi si svolgano il più resto possibile. A quel signore, poi, non mancano certo i soldi e gli avvocati per difendersi in ogni maniera possibile; a differenza di quel che capita al comune cittadino, allorché si veda imputato di qualcosa e, magari, sia perfettamente innocente.
Questo significherebbe ritrovare un linguaggio comune: il linguaggio dei fatti, della trasparenza, della buona volontà; il linguaggio di chi vuol capire, di chi vuol ragionare con la propria testa e non sa che farsene della parlantina dei politici, delle loro chiacchiere truffaldine - e di quelle dei giornalisti che stanno sul loro libro paga.
Bisogna riportare le cose nella giusta prospettiva: essere pro o contro Berlusconi, specialmente quando si parla delle sue vicende giudiziarie, non ha niente a che fare con l’essere di destra o di sinistra.
E poi bisogna fare un passo ulteriore, e convincersi che anche l’essere di destra o di sinistra non ha niente a che fare con l’essere dei cittadini onesti e rispettosi della legalità, e meno ancora con l’essere delle persone perbene (una persona veramente perbene, in casi eccezionali, può anche vedersi costretta a derogare dalla legalità, mai però dalla moralità).
Dobbiamo lasciarci alle spalle i fantasmi della guerra civile; ma questo sarà possibile solo quando riconosceremo che una guerra civile c’è stata, anzi che ce ne sono state almeno quattro nel corso del Novecento (quella del 1919-22; quella del 1936-39, anche se combattuta all’estero, e precisamente in Spagna; quella del 1943-45 e quella degli anni ’70, gli anni «di piombo»); e che l’ultima, in effetti, non è mai termina del tutto, perché i suoi tizzoni covano ancora sotto la cenere.
Le forze oscure che l’hanno voluta - i servizi segreti deviati, i servizi segreti di alcune potenze straniere, la P2, certi ambienti della finanza che si muovono in complicità con la mafia, come si vide nell’affare Sindona - sono ancora vive e vegete, accampate al centro della tela, come il ragno che se sta in paziente attesa di sorprendere la sua preda.
Dobbiamo strappare la tela malefica e schiacciare con il tacco della scarpa quel ragno velenoso.
Ma, per prima cosa, dobbiamo ricostruire le basi di una nuova convivenza civile, basata sul ripristino dell’idea del bene collettivo: a cominciare dal recupero di un linguaggio comune.