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È storicamente giusto vedere in Giordano Bruno un martire del libero pensiero?

di Francesco Lamendola - 24/03/2011




La figura di Giordano Bruno, perfino quasi più della sua filosofia, è una di quelle che dividono appassionatamente, né ha ancora cessato di dividere.
Difficile, se non impossibile, liberarsi dall’alone romantico che lo avvolge e restituire alla sua figura i tratti oggettivi che, soli, potrebbero permetterci di comprenderla, all’interno del suo vero contesto storico.
Tutti hanno preteso di vedere in lui quello che volevano: il panteista, il platonico, l’eretico, il mago, il ribelle, il libero pensatore; tutti hanno voluto farne una bandiera, da innalzare o da gettare nel fango: pochi hanno cercato di capirlo, senza forzare il suo pensiero.
Egli è ancora un segno di contraddizione, una ferita aperta nella coscienza europea; ancora ci si scontra sul significato e sul valore della sua lezione e su quello della sua tragica morte.
I massoni hanno voluto farne un eterno atto d’accusa contro il clericalismo: e la statua che hanno eretto al centro del Campo de’ Fiori, in Roma, avrebbero voluto che rinnovasse il sinistro rogo del 1600, un rogo ideale che brucasse, questa volta, e per sempre, la Chiesa cattolica.
Nemmeno loro, però, hanno rispettato il suo mistero, quel suo singolare impasto di Medioevo e di Rinascimento, quel suo audacissimo volare in alto, verso l’eternità e l’infinità dei mondi, oltre le ombre delle idee, usando però un linguaggio non di rado aspro, arrogante, sgradevole, trasudante superbia e disprezzo per i suoi contradditori.
Si è voluto farne un campione della tolleranza, della libera discussione, del rispetto per le opinioni diverse, quasi un Locke in anticipo di un secolo; di più: un filosofo sempre impaziente di ogni verità definitiva, sempre insoddisfatto di ogni certezza assoluta.
Michele Ciliberto, ad esempio (in: «Giordano Bruno», Bari, Laterza, 1990, 2005, p. 5) scrive che Bruno

«… fu sempre estremamente consapevole di sé, sia come uomo che come filosofo, ma, tranne casi eccezionali, non assunse mai atteggiamenti pregiudizialmente negativi verso altre posizioni filosofiche. È un tratto che l’immagine prometeica di Bruno, diffusa largamente  specie nella cultura popolare, ha contributo a cancellare quasi  interamente. Al contrario: Bruno ebbe sempre rispetto profondo per la tradizione filosofica e riconobbe più volte  la possibilità di arrivare alla verità per vie diverse, anche dalle sue. Ciò che ai suoi occhi conta è la capacità che ha ciascuna filosofia  di arrivare alla sostanza delle cose. E, a sua volta, questo è dimostrato dalla capacità che essa ha di produrre effetti positivi, fecondi dal punto di vista del convitto umano. La filosofia dannosa, falsa, è dunque quella sterile, senza frutti.»

Può anche darsi che egli nutrisse rispetto per le altre filosofie; ma, secondo noi, solo a condizione che non si ponessero di traverso alla sua. E quanto al rispetto per le concrete persone dei suoi interlocutori, lasciamo che a parlare siano i fatti.
Di se stesso, egli ha tessuto un elogio superlativo, paragonabile a quello che Lucrezio rivolge ad Epicuro nel «De Reum Natura», allorché il poeta latino paragona il filosofo greco poco meno che a un dio; dice Bruno, fra l’altro, nel Dialogo primo della «Cena de le ceneri», al colmo dell’autocompiacimento:

«Or ecco quello ch’ha varcato l‘aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia del le prime, ottave, none, decime, et altre che vi s’avesser potute aggiongere sfere per relazione de vani matematici, et cieco veder di filosofi volgari. Cossì al cospetto d’ogni senso et raggione, co la chiave di solertissima inquisizione aperti que’ chiostri de la verità che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta et velata natura: ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi che non possean fissar gli occhi et mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s’opponeno, sciolta la lingua a' muti che non sapeano e non ardivano esplicar gl'intricati sentimenti, risaldati i zoppi che non valean far quel progresso col spirto che non può far l'ignobile e dissolubile composto, le rende non men presenti che si fussero proprii abitatori del sole, de la luna ed altri nomati astri…»

Ne «La Cena de le ceneri» e nell’Antiprologo del «Candelaio», egli chiama i propri avversari «bifolchi, stolti, matti, sofisti, talpe, bestie, volgari, asini, tutti orbi, porci, barbagianni». Di quanti si oppongono alle sue opinioni, dice: «Hic corvi crocitant, lupi ululant, sues grugniunt, oves belant, mugiunt boves, hinniunt equi, rudiunt asini».
I suoi avversari, nello «Spaccio della Bestia trionfante», li vorrebbe «distrutti col fuoco e col capestro», vorrebbe essere boia lui stesso «per mandarli al supplizio»; e giudica che «si doveva stimare gran sacrifico agli dei  e beneficio al mondo di perseguitarli, ammazzarli e spegnerli dalla terra», perché essi sono «peggiori dei bruchi, delle locuste sterili e delle arpie: meritevoli di essere sterminati dal cielo e dalla terra, come peste del mondo; meno degni di misericordia che i lupi, gli orsi e i serpenti; onde è opera immensamente e incomparabilmente meritoria togliere questi apportatori di pestilenza e di ruina».
Anzi, ritiene che ammazzarli sia ancora troppo poco e ritorce loro contro, in modo atroce, la dottrina della trasmigrazione delle anime: infatti «ad essi è pena piccola ed improporzionata lo essere spenti e tolti di mezzo agli uomini: ed è giusto che, dopo morte, vadano ad abitare in porci, che sono i più poltroni animali della terra».
Tutto, dunque, si può fare di Bruno, o quasi tutto, tranne un campione della libertà di pensiero: questo va detto subito, a scanso di ricadere nella vieta mitizzazione del suo personaggio, gonfiato oltre ogni misura dagli intenti polemici di troppi suoi interessati estimatori.
In fondo, non gli si rende un buon servizio a volerne fare quel che egli non è stato; così come non si rende opera di verità quando ci si sofferma sulla crudeltà e sulla intolleranza della Chiesa cattolica, che lo condannò a morte dopo un processo durato otto anni, e si tace che, nella Ginevra di Calvino, si poteva essere mandati al rogo con altrettanta inflessibilità per dissensi teologici, come capitò al povero Michele Serveto, ma con un procedimento infinitamente più sommario e sbrigativo.
I tempi, vogliamo dire, erano quelli: il principio della libertà di coscienza era ancora di là da venire, non già nella sua formulazione esplicita, ma anche nella sua concezione puramente teorica: nessuno lo ammetteva e nessuno lo invocava, né i cattolici, né i protestanti: e Bruno, ex frate domenicano, era figlio di quei tempi, di quella cultura e di quella Chiesa.
Con la foga di un Lutero o di un Calvino, egli volle combattere per le idee che riteneva giuste e si propose di sostituire al cristianesimo una nuova religione filosofica, in parte deista e in parte panteista, quale nemmeno gli illuministi francesi, due secoli dopo, avrebbero osato concepire; limitandosi gli uni, gli Enragés, a tentare la pura e semplice scristianizzazione, gli altri, i giacobini, o meglio i soli robespierristi, a stabilire il culto dell’Essere Supremo, copia sbiadita e poco originale del vecchio Dio cristiano.
E perché non vi siano dubbi sui propositi ultimi del Nolano, citiamo nuovamente uno dei suoi maggiori studiosi e ammiratori contemporanei, il Ciliberto (op. cit., p. 29):

«Bruno arriva a Londra nell’aprile del 1583, e vi resta fino alla fine del 1585. Due anni e mezzo: non sono un periodo particolarmente lungo. Eppure per Bruno quei due anni e mezzo furono decisivi. Se a Parigi aveva cominciato ad avviare i motivi fondamentali della sua ricerca, a Londra li sviluppa in modo straordinario, portando a compimento autentici capolavori del pensiero europeo: la “Cena”, il “De la causa”, il “De Infinito”; e poi lo “Spaccio”, la “Cabala”, gli “Eroici furori”… In Inghilterra si definisce in modo articolato e preciso la nuova concezione dell’”Infinito, Universo e Mondi”; nel corso di un’aspra polemica con Lutero e i “pedanti riformati”, viene alla luce l’etica “operativa” dello “Spaccio”; SI PORTA, POI, A COMPIMENTO QUEL’OPERA DI DISSOLVIMENTO DEL CRISTIANESIMO DI CUI AVEVA POSTO LE BASI FIN DAGLI ANNI DEL CONVENTO, INTRECCIANDO, IN MODO ORIGINALE, LA LEZIONE DI ARIO A QUELLA DI ERASMO [lo stampatello è nostro].»

Togliamo di mezzo un possibile equivoco: la condanna di Giordano Bruno da parte del Tribunale dell’Inquisizione romana non faceva perno essenzialmente sulle sue affermazioni filosofiche, ma su quelle teologiche: la negazione della divinità di Cristo; la negazione del dogma della Trinità; la presenza reale di Cristo nel sacramento dell’Eucarestia.
La pluralità e l’eternità dei mondi, la trasmigrazione delle anime dopo la morte, l’adesione al sistema copernicano: tutte queste tesi filosofiche e scientifiche ebbero la loro parte nella condanna finale, ma non quella centrale, anche perché molte di esse potevano essere sostenute - e tale fu, a lungo, la linea difensiva di Bruno - dietro lo schermo della doppia verità: una che parla per simboli ed è destinata alle persone semplici; l’altra, invece, che si rivolge direttamente alla ragione ed è quella propria dei filosofi.
Il pensatore nolano, dunque condusse un attacco intenzionale dritto al cuore del cristianesimo, il cu obiettivo era la sua “dissoluzione”: si può, dunque, anzi, si deve deprecare la condanna di cui fu vittima, peraltro dopo averla collocata nel suo esatto contesto storico; ma non si può negare che gli inquisitori videro e riconobbero, nella sua dottrina, una volontà di sovvertimento delle basi teologiche del cristianesimo e non una filosofia che, a determinate condizioni, potesse risultare conciliabile, o almeno “neutrale” rispetto a quest’ultimo.
Negando la divinità di Gesù, ossia l’incarnazione del Verbo, si toglie la base stessa del cristianesimo: quello che resta può essere la morale cristiana, ma il cristianesimo come religione viene irrimediabilmente a scomparire. E il cristianesimo, in quegli anni, lottava disperatamente per sopravvivere: dietro la implacabile contrapposizione fra cattolici e protestanti, la vera posta in gioco non erano la libera interpretazione delle Scritture, la verginità di Maria o la funzione del Papa di capo supremo della Chiesa cattolica, ma la possibilità che l’idea cristiana, l’idea del Dio che si fa uomo, muore e risorge per la salvezza del genere umano, potesse venire preservata, custodita e trasnmessa in eredità alle generazioni future.
A Roma, a Wittenberg, a Ginevra, ci si batteva per far prevalere questa o quella interpretazione del cristianesimo; ma a Londra, ad Amsterdam e all’Aja ci si preparava, dietro l’apparenza di combattere il cattolicesimo in nome dell’anglicanesimo, del puritanesimo o del calvinismo, a scalzare praticamente, se non teoricamente, qualsiasi prospettiva religiosa e a predisporre il terreno per una strisciante, silenziosa ma radicale scristianizzazione della civiltà europea: tanto che un altro filosofo, George Berkeley, poco più di un secolo dopo, avrebbe giudicato talmente compromessa la situazione, da carezzare il progetto di rifondare letteralmente il cristianesimo al di là dell’Atlantico, fra le tribù degli Indiani d’America.
Con i Turchi che minacciavano Vienna da vicino e con i maggiori Stati cristiani, come la Francia, lacerati da sanguinosissime guerre civili a sfondo religioso, quel che si doveva decidere era se il messaggio cristiano avrebbe ancora potuto offrire le fondamenta spirituali per l’Europa futura; e ciò dopo che il Rinascimento aveva sostituito l’antropocentrismo al teocentrismo, l’edonismo e il naturalismo all’etica e alla pratica cristiana; e mentre la Rivoluzione scientifica, che già si annunciava per opera di uomini come Copernico e Francesco Bacone, introduceva sottilmente, ma inarrestabilmente, una prospettiva materialistica e meccanicista, avviata a corrodere la visione spirituale diffusa dalla plurisecolare esperienza cristiana.
Il pensiero di Bruno, dunque, rappresentava una sfida e una minaccia oggettiva per la visione cristiana del mondo, sotto l’aspetto teologico. Sotto l’aspetto strettamente filosofico, invece, il pensiero di Bruno risultava, certo, incompatibile con il cristianesimo; ma, forse, più per l’estrema audacia con cui egli lo espose, che per buona parete dei suoi contenuti.
Il platonismo, di per sé, non è affatto inconciliabile con il cristianesimo, prova ne sia che Sant’Agostino ne fece la base della filosofia cristiana medievale e tale rimase almeno fino a San Tommaso. La Kabbalah e le arti magiche, sia pure con molte cautele, avrebbero anch’esse potuto trovare una mediazione con la visione cristiana del mondo, dato che una operazione del genere era già stata tentata, entro certi limiti, ed era parzialmente riuscita, dai filosofi del Rinascimento, specialmente dalla cerchia dei neoplatonici fiorentini; e lo steso dicasi per l’arte lulliana.
I due elementi realmente difficili da conciliare con il cristianesimo erano il materialismo di matrice epicurea ed il copernicanesimo, quest’ultimo portato da Bruno molto al di là delle sue premesse teoriche: presentato, cioè, non solo come assoluta certezza e non come ipotesi matematica, peraltro senza alcun supporto di tipo scientifico; ma anche come premessa e condizione per la dottrina della pluralità ed eternità dei mondi, che non solo scalza l’antropocentrismo umanistico, ma compromette anche, irreparabilmente, l’idea della creazione divina dell’universo «ex nihilo».
A ben guardare, il tramonto del cosmo antropocentrico non costituisce, di per sé, un elemento inconciliabile con il cristianesimo, perché, al contrario, può servire al ristabilimento del senso del limite e a riportare l’immagine del mondo alla precedente visione teocentrica, messa alquanto in ombra dall’immanentismo e dal naturalismo rinascimentali.
Non è, quindi, la concezione copernicana del sistema solare a mettere in crisi la teologia cristiana: e infatti quest’ultima, in un secondo tempo, ha potuto benissimo stabilire un «modus vivendi» con essa; e non lo sarebbe stata nemmeno la teoria della infinità dell’universo, se fosse stata presentata con la necessaria cautela e, diciamolo pure, con un minimo di umiltà, ossia come una mera ipotesi speculativa e non con un tono di orgogliosa e apodittica sicurezza.
Perfino la concezione naturalista può riuscire a convivere con la visione cristiana del mondo, come è dimostrato dal caso di Bernardino Telesio, il fondatore del naturalismo rinascimentale e grande ispiratore di Bruno, il quale, rimasto vedovo, si era visto offrire dal papa Paolo IV in persona la nomina ad arcivescovo di Cosenza, previa l’ordinazione sacerdotale (nomina che egli rifiutò a favore di suo fratello Tommaso).
Il fatto è che i singoli elementi della filosofia di Bruno, non sempre tra loro opportunamente armonizzati, passano in seconda linea rispetto al suo disegno complessivo, che è, come onestamente riconosciuto dal Ciliberto, di segno nettamente anticristiano. Non è questo o quell’aspetto della sua filosofia, ma il senso complessivo di essa, l’orientamento che egli le imprime per farne lo strumento di una radicale sovversione del cristianesimo, il vero oggetto del contendere fra lui e l’Inquisizione, fra lui e la Chiesa; che si aggiunge all’attacco diretto, in sede teologica, ad alcuni dogmi centrali del cristianesimo, primo fra tutti la dottrina della transustanziazione.
È pur vero che Tommaso Campanella, muovendo da una prospettiva filosofica che presenta non poche analogie con quella bruniana, riuscì, fino all’ultimo, a conciliare il suo pensiero con i dogmi fondamentali del cristianesimo: e qui, crediamo, hanno giocato la duttilità e la propensione a mediare di Campanella, la sua prudenza, se si vuole: tratti che, nella personalità del Nolano, sembrano mancare del tutto, soverchiati da una ambizione e da un amore della gloria scientifica e filosofica, che tendono a far passare in seconda linea tutto il resto.
Si ha l’impressione, quindi, che lo scontro irriducibile tra la filosofia di Bruno e la Chiesa cattolica sia stato notevolmente aggravato da circostanze esteriori - il momento drammatico che la seconda stava attraversando, le complesse e non sempre chiare vicissitudini del nolano all’epoca in cui era frate domenicano, prima di trasferirsi all’estero - nonché dalla irruenza dialettica del filosofo, dalla superbia intellettuale e dall’ostentato disprezzo per le opinioni contrarie alle sue, quand’anche non vi fosse stata - come, in effetti, v’era - una incompatibilità di fondo tra il suo pensiero e la visione cristiana del mondo.
Ma proprio perché più entusiasta e più impulsivo, Bruno possedeva anche una maggiore consequenzialità logica di Campanella: egli vide chiaro ciò che il secondo, forse, non vide o non volle vedere: che, cioè, la nuova visione “copernicana” dell’universo - tendenzialmente materialista, meccanicista e irreligiosa - non avrebbe potuto affermarsi nelle coscienze, se non attraverso una lotta a morte con la concezione cristiana.
Bruno, del resto, piace molto ai moderni: dal Romanticismo in poi (altro movimento culturale essenzialmente incompatibile col cristianesimo, essendo largamente poggiato su una concezione “pagana” della natura e sulla nostalgia per la perduta unità e armonia di umano e divino, di finito e infinito, che il cristianesimo avrebbe spezzato), egli appare come il prototipo dell’eroe solitario e perseguitato, incompreso dai contemporanei, odiato dai poteri più retrivi della società e della cultura, coraggioso annunciatore di un mondo nuovo, gioiosamente spalancato sull’infinità dell’universo. La sua affermazione che esistono innumerevoli altri mondi abitati, al di fuori del nostro, piace alle più recenti correnti di tendenza New Age e ai cultori dei dischi volanti, non meno di quanto la sua impari lotta contro la Chiesa  entusiasma gli anticlericali.
Come si fa a non provare simpatia per una vicenda umana contrassegnata dalla continua, generosa tensione verso l’assoluto, dalla spasmodica ricerca della verità, dall’inquietudine, tutta moderna, per cui - foscolianamente - «bello di fama e di sventura», egli girò tutta l’Europa, mai senza pace, senza riposo, per diffondere ovunque il nuovo credo della sua filosofia?
Vi è molto del titanismo romantico e anche del titanismo nietzschiano, in lui; e Nietzsche, si sa, piace molto anche a coloro che non si sono mai presi il disturbo di leggerlo a fondo: piace per il superomismo, per l’eterno ritorno, per la prometeica rivolta contro tutto ciò che è cristiano e religioso.
Senonché, sovrapponendo - magari inconsciamente - la figura di Nietzsche a quella di Bruno, si finisce per perdere di vista i reali termini della filosofia di quest’ultimo, la specificità del suo messaggio, la storicità irripetibile del momento in cui visse e cercò di diffondere la propria dottrina.
Forse è giunto il tempo di fare un po’ meglio i conti con il pensiero di Giordano Bruno, accostandolo con mente serena e sgombrando la sua figura da elementi posteriori e da palesi ed occulte strumentalizzazioni.
Una volta sfrondato di ciò che non gli appartiene e restituito alla sua prospettiva originaria, resterà sempre una vasta e complessa costruzione su cui riflettere; una grandiosa, audace architettura, non sempre ben equilibrata; un albero rigoglioso e possente, alcuni rami del quale sono ancora verdi e vitali, mentre altri appaiono ormai secchi e, forse, morti.