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Spinoza e il miracolo: alle radici dell’intolleranza scientista contro il soprannaturale

di Francesco Lamendola - 26/03/2011




Si è voluto fare di Baruch Spinoza l’araldo e l’intrepido campione del libero pensiero, per quel vezzo del Pensiero Unico moderno che, conscio della propria pochezza filosofica e morale, se ne va attorno ad arruolare fra i propri antesignani tutti quei pensatori dei secoli passati che possono prestarsi alla bisogna, immettendo almeno un po’ di “noblesse” nel suo scarno e rachitico albero genealogico, in modo da retrodatare i propri fasti.
Certo: Spinoza, nel «Tractatus teologico-politicus», spezza una lancia, come si suol dire, a favore della laicità dello Stato, affermando che lo Stato deve garantire ai suoi cittadini libertà di pensiero, di espressione e di fede religiosa attraverso una politica di tolleranza; e che, proprio per questo,  non deve identificarsi con nessuna religione, limitandosi a lasciare campo libero a tutte le credenze e le pratiche che non mettano in pericolo la pace e la sicurezza della società.
Hobbes, però, aveva detto le stesse cose, con altrettanta forza e chiarezza e con un anticipo di circa vent’anni: il «Leviathan» venne pubblicato nel 1651, mentre il «Tractatus» spinoziano apparve, anonimo, solo nel 1670; eppure le circostanze della società inglese, allorché Hobbes scriveva e pubblicava la sua opera maggiore, erano infinitamente più difficili e complesse di quelle esistenti nei Paesi Bassi al tempo di Spinoza.
L’unica vera differenza consiste nel fatto che Hobbes pone l’accento sull’aspetto negativo, ossia sulla necessità, per lo Stato, di non ammettere che alcuna Chiesa sconfini nel campo delle proprie competenze; mentre Spinoza lo pone sull’aspetto positivo, ossia sulla necessità che lo Stato rispetti, nell’individuo, tutto ciò che la legge non proibisce, a cominciare dalla libertà di coscienza, che, essendo costitutiva della natura umana, sarebbe comunque fatica vana cercare di spegnere.
Hobbes è più duro, più spigoloso, più amaramente pessimista di Spinoza; ma le sue argomentazioni, come quelle di Machiavelli, hanno una forza tremenda, implacabile nella loro consequenzialità quasi brutale.
Spinoza, che passava per uomo mite e benevolo, dalla vita pressoché ascetica (quando non si divertiva a strappare le ali agli insetti e ad osservare come morivano nella sofferenza), è molto abile nel presentare la sua dottrina come ispirata da nobilissimi ideali filantropici e nel lodare i Paesi Basi e la città di Amsterdam come società esemplari per spirito di tolleranza; ciò che ha contribuito non poco a creare la leggenda di una Olanda prospera e felice, mentre il resto dell’Europa, Inghilterra a parte (naturalmente) sarebbe stato ancora sprofondato nella barbarie dell’assolutismo.
Ci si dimentica però di osservare che Spinoza, poco coerentemente, non sostiene che la repubblica sia la miglior forma di governo, né che l’assolutismo - proclamato da Hobbes come una dura e imprescindibile necessità - sia un male; al contrario, egli afferma che l’assolutismo è la forma di governo ideale, purché il sovrano non sia “autoritario”.
L’assolutismo di Hobbes si spiega con il suo pessimismo antropologico: dal momento che gli uomini sono come lupi feroci per gli altri uomini, è necessario uno Stato assoluto e severo, che imponga a ciascuno, con pugno di ferro, il rispetto della pace e della civile convivenza; ma quello di Spinoza non si capisce bene da che cosa derivi.
Per Spinoza, gli esseri umani non possiedono libero arbitrio: il libero arbitrio è impossibile, poiché tutto procede necessariamente e perfino l’etica, come recita già il titolo della sua opera più nota e completa, può essere descritta infallibilmente con il procedimento matematico, alla maniera di un teorema geometrico. A che pro, dunque, lo Stato assoluto?
Vi sono, nel pensiero di Spinoza, una rigidità, una durezza, una così radicata convinzione della propria verità, che il volerne fare la bandiera della tolleranza e del libero pensiero risulta abbastanza difficile, anche se la storia della filosofia tende a procedere per forza d’inerzia e per stereotipi i quali, una volta consolidati, non vengono più scalfiti da niente e da nessuno.
In ambito religioso, Spinoza proclama la libertà di coscienza: questo è un dato incontestabile e anche, senza dubbio, un titolo di merito; però, nello stesso tempo, la sua critica razionalista, che anticipa quella demolitrice dell’Illuminismo, prende d’assalto con tale impeto la cittadella della religione, e particolarmente l’autorità della Bibbia, che bisogna essere ben parziali per non vedere come egli, dietro il pretesto di contestare le inverosimiglianze dell’Antico Testamento, vuole affermare che l’unica forma di religione seria e accettabile è quella che sopravvive alla falce della ragione logico-matematica: la sua, appunto.
Dietro l’apparente mitezza e l’apparente tolleranza, Spinoza si fa campione della più rigorosa intolleranza in materia religiosa: solo la sua idea di Dio è ragionevole e, pertanto, vera: Deus sive Natura, Dio è la natura stessa; tutte le altre fedi non sono che un guazzabuglio di assurdità e inverosimiglianze, perché non si adeguano ai dettami della matematica. Più coerente o più esplicito di Cartesio, che in fondo la pensava allo stesso modo, egli lancia il guanto della sfida a tutti i credenti: convertitevi alla matematica o sarete gettati nell’immondezzaio della storia, con le vostre ubbie e le vostre favolette edificanti.
Un tipico esempio del suo modo di procedere è l’argomentazione con cui egli nega l’impossibilità pura e semplice del miracolo, questo imbarazzante residuo di età remote, che ha il vizio capitale di non volersi piegare ai dettami del Logos razionale. Egli non fa distinzioni tra miracoli autentici e miracoli supposti: per lui sono tutti impossibili, quindi sono tutti falsi, scaturiti dall’ignoranza e dalla superstizione o, peggio, dalla frode.
Gli oppositori di Galilei si rifiutavano di guardare nel suo cannocchiale, perché la teoria di Galilei (o meglio, di Copernico) contrastava con quella di Aristotele; Spinoza si rifiuta di guardare i fatti, perché ammettere l’esistenza anche di un solo miracolo non si concilierebbe con il suo implacabile, tetragono razionalismo.
Uno come Spinoza, se capitasse a Lourdes e assistesse ad una guarigione inesplicabile, negherebbe il fatto, puramente e semplicemente; ma è molto più probabile che a Lourdes non ci andrebbe, se non come fece Emile Zola, ossia con la malafede del positivista che voleva corrompere anche una donna miracolata, per far sparire le tracce del miracolo stesso; piuttosto aderirebbe entusiasticamente al C.I.C.A.P., vestendo i panni dello zelante gendarme scientista, tutto preso dal sacro dovere di estirpare le erbacce della credulità popolare.
Il suo furore razionalista e scientista lo spinge fino al limite del grottesco, quando arriva a ipotizzare che il “volgo” non per altra ragione rifiuti la spiegazione naturale dei fenomeni straordinari, oltre al fanatismo religioso, se non per ostacolare e fare un dispetto ai veri cultori della scienza della natura, tra i quali, evidentemente, pone in primo luogo se stesso.
Egli è il tipico esempio di intellettuale che si autoglorifica e che, per innalzare un poco più in alto il proprio sgabello, ha bisogno di abbassare il più possibile l’intelligenza delle persone comuni; le quali, si direbbe, trovano posto nel suo sistema solo allo scopo di far rifulgere, per contrasto, il genio isolato del grand’uomo.
Invero le argomentazioni di cui si serve per confutare la possibilità, anche solo teorica, del miracolo, sono quanto di più piattamente e pedissequamente e, si vorrebbe dire, quanto di più tristemente arrogante, un razionalismo apodittico potrebbe concepire; con l’aggiunta di un sovrano disprezzo nei confronti del “volgo” (da: B. Spinoza, «Trattato teologico-politico», VI e VII, Torino, UTET, 1988, pp. 486-87,  504-07):

«Come gli uomini sono soliti definire “divino” quel sapere che trascende le capacità umane di comprensione, così sono abituati a chiamare “divino”, oppure opera di Dio, ogni fenomeno la cui causa è sconosciuta al volgo. Il volgo infatti ritiene che la potenza e la provvidenza divine si manifestino nel modo più luminoso possibile quando accade in natura qualcosa di inconsueto e di contrario all’opinione che per consuetudine esso ha riguardo alla natura stessa, particolarmente se l’evento gli ha portato qualche profitto o se gli è riuscito vantaggioso. […]
Il volgo crede, evidentemente, che Dio non faccia nulla quando la natura agisce secondo l’ordine consueto, e viceversa che restino oziose le potenze della Natura e le cause naturali quando agisce Dio. Ci si immagina pertanto le due potenze nettamente separate l’una dall’altra: la potenza di Dio e la potenza delle cose naturali, quest’ultima tuttavia determinata da Dio in qualche particolare modo o anzi (come i più credono ai giorni nostri) da lui creata. Ma che cosa poi il volgo intenda per l’una e per l’altra delle due potenze, come concepisca Dio e la Natura, ciò invero non lo sa; esso si raffigura la potenza divina come l’autorità di un monarca assoluto e la potenza della Natura come una sorta di violenza senza freno.
Il volgo, pertanto, chiama miracoli e opere di Dio gli eventi straordinari della Natura; e, parte per zelo religioso, parte per smania di osteggiare coloro che coltivano la scienza della Natura, desidera di ignorare le cause naturali delle cose e si mostra voglioso di ascoltare soltanto ciò che gli è del tutto oscuro e che di conseguenza suscita la sua massima ammirazione. […]
In più di un luogo la Scrittura dice che la natura osserva un ordine fermo e immutabile: così in Salmo CXLVII, 6 e in Geremia, XXXI, 35 e 36. Il Filosofo, inoltre, nel suo Ecclesiaste, 1, 10, insegna nel modo più deciso che in Natura non avviene mai nulla di nuovo e ai versetti 11 e 12, nel chiarire tale sentenza, dice che accade talvolta qualcosa che sembra costituire una novità, ma di novità evidentemente non si tratta perché un caso identico si produsse in secoli precedenti dei quali é spento ogni ricordo. Infatti, com’egli stesso dice, nessuna memoria dei tempi antichi è presente  nei contemporanei, così come presso i posteri non vi sarà memoria  di coloro che vivono oggi. Inoltre, sempre nell’Ecclesiaste (3, 119, il Filosofo afferma che Dio ebbe a stabilire esattamente  ogni cosa nel suo tempo, e al verdetto 14  dichiara di spere che, qualunque cosa Dio faccia, essa permarrà in terno e che nulla può esserle né aggiunto né sottratto.  Ciò fa capire in modo inequivocabile che la Natura mantiene un ordine stabile  e non passibile di mutamenti, che Dio persistette identico in tutte le ere a noi note e ignote, che le leggi della Natura sono tanto perfette e feconde  che nulla può essere loro aggiunto  o da esse eliminato, e finalmente che i miracoli  sembrano essere qualcosa di nuovo e di straordinario soltanto a causa dell’ignoranza degli uomini.»

Spinoza è abbastanza astuto da fare una distinzione preliminare fra profezia e miracolo: riguardo alla prima dice di non volerci entrare, perché ciò lo porterebbe su di un terreno squisitamente teologico; circa il secondo, invece, rivendica il diritto di esprimersi, trattandosi di una questione prettamente filosofica.
Si noti che non si prende il disturbo di considerare, singolarmente, almeno alcuni dei miracoli di cui parla la Bibbia: egli li valuta in blocco, a partire dal proprio pregiudizio razionalista e panteista. Se Dio è la Natura e se Dio è immutabile, allora il miracolo è impossibile: e ciò chiude la discussione. Ritenendo di aver dimostrato a sufficienza, con la sua «Ethica more geometrico demonstrata», la verità delle due precedenti affermazioni, per lui non c’è altro da aggiungere.
Più che di una argomentazione, si tratta di una sentenza apodittica: Spinoza, fratello siamese di Cartesio, non possiede l’umiltà necessaria per confrontarsi con i fatti, o meglio, tiene presenti solamente quei fatti che possono servire a corroborare la sua tesi precostituita; gli altri, li ignora puramente e semplicemente. È, in fondo, il classico seguace di una nuova fede, la Ragione, che vuole sostituire ai vecchi dei, senza rendersi conto che il cambiamento di paradigma è solo di tipo quantitativo e non qualitativo.
Significativamente, i miracoli” di cui vuole negare non solo la storicità, ma anche la semplice possibilità, sono quelli più clamorosi dell’Antico Testamento, come il passaggio del Mar Rosso da parte degli Ebrei in fuga dall’Egitto. Citando Flavio Giuseppe, che a sua volta cita un analogo “miracolo” attribuito ad Alessandro Magno, se la cava, invero gesuiticamente, affermando che ciascuno ha il diritto di credere quello che ritiene giusto per onorare debitamente la divinità: e ciò dopo aver ribadito che la Natura non conosce contraddizioni alle proprie leggi e che, pertanto, qualunque preteso miracolo è una assurdità in termini.
Prudentemente, non dice nulla dei miracoli del Nuovo Testamento e non sfiora nemmeno la questione se la guarigione di un paralitico o di un cieco nato, ad esempio, appartengano al medesimo ordine di fenomeni di un mare che si “apre” per lasciar passare un intero popolo in cammino.
L’unica osservazione che egli fa a proposito del Nuovo Testamento, è che gli Apostoli scrissero le loro opere non in qualità di profeti, ma per confermare gli uomini nella fede; e i suoi contorcimenti verbali sono tali, che quasi quasi riesce a fare di San Paolo e degli altri autori del Nuovo Testamento dei deisti “ante litteram”, preoccupati soltanto di evitare confusioni e turbamenti e di condurre gli uomini alla fede, nella maniera che essi reputavano più efficace.
Si faccia attenzione che, per Spinoza, il miracolo è impossibile in quanto contraddice alle leggi della Natura; ma, alquanto sofisticamente, egli non nega la possibilità di eventi naturali straordinari, purché non siano contraddittori. Ad esempio, la resurrezione di Cristo si potrebbe considerare come un evento straordinario, ma non contraddittorio: la morte è un evento naturale ordinario, la resurrezione è un evento naturale straordinario, ma non impossibile, perché non contraddice l’evento precedente, ossia quello della morte.
Qui ci si arrampica veramente sugli specchi: ma tali sono le conclusioni alle quali si giunge, coerentemente e inevitabilmente, una volta imboccata la strada del razionalismo e del panteismo spinoziani.
Nell’Europa del XVIII e XIX secolo farà furore, negli ambienti libertini e anticristiani, un «Trattato dei tre impostori», ossia Mosé, Gesù e Maometto, che dapprima circolò come opera postuma di Spinoza, poi come opera di un suo discepolo anonimo e che conosce ai nostri giorni una nuova stagione di celebrità (in Italia è stato recentemente ristampato con una prefazione di Piergiorgio Odifreddi).
È possibile che l’opera non sia autenticamente spinoziana, ma sarebbe ipocrita negare che spinoziani sono lo spirito ed il metodo che la animano: forse coloro i quali accolsero come ateo e blasfemo il «Tractatus» non erano poi così lontani dal vero, anche se partivano, ovviamente a torto, da una interpretazione letteralistica delle Scritture e anche se Spinoza aveva avuto la prudenza o la malizia di non esporre sino in fondo il proprio pensiero.
In una cosa, però, era stato sincero: nel pretendere di insegnare come vadano lette le Scritture, cosa che già aveva fatto Galilei, ma in forma semiprivata, nella lettera a Benedetto Castelli: se ciò sia o meno un entrare a gamba tesa nel bel mezzo della teologia, e se non equivalga alla pretesa, da parte della ragione logico-matematica, di stabilire in che cosa possono o non possono credere i seguaci di una determinata fede, ciascuno può giudicare da sé.
Spinoza, dunque, apre la via all’intolleranza scientista nei confronti del soprannaturale: poiché il suo panteismo lo porta ad escludere che esista qualcosa al di sopra o al di fuori della Natura, non gli resta che condannare come “eretica” la posizione di quanti credono alla possibilità del miracolo. Nonostante le apparenze, dal punto di vista speculativo è lui il persecutore e non il perseguitato; è lui che si arroga il diritto di decidere in che cosa possa consistere la fede altrui.
Gli farà seguito Kant, nel 1793, con la sua «Religione nei limiti della sola ragione», passando per la mediazione di Locke; del resto, lo stesso Spinoza, nel «Tractatus», aveva ribadito che la verità insegnata dalla religione è di un genere estremamente semplice, anticipando il deismo e contraddicendo in pieno lo “scandalo” della ragione di cui, giustamente, parla San Paolo nel famoso discorso dell’Areopago di Atene.
Quando i governi del Messico, dell’Unione Sovietica o dell’Albania, nel corso del XX secolo (ma sull’esempio della Rivoluzione francese), chiuderanno le chiese, imprigioneranno i preti e manderanno a morte i fedeli “recidivi”, altro non faranno che servirsi dell’impostazione teorica fornita loro dai razionalisti che, come Spinoza, vollero stabilire, dall’alto delle loro superbe categorie logiche, ciò che il popolo ha il diritto di credere riguardo a Dio, e ciò di cui non ha il diritto.