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Il ritorno del giallo alla francese

di Stenio Solinas - 29/03/2011

Il tenente Guérin lavora alla Suicidi, il che per chi era l’asso di cuori della Omicidi suona strano, come una mano di poker dichiarata servita e poi rivelatasi un bluff. È che Guérin sospettava di un collega, il collega non ha retto alla tensione e si è ammazzato, la polizia ha fatto quadrato intorno alla memoria del defunto e terra bruciata intorno alla figura del presunto carnefice. «Vada via da Parigi e dalla Omicidi per un po’, se ne vada fuori dalle palle, lontano da qui» gli ha detto il suo capo e quando lui è tornato al lavoro si è ritrovato in una sezione dove c’è sì il morto, ma è inutile cercare l’assassino.
Guérin è un tipo strano: vive da solo, un pappagallo, eredità materna, per unica compagnia. La madre era una prostituta e il pennuto negli anni aveva imparato a farle il verso: gli incitamenti e le blandizie nei confronti dei clienti, gli scatti d’ira e le raccomandazioni nei confronti del figlio... Così, quando rientra lo accoglie con un «Torni tardi! Cooooccolo mio! Torni tardi!», oppure con «Cento franchi per un bocchino!» e a Guérin sembra che lei sia ancora viva. Ha quarant’anni, il nostro poliziotto, ed è già come se fosse a fine carriera: ha una grande testa calva su un corpo minuscolo e un cervello che funziona in maniera del tutto particolare. «Il soggetto - è scritto nel dossier medico-psichiatrico che lo riguarda - in modo assolutamente razionale sembra pensare, come altri vedono in Dio un concetto che unifica tutti gli altri, che il mondo non possa capirsi e spiegarsi, e quindi che il suo lavoro di poliziotto non si possa svolgere senza ammettere l’idea - assurda - che tutto è legato, che nessun evento può essere concepito e compreso in modo isolato senza che se ne perdano il senso, la causalità e gli effetti. Il soggetto è psicologicamente sano e abile alla funzione di poliziotto». Sarà, ma per meglio isolarlo gli hanno dato come vice un imbecille, Lambert, uno che gira in tuta, perché da ragazzo voleva fare il calciatore, uno che è divenuto poliziotto perché ha perso il lavoro da fornaio, uno che agli esami per passare di grado viene regolarmente bocciato.
Poi, un bel giorno, si fa per dire, a Parigi scoppia come un’epidemia di suicidi, spettacolare e sospetta. Le vittime muoiono nude e muoiono in pubblico, quasi seguissero un medesimo, misterioso rituale e il miniufficio di Guérin si ritrova, suo malgrado, sotto i riflettori. Se l’universo è una sola, immensa rete di connessioni, se, dunque, non esistono fatti isolati, ma solo concatenazioni, il caso allora non esiste e dietro quelle morti c’è qualcuno e qualcosa...
Sezione suicidi (Einaudi, pagg. 277, euro 18) è il romanzo di Antonin Varenne che alla sua uscita in Francia ha fatto incetta di tutti i premi dedicati al poliziesco e venduto decine di migliaia di copie. È un noir, ma di quel genere particolare di cui oltralpe hanno il copyright: più esistenziale e filosofico di quello americano, meno scientifico rispetto al modello inglese, senza quell’ossessione moralistico-legalitaria di certa produzione italiana, dove il commissario è integerrimo, il magistrato anche ed è la società che fa schifo. Varenne è sulla scia di Léo Malet, non quello dei romanzi con Nestor Burma protagonista, ma il Malet di Il sole non è di tutti: amaro, cinico, disperato, triste e solitario, candidato alla sconfitta anche quando vince.
Sezione suicidi in realtà del giallo ha poco, pur avendo molto. Non faremo torto al lettore di raccontargli la trama, ma si capisce che a Varenne la trama interessa fino a un certo punto. Gli interessano i personaggi, specie se sono un po’ ammaccati dalla vita, il realismo dei dialoghi e l’impatto dato da situazioni e ambienti particolari: soprattutto, gli interessa il ritratto di una Parigi in bianco e nero, modernissima eppure antica, il triangolo che dal Quartiere latino arriva a Montparnasse e a Saint-Germain, fatto di strade strette e di parchi, di locali notturni tanto polverosi quanto trasgressivi, di un’umanità dolente e rissosa, infelice senza accorgersene e felice suo malgrado. Così, il tenente Guérin è un disadattato in cerca di altri disadattati da curare e da aiutare: ex carcerati che vivono al Jardin du Luxembourg come se fossero ancora reclusi, un cane bastardo di nome Mesrine a fargli compagnia, reduci di guerra trasformatisi in fachiri, hippies di ritorno...
È un antieroe Guérin, privo però di quegli appeal cari a tanta letteratura del genere: non è un duro alla Sam Spade, non ha l’autorevolezza di un Maigret o le cellule grigie di un Poirot, i tormenti degli eroi di Le Carré o l’esotismo di quelli di Ambler. È difficile dire se il suo autore gli darà ancora altri casi da risolvere, ma che Antonin Varenne sia uno scrittore lo capirebbe anche Lambert, un imbecille, appunto.