Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Sul cammino della consapevolezza spirituale: quarta tappa, il Guerriero

Sul cammino della consapevolezza spirituale: quarta tappa, il Guerriero

di Francesco Lamendola - 08/04/2011




Quello del Guerriero, nel cammino della consapevolezza spirituale, è un archetipo di fondamentale importanza; e tuttavia, allo stesso tempo, esso è, crediamo, quello che si presta maggiormente ad equivoci ed erronee interpretazioni.
La vita è lotta, su questo non c’è dubbio: non occorre essere darwiniani per ammetterlo, anzi, si può benissimo essere antidarwiniani ed antievoluzionisti in senso biologico (tutt’altra cosa è il concetto di evoluzione spirituale).
Da tale constatazione, tuttavia, non discende che la vita sia l’arena in cui gli esseri umani si devono scontrare come altrettanti tori infuriati, cercando di prendersi a cornate l’un l’altro e di calpestarsi a morte sotto gli zoccoli; lasciamo ai filosofi del pessimismo cronico, come Machiavelli e Hobbes, una tale convinzione, foriera di funeste conseguenze sul piano pratico.
In senso spirituale, l’autentico Guerriero non è colui che si batte per il gusto di battersi e che rovescia a terra il maggior numero di nemici, bensì colui che sa domare la propria parte inferiore: con buona pace di tutti quei filosofi, Nietzsche in primis, secondo i quali non esistono parti inferiori e parti superiori, perché, secondo loro, sarebbero tutte egualmente nobili; e, inoltre, è colui che sa affrontare virilmente le situazioni di solitudine, angoscia, smarrimento, senza deviare dalla meta prefissata, ossia la realizzazione piena ed armoniosa del proprio Sé.
In questo senso, il vero modello del Guerriero non va ricercato fra i vari Achille, Aiace, Diomede, Orlando e Rodomonte; e fanno sorridere quelle volonterose post-femministe che, volendo conciliare l’emancipazione con l’esoterismo, credono di aver fatto chissà quale scoperta per il fatto che all’elenco aggiungono le varie Pentesilea, Bradamante, Clorinda e, perché no, le Xena o analoghi personaggi televisivi e cinematografici: come se vi fosse bisogno di aggiungere, alla stupida aggressività maschile, anche la sua brutta copia femminile.
Il vero Guerriero non ha bisogno di scudo e spada, né del cinturone con le pistole pronte a far fuoco sui “cattivi” di turno; le sue armi sono il coraggio morale (certo, talvolta anche quello fisico), la forza d’animo, l’intrepida perseveranza, la tenace determinazione, il rigore con se stesso, prima ancora che con gli altri, nel perseguimento dell’unica guerra degna di essere combattuta sempre e comunque: quella per il riconoscimento e la difesa del proprio Sé, contro tutte le forze che mirano a disgregarlo, a indebolirlo, ad effeminarlo, a distoglierlo da tutto ciò che è grande, nobile e disinteressato.
In breve, l’autentico Guerriero è l’uomo (o la donna) la cui statura morale eccede naturalmente, e di molto, quella dei suoi simili, i quali, al confronto, paiono altrettanti nani; non perché egli, gonfio di superbia, si alzi sulle punte per sovrastarli o perché, livido d’invidia, cerchi in ogni modo possibile di sminuirli, ma perché la sua grandezza appare evidente da tutto ciò che egli pensa, fa e anche dal suo semplice silenzio e dal suo non agire: perché negli animi veramente grandi, anche la pura aspirazione all’assoluto si traduce in una palese autorevolezza, che non ha bisogno di titoli nobiliari o di attestati accademici per rifulgere sopra la media degli uomini comuni.
Nel cinema contemporaneo, mentre abbondano le figure di guerrieri con la “g” minuscola, sulla falsariga del guerriero omerico, tutto muscoli e furore bellicoso (dall’eroico sceriffo di «Mezzogiorno di fuoco» ai vari «Rambo» e «Rocky», bravi solo ad usarte i muscoli e le armi automatiche), sono assai meno frequenti le figure ispirate al Guerriero in senso iniziatico, proprio perché meno appariscenti o, addirittura, quasi irriconoscibili ad uno sguardo superficiale.
Un discorso analogo va fatto per la letteratura moderna, in cui si è passati bruscamente dalla figura “classica” e stereotipata dell’eroe a quella, ormai altrettanto abusata, dell’antieroe: incerto, nevrotico, complessato, inetto e sterilmente critico verso tutto e verso tutti, un essere che è di peso a se stesso prima ancora che agli altri e che tuttavia, invece di sforzarsi di trovare delle ragioni di crescita e di perfezionamento, si abbandona al piacere distruttivo di aver nausea d’ogni cosa e di disprezzare tutto ciò che limita la sua non meglio identificata “libertà”.
Insomma, se dai vari D’Artagnan, Sandokan e Arsenio Lupin (perché l’eroe moderno può anche essere un ribaldo patentato) si passa ai vari Zeno Cosini, Mattia Pascal o Albertine (perché le anti-eroine devono pur sempre eccedere per rendersi interessanti, magari rotolandosi nella menzogna più totale), si ha l’impressione di scivolare da un mondo fasullo, ma pur sempre orientato alla “grandezza”, ad una galleria di personaggi volutamente squallidi, isterici, narcisisti, qualcosa che sta a mezza strada fra il sordido ed il manicomiale.
In realtà, il passaggio non è stato così brusco come può sembrare, perché a far da ponte tra i due gruppi vi sono stati personaggi dai caratteri intermedi, ma comunque tendenti al grottesco, come Oblomov di Gončarov, Re Ubu di Alfred Jarry, i borghesi “indifferenti” di Moravia e tutti quei piccoli uomini e quelle piccole donne della società di massa che, scontenti del proprio ruolo alienato e omologato e, nondimeno, incapaci di ergersi a realizzare il proprio vero Sé, tutto quel che sanno fare è disturbare ed intralciare il cammino degli altri, godendo, come certi personaggi di Carlo Emilio Gadda, della universale abiezione in cui vedono sprofondare la condizione umana.
Proprio questo impoverimento e questa degenerazione dell’archetipo del Guerriero nella cultura contemporanea testimoniano nella maniera più eloquente, qualora ve ne fosse bisogno, l’oblio della dimensione spirituale e, più specificamente, l’ignoranza abissale di ciò che significa realmente sviluppare la capacità di battersi per realizzare la propria vocazione profonda, cioé per costruire e riconoscere il proprio Sé.
Le persone superficiali credono che, per realizzarsi, sia necessario combattere contro gli altri, ossia che ci si realizza tanto più compiutamente, quanto più si contrappone il proprio io al tu; mentre è vero quasi l’esatto contrario, ossia che solo quando si arriva a comprendere il legame necessario che lega l’io al tu, così come l’io a se stesso, al mondo e al trascendente, si desiste dal contrapporsi all’altro e dal potenziare un ego già ipertrofico, per portare in luce il proprio vero Sé, in armonia con il tu, con se stessi, con il mondo e con l’Assoluto.
Il Guerriero è colui che ha compreso il grande segreto: che non si vince con la forza, sottomettendo qualcosa o qualcuno, ma si vince quando ci si mette in gioco interamente per un fine superiore, disinteressato e generoso; e che, quando tali condizioni siano osservate, il Guerriero vince sempre, non perde mai, perché anche le sconfitte non fanno che rafforzarlo.
Il Guerriero, ad esempio, è un uomo (o una donna) che, avendo molto amato e, nondimeno, avendo perduto l’oggetto del proprio amore, non maledice la sorte e non rinnega ciò che il suo cuore ha vissuto, né ripudia il sentimento cui si è abbandonato: perché egli sa che in amore si vince sempre, sempre, anche quando si appare sconfitti, purché si rimanga fedeli a se stessi e alla propria verità interiore.
Renzo Tramaglino, ad esempio  è un autentico Guerriero, perché non si arrende mai, neppure quando Lucia gli scrive chiaro e tondo di mettersi il cuore in pace e di dimenticarla; e torna a Milano nel mezzo della peste, la va a cercare perfino al Lazzaretto, là dove sembra follia cercare una persona viva, in mezzo a tanti morti e moribondi: il suo amore è così grande che calpesta anche il proprio orgoglio e sa essere tenace, paziente, incrollabile.
Anche Mara, la giovanissima ragazza di Bube, nell’omonimo romanzo di Carlo Cassola, finisce per rivelarsi - lei così giovane e inesperta della vita -, una Guerriera: sia pure dopo lotte e turbamenti, sceglie la via della fedeltà e del sacrificio - e, in tal modo, imbocca la strada del Martire, ossia la tappa successiva a quella del Guerriero.
Perché il Guerriero non è mai un vinto, se rimane fedele a se stesso; ma, nella sconfitta, diventa un Martire, e proprio questo movimento lo trasporta più in alto, al di sopra di se stesso, e lo fa trionfare sopra ogni ostacolo ed ogni avversa circostanza.
Anche quella del Guerriero, comunque, è una tappa e non può, né deve, trasformarsi in una condizione permanente e definitiva. Il Guerriero che resta eternamente tale si rivela incapace di ulteriore evoluzione spirituale, prigioniero di una logica oppositiva che gli impedisce di scorgere l’unità nella polarità, la connessione degli opposti.
Combattere per il gusto di combattere è uno sport poco intelligente, nel quale vengono inutilmente dissipate quelle energie spirituali che sarebbero invece necessarie per rendere possibile il balzo verso un livello più alto di consapevolezza.
Vi è, comunque, nella cultura occidentale, una palese sopravvalutazione del combattimento, effetto di quel dualismo che porta a vedere ovunque la contrapposizione fra l’amico e il nemico, fra ciò che si deve difendere e ciò che deve essere distrutto (a fin di bene, si capisce!), fra ciò che è giusto e perciò merita di vivere, e ciò che è sbagliato e quindi merita di perire.
Il combattere, pertanto, é figlio del giudicare: ma una tendenza a giudicare troppo le cose, cioè a vedere in esse più quello che divide che non ciò che potrebbe unire, costringe a indossare perennemente l’elmo e la corazza e a brandire la spada e la lancia, come se al mondo non vi fosse cosa più bella del battersi; mentre questa è, semmai, una dura necessità, alla quale si dovrebbe ricorrere solo quando ogni altra via sia rivelato impraticabile.
Vi è qualcosa di stupidamente inutile nel gettarsi a testa bassa contro il supposto nemico, ogni qual volta ci venga agitato un panno rosso davanti agli occhi: il vero Guerriero sa che la forza non va sprecata in battaglie inutili e che i suoi sforzi dovrebbero essere sempre diretti contro un avversario che sia almeno degno di lui.
Nondimeno, quando c’è da battersi, ossia quando non rimanga spazio per alcuna mediazione, il Guerriero si batte, eccome: si batte con coraggio, con molta decisione e non indietreggia mai, a costo di soccombere sotto il numero dei nemici.
Per questo il suo corpo è pieno di cicatrici. Ogni combattimento si lascia dietro le sue cicatrici: quelli vittoriosi e quelli sfortunati. E le cicatrici che non si vedono, come è noto, sono anche quelle che fanno soffrire di più: basta poco a farle riaprire, a farle sanguinare nuovamente, perché, in effetti, nessuna di esse si chiude mai completamente.
Si dice che il tempo medica ogni ferita, ma non è vero. Le ferite che scompaiono del tutto, senza lasciare traccia, erano soltanto dei graffi superficiali, non delle ferite vere.
Un’altra caratteristica del Guerriero, oltre alla tenacia e al coraggio, è la fierezza.
Nessuno potrà mai dire di averlo visto andare in giro a capo chino, mortificato, avvilito; nessuno potrà dire di averlo visto umiliato, neanche davanti alla peggiore sconfitta.
Come Farinata degli Uberti, che si erge con tutta la persona dalla sua tomba di fuoco e sembra avere l’Inferno in «gran dispitto», il Guerriero non abbassa mai la fronte, non si abbatte, non implora misericordia: è cosciente della propria forza morale e soprattutto della propria limpidezza, sa di non dover arrossire davanti ad alcuno.
La superbia è il suo difetto più evidente: abituato a tener testa a tutti quanti, battendosi sempre «a viso aperto», finisce per disprezzare gli altri e per esagerare il concetto di se stesso; ma questo suole avvenire al guerriero con la “g” minuscola, non al Guerriero spirituale.
Il Guerriero spirituale non sopravvaluta mai la propria forza, perché sa che gli viene dall’alto,  e non disprezza alcuno, perché ha imparato a non giudicare troppo facilmente.
Nel film di Edwin Sherin «Valdez is coming» (malamente tradotto in italiano «Io sono Vadez»), del 1971, il protagonista, un vice-sceriffo messicano che, per amore della giustizia, affronta un piccolo esercito di avversari, a un certo punto viene disarcionato e disarmato. In attesa che giunga il suo mortale nemico, Frank Tanner, il capo dei “bandidos” che lo hanno catturato, El Segundo, dopo avergli offerto da fumare, si complimenta con lui per l’ottima mira dimostrata e gli chiede dove abbia imparato a sparare così lontano.
Valdez risponde che ha adoperato delle pallottole per bisonte e che le usava un tempo, dando la caccia agli Apaches.
«Quando?», vuol sapere El Segundo.
«Quando capivo di meno», risponde, con semplicità, il fiero vice-sceriffo.