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La finzione migliore della realtà

di Antonio Scurati - 15/06/2011

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Crediamo ancora alle storie che raccontiamo? È ancora capace di evocare mondi, grazie alla suggestione del racconto e al suono incantatore della parola, il gesto primigenio del cantore che, a sera, seduto nel cerchio dei suoi simili attorno a un fuoco di bivacco, confinato in un minuscolo cerchio di luce dentro una tenebra immensa, prende su di sé la responsabilità e il prestigio del narratore?

Se Omero tornasse a vivere e a narrare in mezzo a noi, pretenderemmo da lui, prima di prestargli orecchio, l'indirizzo preciso di Achille, la taglia di reggiseno di Circe e una fototessera di Ulisse?

Anche queste domande mi pare sollevi il clamoroso caso della falsa blogger siriana inventata da un vero studente anziano americano eternamente fuori corso. L’oramai annoso dibattito sulla credibilità del sistema informativo nell’era digitale si è riacceso da quando si è scoperto che Amina Arraf, giovane (e graziosa) blogger lesbica ribelle perseguitata a Damasco dalla polizia politica altri non era che Tom MacMaster, non più tanto giovane (e nemmeno tanto carino) attivista politico americano residente in Scozia alla perenne ricerca di un tardivo master in giornalismo. C’è, però, un altro versante della questione che rimane in ombra ed è quello che verte sulla credibilità dell’intero sistema narrativo occidentale. Qual è il vero potere dei fabbricatori di storie in un mondo che quotidianamente getta in pasto alla credulità del pubblico globale centinaia, se non migliaia, di sedicenti «storie di vita vera»? Da Aristotele in qua, la nostra civiltà ha creduto nella superiorità della poesia sulla storia poiché la poesia - dal greco «poièo», faccio, fabbrico, creo - basandosi sulla verosimiglianza e non sulla verità fattuale, poteva cogliere la realtà umana ad un livello più alto, espressa in una potenzialità superiore, poteva tendere verso l’universale, mentre la storia era confinata entro il valore particolare di quel singolo episodio o di quel singolo uomo di cui si occupava. D’accordo, il match tra poesia e storia è andato così per circa venticinque secoli. Ma oggi, crediamo noi nella superiorità della poesia sulla cronaca?

A sollevare la questione è lo stesso sventurato Tom MacMaster, con il talento involontario per la rivelazione di verità nascoste che hanno, talora, gli uomini ridicoli. Dopo che il suo falso costruito ad arte è stato smascherato, Tom si è scusato adducendo a giustificazione una patetica perorazione in favore dell’arte stessa: ha detto di aver sempre ammirato e invidiato la potenza di suggestione che in tutte le epoche hanno espresso i grandi inventori di storie, i cineasti, i romanzieri, gli affabulatori di ogni genere e sorta, e di averli dunque voluti emulare creando il personaggio di Amina Arraf ma, si badi bene, con il preciso scopo di «mobilitare le passioni umane attorno a istanze e a idee» capaci di incidere sulla realtà concreta. Insomma, l’antico, avventuroso periplo dell’arte che parte dalla realtà per tornare a essa passando attraverso la finzione. Secondo MacMaster, quel gesto inventivo sarebbe ancora capace di ciò molto più di quanto non lo sia «la mera e arida esposizione fattuale». MacMaster smentisce, però, in pratica ciò che afferma in teoria dato che, per gridare al mondo e alle generazioni future il dramma di un giovane essere umano in lotta contro l’oppressione delle sue libertà civili e sessuali, il buon Tom non ha certo messo penna in carta per scrivere un romanzo. Ha imboccato, invece, una via breve e, com’è noto, non esistono vie brevi che conducano all’arte.

Ma proprio con questa sua astuzia da baro di terz’ordine, MacMaster (che nome da romanzo!) porta alla luce il generale discredito in cui sembra caduta l’arte della finzione nel mondo Occidentale. Il suo caso è a tal punto emblematico di una nuova ideologia autenticista oggi dilagante che se ne potrebbe quasi ricavare una legge, la conflazione di MacMaster-Arraf. Comma primo: se vuoi che il tuo racconto riceva attenzione, crea un personaggio di finzione e fingi che sia un personaggio reale (meglio se il personaggio, reale e fittizio, coincidono con la tua persona); comma secondo: se vuoi che il tuo personaggio di finzione sembri reale, dotalo del più alto numero possibile di attributi patetici, anomalie e situazioni estreme (giovane donna mediorientale lesbica vittima di persecuzioni politiche illiberali doppiamente misogine perché antifemministe e antilesbiche); comma terzo: dedica tutto te stesso alla costruzione di una finzione che per farsi credere vera presenti un eccesso di realtà.

Ovunque ci si volti, si vedrà all’opera la legge di Mac Master-Arraf. In illusioni televisive che si spacciano per «la vita in diretta», nel dilagare di libri che non rinunciano al prestigioso epiteto di «romanzo» ma che garantiscono fin dal risvolto di copertina che tutto ciò che vi viene narrato è «realmente accaduto», nelle oscenità dilaganti della cronaca nera che per creare l’effetto della «vita vissuta» ti sbatte in faccia cadavere squartati, nei politici che per essere creduti trasformano se stessi in un personaggio fittizio e poi per vent’anni lo tengono artificialmente in vita con il plasma morale di una nazione a costo di far morire un intero Paese