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C’è una stanza perduta nel palazzo della nostra anima, che invano cerchiamo di ritrovare

di Francesco Lamendola - 05/07/2011



Che cos’è una stanza perduta?
È una stanza che non si riesce più a trovare, così come certi marinai, al tempo delle navi a vela, dicevano di aver visto delle isole che, in seguito, non vennero mai più ritrovate.
Nel romanzo dell’esoterista Gustav Meyrink, «Il Golem» (1914), si parla di una casa nel getto di Praga in cui talvolta, dall’esterno, col buio, si vedeva brillare una finestra; ma poi, dall’interno, si scopriva che quella stanza non poteva esistere, perché nessuna porta, nessun appartamento esistevano in corrispondenza della luce che si poteva scorgere giù, dalla strada.
Anche lo scrittore irlandese Fritz-James O’Brien, nel 1858, aveva scritto un racconto su un soggetto analogo: «The Lost Room», una delle sue cose migliori, evocando atmosfere tenebrose e allucinate e orribili fantasmi che irrompono nella dimensione ordinaria.
Ma è possibile che, al di là di questi miti e di questa letteratura, la Stanza Perduta esista davvero in ognuno di noi, nelle profondità semisconosciute della nostra anima?
Che significato, che valore, che peso essa può avere nella nostra vita, nell’insieme del nostro cammino spirituale?
E, prima ancora: se si tratta di una Stanza Perduta, di una stanza che non ci è dato più di ritrovare, come facciamo a sapere che essa esiste realmente, che esiste ancora; come facciamo a sapere che non si tratta soltanto di un sogno, di un desiderio, di una allucinazione?
E, quindi, perché mai dovrebbe avere una qualche importanza per noi una cosa che non si sa neppure se esista; di cui non si può affermare nulla, se non che essa si manifesta come vuoto, come assenza nella nostra vita?
Se vogliamo paragonare la nostra anima a un palazzo con numerose stanze, alcune buie e tenebrose, altre, via via che si sale verso l’alto, ariose e luminose, che importanza potrebbe fare se ve n’è anche una cui non possiamo accedere, della quale abbiamo smarrito la chiave?
Invece di importanza ne fa, e molta.
Quanto all’apparente stranezza di andare alla ricerca di una cosa che potrebbe anche non esistere, è un rischio da correre: quando i grandi navigatori dei secoli passati si mettevano per mare alla ricerca di nuovi passaggi verso gli altri continenti, essi non facevano che seguire un’intuizione, qualche calcolo azzardato o forse, semplicemente, una speranza.
Eppure non si può dire che le loro imprese non abbiano prodotto risultati decisivi per la conoscenza umana, anche se non sempre essi hanno trovato quel che cercavano, ma qualcosa di nuovo e di diverso, qualcosa di assolutamente inaspettato.
Cercare la propria Stanza Perduta è come cercare un ricordo che ci sfugge, un frammento, una scintilla di ciò che sappiamo esistere, anche se, forse, non nei modi che noi crediamo e anche se potemmo arrivarci in tempi diversi da quelli che desideriamo.
Trovare una cosa che si cercava e scoprire che è diversa, molto diversa da come ce l’eravamo immaginata, vuol dire aver trovato una cosa nuova, oppure - semplicemente - è un’occasione per comprendere che noi abbiamo ancora tanto da imparare, e che tanto possiamo effettivamente imparare, purché ci mettiamo nel giusto atteggiamento di umiltà e di apertura?
E trovare una cosa che cercavamo, quando ormai non ci speravamo più, oppure quando sono passati molti, moltissimi anni dall’inizio della nostra ricerca, allorché noi siamo divenuti, nel frattempo, delle persone in gran parte diverse da quel che eravamo allora, è altrettanto significativo che se l’avessimo trovata subito?
Oppure è una beffa del destino, o che cosa?
Per esempio: trovare l’anima gemella quando non abbiamo più la giovinezza, né la bellezza, né la freschezza, si deve considerare come una amara beffa del destino, oppure può ancora offrirci una preziosa occasione di bene, quasi d’una rinascita?
Sono domande difficili, alle quali non esiste, crediamo, una risposta univoca.
Ciascun uomo che sia costantemente alla ricerca, ciascun «homo viator», costituisce una storia misteriosa,  una storia sacra: e chi mai potrebbe giudicare, dall’esterno, se egli abbia trovato, oppure no, quel che cercava; quel che più o meno oscuramente sentiva mancargli?
Lui solo potrebbe dirlo e, perfino lui, solo ad una precisa condizione: che i suoi occhi si siano veramente aperti e che ad aprirli abbia contribuito l’aiuto che viene dall’alto, l’aiuto della Grazia, senza il quale noi non possiamo fare nulla.
Quando la vista interiore si attiva e i nostri occhi incominciano davvero a vedere, solo allora possiamo scorgere con chiarezza se ci siamo avvicinati almeno un poco alla meta, se abbiamo incominciato a colmare il grande vuoto della nostra anima, caricandolo di buone merci e non di inutile zavorra o, peggio, d’immondizie ed escrementi, che la nostra inconsapevolezza ci aveva fatto scambiare per oggetti preziosi.
Perché è questo che avviene alle anime inconsapevoli: fanno tanta strada oppure poca, ma, in entrambi i casi, senza ricavarne alcun frutto; ammassano grandi quantità di merci nei loro forzieri, ma tutte dozzinali, scadenti o addirittura dannose; credono di aver capito molto, di sapere molto, d’essere giunte in vetta, mentre invece non hanno compreso nulla di ciò che è essenziale e, quel che è più grave, non riescono neppure a rendersene conto, anzi si vantano e gonfiano il petto, atteggiandosi a superbe conquistatrici.
Solo l’anima a cui la Grazia ha aperto la seconda vista, solo quell’anima è in grado di comprendere il valore di ciò che ha trovato e solo essa riesce a dare un senso all’evento, anche se esso ha luogo molto, moltissimo tempo dopo l’inizio della ricerca: perché essa soltanto sa che l’essenziale è essere rimasta fedele a se stessa, non avere tentennato né ceduto a compromessi, pagando il prezzo della propria coerenza senza protestare.
Ma, tornando alla Stanza Perduta, ecco perché essa è così importante: perché è la Stanza del Tesoro, del nostro tesoro più intimo e prezioso.
Il palazzo in cui abitiamo possiede innumerevoli stanze, scale, corridoi: nessuno ha mai contato quanti siano i locali, quanti i passaggi, quanti i piani che si slanciano verso l’alto e quanti quelli che si sprofondano al di sotto delle cantine.
Forse i piani più alti sfiorano il Cielo e forse quelli più bassi si spingono sino all’Inferno: nessuno può dirlo, perché nessuno mai si è spinto fino in cima, ammesso che una cima esista; e nessuno mai è penetrato sino all’ultimo sotterraneo, anche se alcuni si vantano di averlo fatto.
Poveri sciocchi, assomigliano ad una formica che si vanti di essere giunta il cima alla montagna più alta della Terra, solo perché è riuscita ad arrampicarsi sopra una roccia; o, viceversa, ad una formica che proclami di aver raggiunto la grotta più profonda di tutte, mentre è arrivata appena in fondo a un pozzo di pochi metri.
Sia come sia, nessuno sa quante stanze possieda il palazzo della nostra anima e nessuno può dire quanto in alto e quanto in basso si spinga; ma è certo che ogni palazzo possiede una Stanza Perduta, per una ragione molto semplice: è quella in cui abitavamo da bambini.
Forse c’è anche un Giardino Segreto, nel nostro palazzo, e anch’esso ha a che fare con gli anni lontani della nostra infanzia… ma questo è un altro discorso.
La Stanza Perduta esiste, perché un tempo vivevamo in essa; ma poi sono successe così tante cose, e noi stessi siamo cambiati così profondamente, che non solo ne abbiamo smarrito la memoria, ma talvolta arriviamo a dubitare se essa sia mai esistita o se non si tratti solamente di un sogno, di un falso ricordo.
Qui, per inciso, si affaccia un problema filosofico troppo grande per essere affrontato, e meno ancora risolto, nel breve spazio di qualche riga: se, cioè, quell’io che eravamo un tempo sia lo stesso che siamo diventati ora.
Non è affatto scontato che la risposta sia affermativa, a dispetto di Cartesio e di tutte le antropologie fondate sul presupposto del “sum”, perché bisognerebbe vedere cosa sia questo “sum” nel corso del tempo, cosa divenga e, soprattutto, se sia lecito assolutizzarlo, permanentizzarlo, mentre ogni cosa intorno ad esso rivela il suo carattere impermanente.
Tuttavia sarà meglio rimandare la questione ad altro momento e procedere COME SE la risposta fosse affermativa, perché, nella presente indagine, possiamo anche ammettere, come ipotesi di lavoro, che ciò sia sostanzialmente ininfluente.
Noi, dunque, da bambini, eravamo i fortunati inquilini della Stanza del Tesoro, della stanza che ora non riusciamo più a ritrovare; né mai potremo sperare di ritornarvi COSÌ COME ERAVAMO ALLORA, perché, come disse Eraclito, non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua.
D’altra parte, se la nostra ricerca sarà stata onesta e se il nostro sguardo si sarà conservato limpido, nonostante tutte le cadute e nonostante tutte le delusioni, allora ci sarà forse dato di ritrovare la Stanza Perduta, ma su un nuovo e superiore piano di consapevolezza.
Vale a dire che quanto, da bambini, sentivamo con naturalezza e ci appariva come perfettamente possibile, anche se meraviglioso (era possibile, ad esempio, che una fata buona potesse darci la felicità con la sua bacchetta magica, anche se una tale idea ci riempiva d’immenso stupore), ora lo possiamo riconquistare, ma su un nuovo livello di realtà, avendo dovuto attraversare l’arido deserto della Terra di Nessuno, ove i sogni più belli impallidiscono e muoiono, se colui che li sogna non supera la prova della fedeltà verso se stesso.
Attenzione: non stiamo facendo l’ennesimo elogio, melenso e irrealistico, dell’infanzia come età dell’innocenza: il bambino, infatti, è tutt’altro che “innocente”; però lui, e soltanto lui, possiede il dono di accostarsi alle cose aderendovi incondizionatamente.
Nessun adulto vi riesce con altrettanta, assoluta naturalezza: solo per il bambino non vi è alcun diaframma fra lui e le cose; mentre l’adulto vi inserisce sempre una distanza, che è fatta di pensiero strumentale e calcolante.
Ecco svelata, dunque, tutta l’importanza di riscoprire la strada che conduce alla Stanza Perduta, di ritrovarne la chiave e di aprire nuovamente la sua porta, facendovi entrare, dopo anni e anni di buio e di abbandono, l’aria fresca e la luce del sole.
Accedere ancora una volta alla Stanza del Tesoro significa demolire i diaframmi che, con l’uso e l’abuso della ragione strumentale e calcolante, abbiamo inserito fra noi e le cose, fra noi e il mondo e perfino fra noi e noi stessi, la nostra parte più vera e profonda; vuol dire ritrovare la strada di casa, la casa dell’essere.
Senza la chiave di quella stanza, noi siamo come morti; e, per quanto possiamo aggirarci da una stanza all’altra, ci manca ancora e sempre ci mancherà la cosa più importante di tutte, la sola che fa di noi delle creature dal cuore di carne.
Dona a noi, o Dio - così prega il profeta Ezechiele - un cuore nuovo, un cuore di carne; metticelo nel petto al posto del nostro cuore di pietra.
Abbiamo bisogno di un cuore di carne, che senta, che pianga, che rida, che si commuova profondamente davanti all’incommensurabile splendore del mondo; non possiamo continuare a vivere con il nostro cuore di pietra, che non sente, non vede, non capisce.
Vivere con il cuore di pietra non è vivere, è come morire ogni giorno.
È per ciò abbiamo bisogno della Grazia.
Da soli, non saremmo mai capaci di sostituire il nostro vecchio cuore di pietra con il nuovo cuore di carne.
E questa è la nostra preghiera; questa è la nostra vita di viandanti dai piedi feriti, che vagano senza pace, alla ricerca della strada di casa: una vita che è una continua preghiera.
O la vita è una preghiera, oppure non è vera vita.
Amen.