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Il bisogno compulsivo di ferire è il grido di dolore dell’anima ferita

di Francesco Lamendola - 07/07/2011



«Ferito a morte» è il titolo di un noto romanzo di Raffaele La Capria.
Ma, uscendo dalla letteratura ed entrando nel regno della vita quotidiana, quante sono le persone che continuano a vivere, pur essendo ferite a morte?
Che si portano una spina nel cuore, una piaga mortale nell’anima, e nondimeno vivono, o sembrano viere, svolgendo le cose di ogni giorno, come se niente fosse?
Sono ferite a morte, eppure vivono; vivono, ma solo esteriormente; vivono, ma solo per portare in giro il proprio simulacro, la propria apparenza di vita - e null’altro.
Nella vita, ha detto qualcuno, tutto dipende da quanto si è rimasti delusi, vale a dire da quanto si è rimasti feriti: e questo è il primo problema dell’esistenza.
Il secondo problema è che le persone ferite tendono a ferire a loro volta, a volte deliberatamente, a volte no: e questo sia nel caso delle ferite gravi e drammatiche che hanno ricevuto, sia in quello delle ferite più lievi, almeno in apparenza.
È stato osservato, ad esempio, che quanti hanno subito molestie sessuali da bambini, tendono poi facilmente a divenire a loro volta, entrati nell’età adulta, molestatori: a riprodurre, cioè, il cerchio infernale della loro sofferenza e dell’offesa che hanno subito.
E tutti sappiamo come il primo istinto di chi ha ricevuto uno sgarbo, sia quello di ricambiarlo, magari con gli interessi; basta osservare i bambini: con la sola differenza che essi tendono a riconciliarsi facilmente anche dopo le peggiori contese, mentre gli adulti conservano il rancore e ciò preclude qualunque possibilità di ristabilire la pace, sia con gli altri, sia all’interno della propria anima.
Non è facile spezzare il circuito malefico della sofferenza e del desiderio di vendetta, tanto che qualcuno ha detto: «Quando si capisce che cos’è la vita, si comincia a sognare la vendetta»; e quel qualcuno era il grande pittore Paul Gauguin, che, disgustato dall’ipocrisia e dal materialismo grossolano della civiltà occidentale, lasciò tutto per andare a nascondersi nelle lontane e primitive isole dell’Oceano Pacifico.
Si ferisce il prossimo, dunque, fondamentalmente per restituire una ferita che si è ricevuta: questo è il dinamismo più comune delle relazioni umane, diremmo quasi automatico: lui mi insulta, io lo insulto; lui mi dà un pugno, io glielo rendo.
È facile intuire quali danni produca una tale dinamica nel campo dei rapporti affettivi e sentimentali, oltre che in quelli professionali: innumerevoli cuori vengono spezzati in amore, semplicemente perché uno dei due membri della coppia non è riuscito a liberarsi dai propri fantasmi e ha assecondato l’impulso di vendicarsi del male ricevuto, infliggendo del male a sua volta, anche se sulla persona sbagliata.
C’è, inoltre, un mistero tremendo nel fatto che il male morale che si è ricevuto non è affatto proporzionale alla intenzionalità di chi lo ha inferto: nel senso che accade frequentemente che una persona che è consapevole di aver prodotto un grado dieci di male, o che addirittura non pensa di aver causato male alcuno, di fatto ha arrecato all’altro un male di grado cento o mille.
La spiegazione è relativamente semplice e dipende dal fatto che la nostra percezione del bene e del male, così come di tutti gli altri fatti della nostra vita relazionale e affettiva, è estremamente soggettiva: noi riteniamo di ricevere un male, o talvolta anche un bene, molto più grandi di ciò che era nelle intenzioni dell’altro; in certi casi, addirittura, l’altro non era affatto cosciente di farci né del male, né del bene, dicendo quella parola o adottando quel comportamento.
Abbiamo fatto tutto da soli: abbiamo ingigantito atti e parole nella nostra mente e nella nostra anima, a seconda delle nostre brame e delle nostre paure; sicché, quando ci accade di precipitare dalle sublimi altezze dell’amore alle cantine maleodoranti della gelosia, del disinganno, della sofferenza, ci sentiamo traditi e ingannati: ma non sempre tale reazione è realmente legittima, secondo una considerazione spassionata dei fatti.
Il punto è che noi facciamo una immensa fatica ad esaminare spassionatamente i fatti che ci riguardano; e bisogna pur dire che tale fatica è giustificata dal dato oggettivo che noi e i fatti siamo un tutt’uno, siamo una cosa sola: nessuno può porsi al di fuori di essi, nel momento in cui li sta vivendo, così come nessuno potrebbe separare la percezione visiva o uditiva o tattile dalla propria coscienza e considerarle in se stesse (lo aveva già notato George Berkeley e nessun filosofo, a nostro avviso, è mai stato capace di confutarlo, benché ci abbiano provato in molti).
Comunque, la risposta al dolore per le proprie ferite dipende dal percorso spirituale di ciascuno e dal suo livello di consapevolezza: più si è consapevoli, più si accetta il mistero del male e si abbandona la tentazione di vendicarsi del male ricevuto, infliggendone dell’altro a propria volta, magari su coloro che non c’entrano affatto.
Un buon esempio della dinamica distruttiva di cui stiamo parlando è dato da una pagina del capolavoro di John Fante, «Chiedi alla polvere» (titolo originale: «Ask the Dust», traduzione italiana di Maria Giulia Castagnone, Milano, Marcos y Marcos, 2001, pp. 35-39), che vede protagonisti due giovani, un uomo e una donna, i quali soffrono entrambi per il duplice problema della povertà e dell’emarginazione sociale.

«Il caffè era pessimo. Quando mescolai la panna,  capii che doveva trattarsi di tut’altro, perché l’insieme  assunse una sfumatura grigiastra e il gusto mi parve quello della risciacquatura di stracci.  La cosa mi irritò perché, per quel caffè, avevo speso i miei ultimi cinque cent. Mi guardai attorno in cerca ella ragazza che mi aveva servito.  Era piuttosto lontana e stava trasferendo delle birre dal vassoio che aveva in mano a un tavolo. Era girata di schiena e io notai la linea morbida e compatta delle spalle sotto il grembiule bianco, la lieve traccia dei muscoli sulle braccia e i capelli neri, folti e lucenti, che le ricadevano sciolti.
Finalmente si voltò e io la chiamai con un cenno. Mi prestò poca attenzione , ma spalancò gli occhi, assumendo un’espressione di infastidita indifferenza. A parte il contorno del viso e il candore dei denti, non erra bella. I denti li notai quando si voltò a sorridere  a uno degli avventori, rivelando una striscia bianca  tra le labbra dischiuse. Aveva il naso degli indios, piatto, con le narici larghe. Le labbra, spesse come quelle di una negra, erano cariche di rossetto. Apparteneva a un’altra razza, e forse ne era un esemplare pregevole,  ma era troppo strana per me. Aveva gli occhi a mandorla, la carnagione scura, anche se non nera, e quando camminava i seni si muovevano rivelando la loro sodezza.
Dopo quella prima occhiata, mi ignorò. Proseguì verso il bar, dove ordinò delle altre birre e aspettò che il barista, un tipo smilzo, riempisse i bicchieri. Nell’attesa si mise a fischiettare, lanciandomi un’occhiata distratta. Decisi di smetterla con i cenni, ma la guardai in modo tale da non lasciarle dubbi sul fatto che volevo che si avvicinasse. Improvvisamente gettò indietro la testa e scoppiò in una risata incomprensibile, che lasciò perplesso anche il barista. Poi si allontanò quasi danzando, facendo dondolare con grazia il vassoio, diretta verso un gruppo seduto all’estremità opposta del locale. Il barista la seguì con gli occhi, ancora stupito per il suo scoppio di risa. Ma io sapevo che cosa l’aveva provocato. Ero stato io.  C’era qualcosa nel mio aspetto, forse il mio viso o il modo in cui me ne stavo lì seduto che l’aveva divertita e, al solo pensiero, strinsi i pugni e mi esaminai con irosa umiliazione.  Mi toccai i capelli, erano pettinati. Passai le dita sul colletto e sulla cravatta, tutto a posto. Mi allungai fino a specchiarmi nello specchio che stava dietro il bancone, dove vidi riflessa la mia faccia, sicuramente pallida e preoccupata, ma non certo buffa, e mi adirai.
Cominciai a sogghignare; la guardai attentamente e sogghignai. Ma lei non venne. Arrivava vicino, persino al tavolo accanto al mio, ma non si avventurava oltre. Ogni volta che vedevo il suo viso scuro e i grandi occhi neri che mandavano lampi di ilarità, piegavo le labbra in un sogghigno.  Diventò un gioco. Il caffè si raffreddò, continuò a raffreddarsi, la panna si raggrumò in una specie dio schiuma sulla superficie, ma io non lo toccai. La ragazza si muoveva come se danzasse e le gambe lisce e forti sollevavano vortici di segatura ogni volta che le scarpe  consunte scivolavano sul pavimento di marmo.
Erano “huarachas”, quelle scarpe, ed erano trattenute da lunghi lacci di cuoio attorno alle caviglie. Erano ridotte in uno stato pietoso, la fascetta era tutta sfilacciata.  Quando le notai, provai un senso di soddisfazione; avevo trovato qualcosa su cui appuntare le mie critiche.  Era una ragazza di circa vent’anni, alta e dritta, e non aveva altro difetto che quelle logore “huaracas”. Cominciai a fissarle, le osservai attentamente e deliberatamente, girandomi e allungando il collo per scrutarle sogghignando e ridacchiando tra me. Era chiaro che la cosa mi divertiva, come prima si era divertita lei alla vista della mia faccia, o qualsiasi cosa fosse stata.  Ne rimase molto colpita. Poco per volta tutto il suo piroettare si acquietò e lei si limitò ad andare avanti e indietro con aria sempre più furtiva.  Era imbarazzata e mi accorsi che si lanciava delle rapide occhiate verso i piedi; un attimo dopo aveva smesso di ridere e il suo volto prese a rabbuiarsi, finché prese ad osservarmi con uno sguardo d’odio.
Mi sentivo esultante, stranamente felice, finalmente rilassato. Il mondo era pieno di gente incredibilmente divertente. A questo punto lo smilzo che stava dietro il bar mi lanciò un’occhiata che io ricambiai con un’amichevole strizzatina d’occhi. Mi fece un cenno di complicità con il capo. Sorrisi e mi appoggiai allo schienale, appagato.
La ragazza non aveva ancora preso i soldi del caffè. Ma prima o poi avrebbe dovuto farlo, a meno che non me ne fossi andato, lasciandogli sul tavolo. Io, però, non avevo nessuna intenzione di muovermi.  Mi misi ad attendere. Passò mezz’ora. Quando portava al banco le ordinazioni non si fermava più davanti, in piena vista, ma girava dietro. Aveva smesso di guardarmi, ma sapeva di essere osservata.
Finalmente puntò dritta verso il mio tavolo. Procedeva con aria orgogliosa, il mento alzato, le braccia tese lungo i fianchi.  Avrei voluto tenerle gli occhi addosso, ma non riuscii. Distolsi lo sguardo, continuando a sorridere.
“Desideri qualcos’altro?” mi domandò.
Il grembiule bianco odorava di amido.
“La chiami caffè questa roba?” le dissi.
Improvvisamente scoppiò di nuovo a ridere. Il suo era un riso stridulo e folle che ricordava l’acciottolio delle stoviglie e si concluse di colpo, così com’era cominciato. Le guardai di nuovo i piedi. Sentii qualcosa ritrarsi, dentro di lei. Volevo ferirla.
“Forse non è nemmeno caffè” aggiunsi. “Forse è l’acqua in cui hai fatto bollire  le tue sudice scarpe”. La fissai negli occhi neri e fiammeggianti. “Forse non ci hai pensato o sei sbadata di natura. Ma se io fossi una ragazza non mi farei vedere in giro con delle scarpe come quelle”.
Quando finii, avevo il fiato mozzo. Le sue labbra  spesse tremavano e le mani si torcevano sotto la stoffa inamidata delle tasche.»
“Ti odio” mi disse.
Lo sentivo, quest’odio. Potevo quasi annusarlo, o udirne il suono, ma sogghignai di nuovo. “Lo spero bene” ribattei. “Chi si attira il tuo odio non può essere altro che un tipo in gamba”.
A questo punto disse una strana cosa. La ricordo con chiarezza. “Vorrei che ti venisse un colpo” mi disse. “E che restassi lì secco, in quella sedia”.

È chiaro che i due giovani si sentono attratti l’uno dall’altra e vorrebbero cercare nella solidarietà reciproca un balsamo per le loro sconfitte e le loro umiliazioni; ma la scarsa consapevolezza di entrambi, e specialmente del ragazzo, li portano subito a infliggersi il maggior male possibile, come se, così facendo, potessero esorcizzare i propri fantasmi.
La persona che abbia raggiunto un grado anche modesto di consapevolezza spirituale sa che nella vendetta, quand’anche fosse esercitata contro la persona “giusta” e non sul primo poveraccio che capita a tiro, non porta all’anima alcun reale sollievo, perché non agisce alla radice del problema: che è, fondamentalmente, la percezione di se stessi.
Chi sa di possedere un’anima leale, prima o poi riuscirà a medicare le proprie ferite, rendendosi conto che mai il male ricevuto ha il potere di renderci peggiori, se noi non lo vogliamo; solo chi ha scarsa stima di se stesso continua a tormentarsi all’infinito per quello che è stato, a processare mentalmente i propri carnefici e a sognare impossibili vendette, con il solo risultato di rendere cronico il proprio malessere e di sprofondare nell’oscuro tunnel della negatività, del più tetro pessimismo e dell’angoscia esistenziale.
È importante, dunque, anzi è essenziale, lavorare sulla propria consapevolezza.
Quanto più il nostro sguardo si farà limpido, tanto più riusciremo a vedere le cose per quello che realmente sono, a farcene una ragione, a trovare la pace dell’anima.