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La guerra di Sarkò contro Gheddafi. E contro l'Italia

di Goffredo Adinolfi - 26/08/2011

 
 
«La guerre de Nicolas Sarkozy» così Le monde del 24 agosto definisce il conflitto che ha sconvolto la Libia negli ultimi sei mesi. Già, perché la sconfitta di Gheddafi è un innegabile successo del presidente francese che, più di tutti, ha investito su un rovesciamento del regime di Tripoli, ha armato i ribelli, e fatto pressioni per un intervento Nato. Un merito che gli viene riconosciuto non solo dal suo partito ma pure, a malincuore, dall'opposizione socialista.

Una guerra preparata nei minimi dettagli, scrive senza mezze parole Natalie Nougayrède e pianificata, da quanto si evince dalla lettura di alcuni file diffusi da Wikileaks, fin dal gennaio del 2008, cioè ben prima dell'inizio del ciclo delle primavere arabe.

Ma quali sono le vere ragioni di un dinamismo quantomeno sospetto? Messa da parte l'ipotesi che questa guerra sia stata voluta per favorire una transizione democratica, le possibili spiegazioni che restano sul tavolo sono tre: le elezioni presidenziali del prossimo anno, le vaste risorse di petrolio e il controllo sui copiosi capitali libici. Certo, la popolarità di Sarkozy al momento non è elevatissima, il petrolio è una risorsa sempre più rara e quindi preziosa, ma anche i fondi sovrani, così come gli investimenti della Banca centrale libica fanno gola per una economia sempre più a corto di capitali freschi e che, proprio in questi giorni, sta discutendo il suo piano di austerità.

Possiamo affermare che nella sua sostanza questa sia stata una guerra contro l'Italia? Dopotutto, mettiamola come vogliamo, la Libia di Gheddafi per l'Italia era molto di più di una semplice alleata: non solo è il nostro principale fornitore di petrolio, ma anche la proprietaria di ingenti, e strategici, pacchetti azionari, in particolare Unicredit (salvata dai libici da un possibile fallimento) e Finmeccanica. I giornali tendono a minimizzare: per i contratti di Eni tutto bene garantisce il nuovo governo «legittimo». Ma è evidente che nel futuro l'Italia dovrà trattare di tutti questi aspetti, contratti e pacchetti azionari, con la nuova leadership libica, a meno che non si voglia davvero credere che su simili questioni sia davvero il mercato a decidere.
Uno scenario poco tranquillizzante per noi italiani perché c'è da supporre che il successore di Gheddafi alla guida della Libia sarà più sensibile agli argomenti di chi più di tutti lo ha sponsorizzato, i francesi, e un po' meno nei confronti di chi lo ha avversato fino all'ultimo.

In ogni caso, gli sherpa libici e francesi sono già all'opera per preparare una fitta agenda di incontri bilaterali tra Sarkozy e i rappresentanti del Consiglio nazionale di transizione. E l'Europa? L'Europa ne esce malino, perché se da un lato non ha giocato nessun ruolo nel promuovere veri processi di democratizzazione (dopotutto, per capire quanto interessi all'Europa la democrazia, basta vedere quel che sta succedendo in Ungheria) dall'altro lato sembra essere lacerata da conflitti interni che ricordano più il periodo che precedette la deflagrazione della prima guerra mondiale (quando gli stati europei con righello e compasso alla mano si spartivano l'Africa) che non la vigilia della costruzione di una vera unione politica.

Ci si dovrebbe quindi interrogare su quale sia il ruolo che intende giocare la Francia (destra e sinistra in politica estera non sembrano molto diverse) sullo scacchiere internazionale. Le burocrazie del Fondo monetario internazionale e dell'Organizzazione mondiale del commercio sono a salda guida francese, rispettivamente Christine Lagarde e Pascal Lamy. In particolare rispetto all'Italia c'è da rilevare come la Francia, dopo avere comprato, tra le altre cose, la Banca nazionale del lavoro e dopo la conquista sempre più probabile di Alitalia, minacci ora di allargare, almeno indirettamente, il suo controllo su Unicredit e mettere un piede in Finmeccanica. Non è superfluo sottolineare il fatto che comprare banche significhi non solo acquisire influenza, ma anche informazioni molto riservate relative alle imprese e al tessuto economico di un paese.

Dato per morto forse troppo frettolosamente, lo stato-nazione sembrerebbe continuare giocare un ruolo fondamentale di aiuto e supporto di quello che una volta veniva definito il suo «blocco dominante», insomma niente di nuovo sotto il sole a essere sinceri. Contrariamente a quanto vorrebbe la teoria neo-liberista, senza una politica autorevole non può esistere una economia forte. Così nel vuoto politico che regna oramai in mezza Europa, e che in Italia dura da un ventennio, Francia (e Germania) hanno gioco facile a imporsi e a imporre le proprie regole.