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Azzerare l’attuale classe dirigente

di Francesco Lamendola - 31/08/2011




È vero che, in linea di massima, una nazione esprime la classe dirigente che si merita e, quindi, sarebbe vano prendersela con quest’ultima se non sa restituire fiducia in se stessa alla prima, come se politici, imprenditori, uomini e donne di successo fossero piovuti dal pianeta Marte e non germogliati dal medesimo suolo che nutre i cittadini comuni.
È anche vero, però, che se una classe dirigente si chiude a riccio nei propri privilegi e nella propria arroganza di casta, essa finisce per costituire un corpo estraneo all’interno della società, un corpo parassitario che rappresenta, paradossalmente, il peggiore ostacolo al benessere e alla crescita morale e civile di quel determinato Paese.
Tale è il caso dell’Italia, un grande Paese con delle grandissime potenzialità, che però, da oltre trent’anni, è in continuo declino, non solo in termini economici e produttivi, ma in senso complessivo; non solo perché le nostre aziende perdono continuamente competitività rispetto ai prodotti esteri e perché sempre nuove fette di mercato internazionale vanno perdute, ma anche perché gli Italiani hanno perso fiducia in se stessi, non credono più nelle regole e nella giustizia, si arrangiano sempre più come possono e indulgono a comportamenti egoistici, antisociali, miseramente furbeschi che però, in definitiva, si ritorcono contro di loro.
Lo sciopero dei calciatori, chiaramente legato alla scarsa o nulla voglia di pagare il contribuito di solidarietà deciso dal governo, è l’ennesima dimostrazione di una classe dirigente meschina e venale, ottusamente arroccata a difesa di se stessa e sommamente indifferente al malessere profondo che sta attraversando il Paese e che colpisce con durezza sempre maggiore proprio le famiglie ed i ceti sociali meno abbienti.
E non si dica che i calciatori non sono parte della classe dirigente: si dia un’occhiata ai loro stipendi favolosi e ci si convincerà facilmente che quei signori ne sono parte a pieno titolo, anzi, ne sono una delle componenti più caratteristiche, sotto ogni punto di vista. E, a questo proposito, ci sia lecito fare un passo indietro nel tempo e nello spazio e tornare sulle dune infuocate di El Alamein, nell’estate e nell’autunno del 1942.
Che cosa c’entra la storica battaglia di El Alamein con lo sciopero dei calciatori di questa nostra estate del 2011? È presto detto.
A El Alamein, così come a Cheren, ad Argirocastro, a Capo Matapan o a Isbuscenskij, la macchina militare italiana funzionava in una maniera assai particolare: potevano mancare le portaerei, i carri armati, i camion, o semplicemente le munizioni e persino l’acqua potabile; ma non mancavano mai le mense separate per gli ufficiali e i semplici soldati. Il vitto dei primi era simile a quello di un buon ristorante, anche a ridosso della prima linea; quello dei secondi, somigliava molto a quello riservato agli inquilini delle patrie galere.
Gli ufficiali, col loro bravo attendente, non si facevano mai mancare tutte le comodità consentite dalle circostanze e, sovente, anche quelle non consentite; per fare solo un esempio, presso quasi tutti i reparti di fanteria, un certo numero di camion risultavano sempre ufficialmente in riparazione, mentre, in realtà, erano destinati al riposo notturno dei signori ufficiali impegnati al fronte. Mescolarsi alla truppa nelle trincee, dormire come loro, mangiare come loro: questo era semplicemente impensabile, qualcosa di molto simile al sacrilegio.
I camerati tedeschi, i quali, specie in Africa Settentrionale, ebbero modo di osservare da vicino i loro alleati, non mancarono di fare le più grandi meraviglie per un simile andazzo: da loro, la mensa era unica e gli ufficiali, non solo i sottotenenti, ma anche i generali di corpo d’amata, vivevano e dormivano esattamente come l’ultimo dei loro soldati semplici: come loro affrontavano le pulci e la muffa sulle gallette, non solo il caldo infernale e i proiettili del nemico. E Rommel, il comandante supremo dell’Afrika Korps, non faceva eccezione.
Ora, è chiaro che l’esempio dato dagli ufficiali è fondamentale non solo per la disciplina, ma anche per il morale delle truppe e quindi, di riflesso, per il loro spirito combattivo.
Dopo la fine della campagna in Tunisia, nel maggio 1943, le ultime armate italiane e tedesche in terra d’Africa vennero prese prigioniere dagli Angloamericani.
Un reduce ha raccontato che, quando venivano distribuite loro le bottiglie d’acqua, da noi tutti si precipitavano ad acchiapparle, col risultato che alcuni ne avevano tre o quattro e alcuni nemmeno una. Presso i Tedeschi, gli ufficiali stabilivano che ciascun uomo si facesse avanti per ricevere la propria e così nessuno rimaneva senza.
Sempre quel reduce ricorda cosa accadde quando i prigionieri vennero fatti salire sui camion che li avrebbero condotti nei campi cui erano destinati, dieci alla volta. I Tedeschi si contavano da soli: «Eins, Zwei, Drei…» e salivamo disciplinatamente, non un uomo di più, non uno di meno su ciascun autocarro. Gli Italiani cominciavano a chiedere di far salire il cognato, il cugino, l’amico; e alla fine si trovavano sempre in troppi, scomodi e indisciplinati.
Citiamo questi semplici episodi non per denigrare il soldato italiano, che, a El Alamein come nella battaglia del Mareth, si mostrò pari, sotto ogni punto di vista, al suo camerata tedesco, e perfino a lui superiore laddove si richiedevano non solo disciplina e obbedienza, ma inventiva e capacità di improvvisazione; ma per ribadire il concetto che quando funziona il corpo ufficiali, funziona anche la truppa; e quando funziona la classe dirigente, funziona l’intero sistema Paese.
Adesso torniamo al presente.
Una classe dirigente seria e degna di questo nome è quella che, in tempi di difficoltà o di crisi, come quelli che al presente stiamo vivendo, non solo non si tira indietro quando c’è aria di stringere la cinghia dei calzoni, ma dà il buon esempio e si fa avanti per prima, assumendosi la sua parte di sacrifici, così come, nel tempo delle vacche grasse, ha goduto la sua brava parte di privilegi e si è spartita la sostanziosa torta dei dividendi.
Ora, nessuno pretende da un calciatore o da un medio imprenditore lo stesso eroico spirito di sacrificio del comandante di una nave che aspetta di aver visto salire sulle scialuppe di salvataggio tutti i suoi uomini, prima di abbandonare la plancia o, addirittura, che rifiuta di mettersi in salvo, preferendo andare a fondo con il senso intatto del proprio onore.
Certo, questo sarebbe troppo: ma da qui a vedere come si comportano i nostri uomini ricchi e potenti, quando i topi incominciano ad abbandonare la nave in procinto di affondare, c’è una differenza un po’ troppo grande.
Osservandoli, si potrebbe credere che essi non siano i membri della classe dirigente, ma solamente degli avidi e spregiudicati mercenari che, dopo aver spremuto dalla situazione tutti i vantaggi possibili, tagliano la corda senza un briciolo di dignità e senza minimamente curarsi dei guai in cui abbandonano chi scappare non può.
La persona comune, il pensionato che non ce la fa ad arrivare a fine mese, l’operaio che non riesce più a pagare l’affitto di casa e le bollette in continuo aumento, guardano sconcertati e depressi, ma ormai quasi rassegnati, questi imprenditori bancarottieri che giocano con la fiducia dei loro clienti, questi banchieri usurai che smerciano titoli senza più valore come fossero merce di buona qualità, questi calciatori miliardari che si rifiutano di rinunciare a una modesta percentuale dei loro stipendi da favola, questi uomini politici che predicano la virtù del sacrificio ma vivono gratis o quasi in appartamenti di gran lusso.
Li guardano e non sentono più nemmeno la voglia di indignarsi, tali sono la stanchezza e l’amarezza che li invadono e, soprattutto, tale è la triste consapevolezza che non si dia alternativa, che non esista un partito degli onesti da contrapporre a quello dei disonesti: perché disonesti, purtroppo, lo sono tutti e sia pure in diversa  misura e con uno stile, chiamiamolo così, almeno in parte differente.
Questo è il vicolo cieco dal quale è assolutamente necessario uscire: la rassegnazione da un lato, la mancanza di alternative dall’altro.
È necessario che le persone migliori si facciano avanti, che vincano la loro naturale modestia e che si mettano in gioco per il bene comune, anche a costo di accollarsi fastidi d’ogni sorta e assai probabili manifestazione d’ingratitudine, se non di vera e propria ostilità.
Quando un intero sistema è malato, esso tende a rifiutare la terapia che potrebbe restituirgli la salute, perché ormai preferisce assestarsi nelle sue contraddizioni e vivacchiare in mezzo alle sue difficoltà, piuttosto che affrontare il problema in modo franco ed energico e sottoporsi ad una cura che lo costringerebbe a rimettersi radicalmente in discussione.
Il sistema Italia è malato: di faciloneria incosciente, di furbizia da quattro soldi, di individualismo esasperato ed egoista, di nepotismo e corruzione, di intollerabile gerontocrazia, di conformismo e di miopia culturale: è come una vecchia soffitta che da decenni non riceve un soffio d’aria pulita né un raggio di luce e dove le cose incominciano ad ammuffire.
In una situazione del genere, i migliori tendono ad andarsene, in cerca di situazioni più accoglienti e più consone ai loro meriti e alle loro qualità; mentre i peggiori moltiplicano gli sforzi per conservare il monopolio di quelle posizioni di potere che permettono loro di continuare a parassitare il corpo sociale, a dispetto del fatto che le mucche da mungere sono sempre più magre e di latte, ormai, ne hanno ben poco.
Ma queste sanguisughe sono talmente ciniche e talmente avide, che sarebbero capacissime di mandare le povere mucche al macello, benché vecchie e malate, pur di strappare loro anche l’estrema risorsa: quel poco di carne che hanno ancora attaccato alle ossa, visto che latte non sono più capaci di farne.
Tutto dipende se abbiamo ancora un po’ di amore, se sentiamo ancora un legame vivo e profondo con la nostra terra, con il nostro passato, con il cielo che ci ha visti nascere e con le persone care che ci hanno allevati e che adesso riposano al camposanto.
Tutto dipende se siamo anche noi soltanto dei mercenari avidi e un po’ cinici, i quali, dopo aver sfruttato quel che c’era da sfruttare, voltano le spalle al proprio padre e alla propria madre e danno ai propri figli l’esempio di chi segue la strada più facile, pur di conservare un certo grado di benessere materiale.
Tutto dipende se siamo anche noi in vendita, come hanno mostrato di esserlo tanti, troppi esponenti della nostra classe dirigente.
Certo, in condizioni normali non si dovrebbe pretendere che il soldato semplice abbia un maggior senso dell’onore del suo generale, né che colui che socialmente conta poco, possieda un maggiore spirito di sacrificio di colui che conta molto.
Questi, però, non sono tempi normali; non è una situazione normale quella che il nostro Paese sta attraversando: è a rischio la sua stessa sopravvivenza.
Quando la casa sta bruciando, solo uno stupido o un criminale si mettono a discutere su chi ne porti la responsabilità; tutte le persone oneste e di buona volontà, invece di recriminare e perdersi in chiacchiere, si rimboccano le maniche e corrono a prendere l’acqua per spegnere le fiamme, costi quello che costi.
Non aspettano nemmeno i pompieri; non demandano ad altri la propria salvezza: sanno che devono impegnarsi in prima persona, subito, senza riserve e senza risparmio, perché ne va di mezzo un bene che è essenziale per ciascuna di esse.
E questo è ciò che dobbiamo fare; non possiamo scusare la nostra inerzia con oziosi ragionamenti, né indulgere in un pessimismo programmatico, che è solo il comodo alibi per non fare niente.
È la società civile, nel suo complesso, che deve ritrovare orgoglio, fierezza e unità d’intenti; che deve far prevalere le ragioni della concordia e del bene comune, rispetto alle logiche grettamente faziose e corporative.
La nostra attuale classe dirigente è da azzerare: ma, intanto, partiamo da noi stessi e sforziamoci di bonificare le tendenze egoistiche e meschine che sono in noi stessi e, se possibile, di dare un degno esempio ai nostri figli.