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Intervista a Hugo Pratt (1979)

di Joan Benavent - 02/09/2011

Fonte: conversazionisulfumetto



Presentiamo un’intervista a Hugo Pratt condotta da Joan Benavent nel 1979 in Argentina e pubblicata sulle pagine della rivista “Un hombre, mil imágenes” nel 1983.

Mi sarebbe piaciuto che il “téte a téte” che state per leggere avesse avuto luogo in un altro spazio e, perché no, in un altro tempo. Per un attimo mi viene in mente lo scenario di “Una ballata del mare salato”, le raffiche di mitragliatrice, i silenzi sul Pacifico o sul Reno di “Ernie Pike”, l’idea di giocare una partita a poker con Kirk e Corazón Sutton mentre Humprey Bogart e Ingrid Bergman vivono il loro glorioso amore carico di sensi di colpa nelle vicinanze, in un caffé di Casablanca, osservati da vicino da Houston, Ford e Howard Hawks.
Essendo Hugo Pratt più giovane di me di qualche anno, uno scenario qualsiasi tra questi sarebbe valso come perfetta cornice dell’intervista con questo stallone cinquantenne e talentuoso del disegno, che vent’anni prima aveva affascinato il “Tout Buoneos Aires” con la sua mondana stravaganza di portare un anello all’orecchio e disegnare fumetti come un dio.
I tempi son passati ma Hugo è rimasto lì, incastonato come una gema nella memoria di coloro che ebbero la fortuna di partecipare alle serate di baldoria nel suo chalet a San Isidro, di vederlo inchistrare, con pennellate maestose, le pagine di “Ticonderoga Flint” e di vederlo posare, nella parte del cattivo, nei fotoromanzi dell’epoca. Oggi forse, quando tutto ormai appartiene alla memoria di pochi, quando la bellissima Gisela Dester -la sua assistente dell’epoca- disegnata dalla mano di Pratt in qualche episodio di “Ernie Pinke” o di “Anna nella giungla”, non ci abbaglia più dalle pagine di “Hora Cero”, lui e il suo talento di colosso mi rimangono fissi davanti, e per me è più che sufficiente. La battaglia che qualsiasi reportage suppone è stata per me un piacere nonostante il destino, questo vecchio despota che suole spesso dominare la volontà degli uomini, ci avesse offerto come campo di battaglia un recinto che sapeva di pulito e di deodorante per ambienti, dai cui finestroni forse si sarebbe potuto toccare con la punta delle dita l’obelisco di una meccanica e invernale città com’è Buenos Aires a maggio.
Tanto meno è circolato vino o liquore alcuno durante l’intervista, e ciò è male perché tanto Hugo Pratt, quanto me e voi, sappiamo che la cultura alcolica degli autori di fumetto è qualcosa da non sottovalutare e anzi da tenere scrupolosamente a mente. Ma non c’era da preoccuparsi perché l’artista mi ricevette dopo aver alzato già abbondantemente il gomito, con un vino potente e vitale che fece delle sue risposte veri colpi d’artiglieria in piena deflagrazione.


“Iniziai a disegnare a sei anni per merito di mia nonna. Mi portava molto spesso al cinema a vedere i film di Cecil B. De Mille e qualcuno di “Tarzan”. Visto che mi piaceva il disegno cercavo di illustrare alla bene e meglio quel che vedevo, mettendo assieme la Claudette Colbert di “Cleopatra” o del “Il segno della croce” con il Johnny Weismuller di “Metro Goldwyn Mayer”…

Dedicava questi primi fumetti a sua nonna?
Chiaramente. Era lei che mi spingeva a disegnare, forse con l’idea che mi potessi costruire un futuro scarabocchiando dei cartoncini. Per prima cosa andavamo al cinema di pomeriggio, quindi fino a notte inoltrata mettevo in piedi storie strampalate con Tarzan e Cleopatra come protagonisti. Ne andavo matto e il giorno in cui mia madre bruciò vari fascicoli di “Avventuroso” e “Audace”, che tenevo scrupolosamente custoditi come fossero stati d’oro, la mia passione invece che diminuire non fece che accentuarsi.

Vuole forse dire che Hugo Pratt approdò al fumetto a causa di alcuni problemi familiari?
Naturalmente. Ma quel che più mi spinse in questa direzione fu un viaggio con mio padre in Abissinia. Vi rimanemmo sei anni e in qualche modo divenni testimone involontario di quel che era stata l’ultima grande guerra nello scenario coloniale. In Africa mi trovavo tra i nativi, tra i soldati di tutte le nazioni e subito imparai a parlare varie lingue e dialetti. Tutto questo eccitò fortemente la mia immaginazione e nutrii l’amore che già manifestavo per l’avventura.


L’amore per il fumetto continuò a sferzare il tuo cuore anche in quei giorni?

Talmente tanto che, figurati, la prima cosa che feci quando misi piede in Abissinia fu di chiedere ai locali dove si trovasse la “Pattuglia dell’avorio” (qui Hugo si riferisce a “Tim Tyler’s Luck” [in Italia "Cino e Franco" NDR] di Lyman Young). Come puoi immaginare i piccoli negretti dell’Abissinia non conoscevano né questa né nessun’altra storiella, tanto meno qualcosa di così esotico come la suddetta pattuglia.
Visto che ero un fanatico di quel fumetto iniziai a deambulare per un po’ di tempo alla ricerca del quartier generale dei miei eroi favoriti, fin quando non mi stufai e iniziai a disegnare. Disegnavo tutto, assolutamente tutto ciò che vedevo, immaginando storie più documentate e reali rispetto alle precedenti su Cleopatra e Tarzan. Nel 1943 tornai in Italia assieme ad un milione di compatrioti, con un bagaglio di ammirazione fin quasi alla follia per Milton Cannif, Will Eisner e soprattutto Kipling. Quest’ultimo in particolare seppe come pochi descrivere quel che avveniva nelle colonie e nelle città in contesti di guerra. Seppe anche dire come pochi: “Fate l’amore, non fate la guerra”. Ripeto, per me fu un aristocratico dell’avventura.

Prima avete menzionato Eisner. Sapevo che Caniff e la sua “Terry” erano arrivati in Italia, ma Eisner…
E’ così. “Spirit” non venne mai pubblicato in quel periodo nell’Italia di Mussolini perché quando Eisner lo diede alla luce, nel 1941, successe quel che successe a Pearl Harbour e gli Stati Uniti dichiararono guerra all’Asse; venne invece pubblicato negli Stati Uniti, venduto a dieci centesimi e divorato dagli americani su tutti i fronti di guerra, incluso quello africano, ed io c’ero.


Bel miscuglio questo di un premio Nobel (Kipling) e di due disegnatori di fumetti. Credo che farebbe morir dal ridere l’“intelligentia”!

Non ne vedo il motivo. La letteratura e il cinema hanno molto a che fare con il fumetto. Sono tre mezzi di comunicazione paralleli, benché il signor Nobel si trovi nel mezzo. La letteratura e il cinema hanno avuto una portentosa influenza su di me. Il cinema, ad esempio, degli anni ’30 e ’40 mi era entrato nelle ossa. Il cinema americano d’autore come quello di John Ford, Delmer Dowes, John Garfield e la serie nera completarono l’incantesimo. Bogart impersonava sempre ruoli forti, attraenti, d’avventuriero umano e sensibile, infilato in un universo caotico e pieno di pericoli. Naturalmente verso la metà degli anni ’40, che è più o meno il periodo di cui sto parlando, pubblicai per la prima volta una mia storia su una rivista. Il soggetto trattato era un “Masked Hero”, come viene chiamato dagli americani questa tipologia di personaggio: un “asso di picche”.
Più tardi collaborai con Alberto Ongaro -uno dei migliori sceneggiatori a cui l’Italia abbia mai dato i natali- per una storia intitolata: “Uomini della giungla”. In questo fumetto potevo dar fondo finalmente alle mie conoscenze africane. Fu una grande esperienza.

Esperienza che soltanto verso la fine degli anni cinquanta poté ripetere in “Anna nella giungla”.
No, avevo incontrato ambientazioni simili nelle storie di guerra con Oesterheld. Beh ora da un punto di vista più integrale forse direi che hai ragione visto che la sceneggiatura di “Anna” la scrissi io. Prima di “Hora Cero” e “Ernie Pike” feci un viaggio a Buenos Aires assieme a quattro colleghi, sotto richiesta dell’editore Cesare Civita. Successivamente ebbi una stretta collaborazione con Oesterheld per la creazione de “Il sergente Kirk”, che fu un successo.

Vi fu data carta bianca nell’immaginarvi Kirk?
Totale. All’epoca non c’era censura, almeno non ai livelli di quella che c’è oggi in Argentina. Con questa storia io e Oesterheld anticipammo di poco il Dalmer Daves di “ L’amante indiana”, film che parteggiava per la causa degli indiani, fino ad allora dipinti come aggressivi e feroci, contro i sacri colonizzatori bianchi del West americano. Come sai Kirk è un eroe disertore dell’esercito dell’Unione che prende le parti dell’indigeno affrontando di petto il colonizzatore e allevando cavalli tra un’avventura e l’altra.

Lei e Oesterheld vi vedevate spesso per discutere le storie?
So solo che quando ci vedevamo era per ubriacarci. Quando fondò la casa editrice Frontera continuammo le avventure di Kirk insieme ad “Ernie Pike” e a “Ticonderoga”, fin quando non fu chiamato da Alvaro Zeroni per una collaborazione in “Totem”. Successivamente diressi per un certo periodo la seconda tappa della rivista “Rayo Rojo” e infine tornai in Italia.

Molti critici dicono che a partire da questo momento si apre la tua seconda fase, quella più creativa.
Si tratta di periodi diversi della vita di un uomo. In Italia lavorai per varie case editrici e iniziai quel che poi venne chiamato “ Una ballata del mare salato”, in cui riconosco di essere stato influenzato da Conrad, London, Zane Grey, Kipling, Oesterheld e Ongaro. Con questo voglio dire che dal punto di vista narrativo mi sento un po’ figlio di ognuno di loro. Da chi non potrei mai essere influenzato è Ernest Hemingway. Con questo non voglio togliere alcun merito ad Hemingway ma ci sono cose di lui che non mi piacciono per niente; ad esempio in quella storia del vecchio e la pesca, la “lusinga” del bello, la tiritera sulla baia in cui bisogna andare a pescare… dico io. Per me il campione più grande di tutti è Zane Grey, nonché Jack London. Furono entrambi maestri tra i maestri e seppero raggiungere il cuore del grande pubblico, che è quello che spero di fare anche io attraverso il fumetto.


Artisticamente parlando su chi il signor Pratt basò il proprio tratto?

Ragazzo, lo sanno tutti che sono un discepolo di Milton Caniff, del Milton Caniff di “Terry e i pirati” perché “Steve Canyon” non piace neppure a lui, come mi confidò lui stesso quando lo vidi a New York. Certo, anche Caniff è stato allievo, nello stile, di Noel Sickles, suo socio in un’agenzia di pubblicità negli anni ’30. Come vedi c’è sempre un antecedente per qualsiasi cosa. Per la realizzazione del personaggio di Corto Maltese c’è dietro mezzo secolo della mia vita… da un momento all’altro Corto Maltese morirà e questo accadrà probabilmente verso la fine della guerra civile spagnola. Prima però lo farò rimanere ancora un po’ nella Buenos Aires di inizio secolo, mentre balla un tango con la polacca e gioca a biliardo. Forse mi occuperò anche della sua gioventù… Vedremo.

Dopo “Gli scorpioni del deserto” si occupò de “L’uomo dei Caraibi”…
No. “L’uomo dei Caraibi” fu un’opera che per concluderla mi ci vollero cinque anni. Me la presi comoda come dicono e la disegnai poco per volta, influenzato dalla narrativa negro-americana. Non è tra le mie storie peggiori, la peggiore fu una che disegnai per Ongaro. Si trattava di un western credo e fu un lamentevole errore perché Ongaro voleva che disegnassi cavalli mentre a me uscivano cammelli.


A proposito di quel che ti esce e di quel che non ti esce, c’è chi dice che tu non sappia disegnare le mani.

Che?!!

In effetti qualcuno dice che quando impartivi corsi di disegno alla “Scuola Panamericana d’Arte” nessuno ti abbia mai visto disegnarle. Altre voci di corridoio assicurano che fosse il tuo ex socio artistico Mario Faustinelli a disegnarle per te.
Le mani sono la parte più espressiva del corpo umano e non ho mai avuto nessun problema a disegnarle, invece Mario Faustinelli si, perché Mario è stato il disegnatore di “Pompeo Bill” e di altri lavori di humor simili, quindi era abituato a disegnare quattro dita anziché cinque. Chiaro?

Si dice anche che al tuo arrivo a Buenos Aires negli anni cinquanta Civita ti abbia fatto disegnare (come a molti altri) Paperino.
Né Paperino né la Pantera Rosa. Chi disegna la Pantera Rosa è un mio amico che si chiama Pratt come me, Hawley Pratt; e come me è un autentico stallone del disegno. Uomo di talento è anche l’architetto Guido Fuga che mi disegna quei fantastici treni in “Lanterne rosse”. Infine c’è da dire che ci sono molte persone di genio, come Moebius, Bilal, Manara o Tardi, che calcano oggi le scene del fumetto mondiale.

Definiscimi in poche parole il tuo credo artistico.
Per tutta la mia infanzia e la mia prima gioventù sono vissuto immerso in un universo esotico e affascinante. Da questo universo attingo costantemente storie ed elementi d’ispirazione per il mio lavoro e, nonostante sia consapevole che quell’universo oggi non esiste più, continua a vivere la mia voglia di riscattarlo e di plasmarlo in migliaia di modi diversi, purché nella forma, essenzialmente unica, dell’avventura grafica che credo rimanga il mezzo di comunicazione più moderno e profondo in assoluto per comunicare messaggi del genere.


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traduzione di Elena Ludovica Cirillo