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Crisi planetaria dell’export: è l’ora della democrazia

di Adolfo Morganti - 22/09/2011

Fonte: identitaeuropea

I recenti sconvolgimenti che hanno riportato il Mediterraneo al centro del mondo, e la discussione attorno alla realtà o meno delle cosiddette “primavere arabe” ha riportato all’attenzione un tema che sembrava scomparso, seppellito sotto le sabbie irachene e le pietraie afgane: l’esportazione della democrazia.

Non abbiamo abbastanza spazio per ricapitolare nomi e testate di coloro che, non appena i popoli dal Marocco allo Yemen hanno iniziato a protestare contro i propri governanti corrotti, hanno riattaccato il vecchio disco e re innalzato peana all’esportazione della democrazia liberale, come se le masse arabe fossero insorte per questo.

Sulle rivolte arabe in breve condividiamo l’analisi che Lucio Caracciolo ne ha fatto sull’ultimo numero di Limes, compendiabile nel celebre verso della canzone di Battiato «quant’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire». Si tratta degli ultimi sconvolgimenti (in ordine di tempo) causati dal crollo del muro di Berlino prima, dell’unilateralismo USA poi e non di un sussulto di vitalità del modello di democrazia liberale occidentale, prova ne sia che un movimento del tutto simile (contro la incapacità di un intero ceto dirigente di garantire un minimo di giustizia sociale per correr dietro a fantasmi bellicisti) è sorto in tempo reale anche in Israele.

Ma in ogni caso l’illusione che il mondo liberal-capitalista, che definisce se stesso “l’occidente”, possa continuare ad esportare sé stesso nel mondo come il punto omega della civiltà umana appare ancora ben duro a morire, a dispetto dei fallimenti concatenati che i tentativi, appunto, di “esportare la democrazia” degli ultimi 10 anni hanno collezionato. Un fallimento che nella farsa afgana ha oggi il suo punto apicale e più ridicolo, potendosi ivi ammirar lo spettacolo di una Santa Alleanza à tete americane oramai disposta ad accordarsi con chiunque, compresi gli arcinemici di ieri, pur di fuggire da quel contesto, e tutto ciò continuando a raccontare se non altro a sé stessi che lo si fa perché si è vinta la battaglia.

In realtà l’illusione di poter “esportare la democrazia” come atto finale del progresso del mondo intero all’indomani del crollo del comunismo era, è e resta un ideologismo vecchio ed ammuffito, tipico della cultura protestante anglosassone. Una cultura – e una cultura politica – che dopo aver vissuto una breve stagione di onnipotenza oggi affoga nella crisi economica, nell’impoverimento sfrenato, nella conflittualità sociale e nell’incapacità di pensare per le proprie popolazioni un bene comune. In questo modo è tutto un ciclo di civiltà – quello della modernità – che nel momento del suo apparente trionfo è scivolato su se stesso e sta implodendo.

Un ciclo che inizia da lontano: per riprendere le dure parole di Roberto Giammanco, «Il globalismo economico, mediatico e militarizzato del nostro tempo non può fare i conti con la sua storia: nella sua distruttività, non conosce il senso del limite. Paradigmi-slogan come “missioni di pace”, “guerre senza testimoni” o “scontro di civiltà” assicurano la continuità ad una civilizzazione distruttrice fondata, nel corso dell’età moderna, sul genocidio-etnocidio degli indios e dei nativi del Nord America, e su quell’insostituibile moltiplicatore del capitalismo che è la schiavitù in tutte le sue forme, anche moderne.».

L’illusione di aver il diritto di imporre un unico modello socio-politico al mondo nell’area anglosassone ha quasi 500 anni di storia: nel 1579 un certo John Stubb, nel saggio The discovery of the Gaping Gulf, già definiva gli inglesi «il popolo scelto da Dio» per esercitare il dominio sul mondo e fin dallo stesso anno un tale John Lyly in polemica con la Chiesa cattolica che i protestanti fondamentalisti ancor oggi identificano con l’Anticristo, affermava che «il Dio vivente è soltanto il Dio inglese» Oggi J. Colosimo può intitolare un suo bel saggio sulla geopolitica negli USA con l’affermazione parallela Dio è americano (Jaca Book). Sappiamo come già dal XVII sec. i Puritani, ovvero la parte più fondamentalista del protestantesimo europeo, attraversando l’Atlantico credevano fermamente che, in quanto “popolo scelto” spettasse a loro il compimento della missione di creare la Nuova Israele nelle solitudini selvagge dell’America del Nord. «Troveremo che il Dio di Israele è tra di noi – predicava John Winthrop nel 1630 – e farà sì che noi diventeremo lode e gloria per quelli che verranno… Noi dobbiamo considerarci come una città sulla collina, una nuova Sion…». Dopo l’11 settembre il territorio in cui costruire la “nuova Israele” si è semplicemente allargato fino ad avvolgere il mondo intero.

Giungiamo velocemente al XXI secolo: di volta in volta, infatti, l’immaginario della missione perpetua si chiamerà Destino manifesto, Guerra giusta, Esportazione della democrazia, Difesa della civiltà occidentale contro grandi o piccoli “imperi del male”.

Un’abitudine, come vediamo, che ancora fa del male al mondo, e soprattutto sfida l’Europa a proporre allo spazio del Mediterraneo un equilibrio differente.