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Le mani della CIA in Yemen

di Michele Paris - 02/10/2011







Il Ministero della Difesa yemenita venerdì mattina ha annunciato l’uccisione sul proprio territorio del predicatore estremista islamico Anwar al-Awlaki. Nato negli Stati Uniti, Awlaki era da tempo sulla lista nera di Washington con l’accusa di essere uno dei leader di Al-Qaeda in Yemen e di essere coinvolto in numerosi attentati terroristici in Occidente. Nato nel 1971 in Nuovo Messico, dove il padre stava completando un master universitario, Awlaki era finito nel mirino della sicurezza statunitense in seguito alle sue accese prediche on-line inneggianti alla jihad. Grazie al suo inglese fluente e alla cittadinanza americana, sembrava essere diventato uno strumento importante per la propaganda di Al-Qaeda, contribuendo a diffondere l’ideologia integralista, incitando attacchi terroristici e reclutando nuovi affiliati nei paesi occidentali.

La sua morte è stata subito confermata dalla Casa Bianca, anche se inizialmente le circostanze dell’operazione non apparivano del tutto chiare. Il network saudita Al Arabiya, citando fonti tribali, aveva per primo affermato che un gruppo di veicoli - su uno dei quali stava viaggiando Awlaki - era stato colpito da due missili sparati da un drone statunitense in una provincia dello Yemen settentrionale. Successivamente è arrivata anche la conferma di Washington che Awlaki è finito vittima del fuoco americano.

Oltre al bersaglio principale, nell’attacco sarebbero state uccise alcune guardie del corpo e, soprattutto, un secondo cittadino americano, il 25enne nativo dell’Arabia Saudita Samir Khan, direttore del magazine on-line di Al-Qaeda in lingua inglese, Inspire. Ad annunciarlo è stato un comunicato dell’agenzia di stampa ufficiale yemenita, SABA, confermato da un funzionario del governo americano alla Associated Press.

La CIA conduce da tempo operazioni teoricamente segrete con i droni in territorio yemenita. Obiettivo frequente di queste incursioni era proprio il predicatore di origine americana, il quale già in due precedenti occasioni era stato dato per morto: nel dicembre del 2009 e nel novembre dell’anno successivo. Lo scorso 5 maggio, infine, ad una manciata di giorni dall’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan, Awlaki era sfuggito all’ennesimo blitz americano che uccise invece altri due presunti affiliati ad Al-Qaeda.

Anche in questa occasione, poche ore dopo l’annuncio del governo yemenita, si sono diffuse alcune voci che hanno smentito l’uccisione di Awlaki. In particolare, l’agenzia di stampa cinese Xinhua ha citato un’intervista telefonica del fratello, il quale avrebbe affermato che Awlaki non faceva parte del convoglio colpito venerdì. La smentita, in ogni caso, appare questa volta come una semplice operazione di propaganda.

Le autorità americane avevano messo in relazione Anwar al-Awlaki con svariate trame terroristiche nel recente passato. La responsabilità di quest’ultimo sarebbe stata più che altro di essere una fonte di ispirazione per gli attentatori, i quali avevano spesso soggiornato in Yemen per essere presumibilmente addestrati e indottrinati dagli uomini di Al-Qaeda.

Tra gli episodi collegati ad Awlaki c’è la sparatoria del novembre 2009 presso la base militare di Fort Hood, in Texas. In quell’occasione, il maggiore Nidal Malik Hasan, psichiatra dell’esercito americano, uccise 13 persone e, secondo le indagini, avrebbe scambiato e-mail con Awlaki poco prima della strage.

Awlaki avrebbe poi fornito un qualche appoggio sia al giovane nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab, che il giorno di Natale del 2009 tentò di far esplodere in volo un aereo della Northwestern Airlines partito da Amsterdam e diretto a Detroit, sia a Faisal Shahzad, protagonista di un fallito attentato con un’autobomba a Times Square nel maggio 2010.

L’amministrazione Obama lo scorso anno aveva incluso Anwar al-Awlaki in un elenco di presunti terroristi che avrebbero potuto essere colpiti dalla macchina da guerra americana in qualsiasi momento. Il presidente democratico era giunto in questo modo dove nemmeno l’amministrazione Bush aveva osato arrivare nella “guerra al terrore”. La semplice designazione di “terrorista globale” è infatti diventata sufficiente a segnare la sorte di un sospettato, senza che l’accusa sia supportata da prove e senza passare attraverso un qualsiasi meccanismo legale.

Il caso di Awlaki era poi ancora più clamoroso, dal momento che il presunto numero uno di Al-Qaeda in Yemen possedeva appunto un passaporto americano. La sua presenza sulla lista nera del governo di Washington era stata perciò oggetto di una denuncia, senza successo, da parte del padre di fronte ad un tribunale statunitense. L’esecuzione extra-giudiziaria di Awlaki in Yemen è stata così portata a termine nonostante nessuna accusa formale sia mai stata sollevata nei suoi confronti negli Stati Uniti né, tanto meno, sia mai stata emessa una sentenza di condanna a suo carico.

L’uccisione di Anwar al-Awlaki segna inoltre una inquietante escalation nella guerra globale al terrore degli Stati Uniti. L’allargamento del fronte allo Yemen era peraltro annunciato da tempo. Lo scorso mese di giugno, una fonte anonima dell’intelligence a stelle e strisce aveva rivelato alla stampa l’avvio della costruzione di una base CIA in una località imprecisata del Medio Oriente, proprio per operare in maniera più efficace le incursioni con i droni in Yemen e colpire la divisione di Al-Qaeda operante nella penisola Arabica (AQAP).

A luglio, poi, il neo-segretario alla Difesa ed ex direttore della CIA, Leon Panetta, aveva confermato che uno degli obiettivi primari della strategia anti-terrorismo degli USA era precisamente la rimozione, cioè l’assassinio deliberato, di Ayman al-Zawahri - il successore di Osama bin Laden al vertice di Al-Qaeda - e dello stesso Awlaki.

Il rinnovato impegno degli americani in Yemen è giunto in corrispondenza della rivolta popolare contro il regime autoritario del presidente Ali Abdullah Saleh, da sempre fedele alleato di Washington. Il caos che sta attraversando l’impoverito paese arabo viene di fatto sfruttato dagli Stati Uniti per intensificare la loro presenza in un’area strategicamente molto importante.

L’eventuale caduta del regime di Saleh, infatti, alimenterebbe i timori americani per una transizione fuori controllo in un paese che si affaccia sullo stretto di Bab-el-Mandeb, all’imbocco del Mar Rosso, dove transitano quotidianamente più di tre milioni di barili di greggio destinati al mercato internazionale.

Gli interessi USA devono essere così difesi ad ogni costo, anche per mezzo di operazioni militari dalla dubbia legalità, per fermare una minaccia terroristica la cui portata appare tutta da dimostrare.