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Nietzsche direbbe ancora "sì" alla vita?

di Marco Iacona - 04/10/2011

Fonte: scandalizzareeundiritto


Friedrich Nietzsche. Ancora lui. Luce eterna o grande incognita? Fonte di illusioni mai realizzate, promessa, caro estinto o cambiale in protesto? Per intenderci, Nietzsche è quello dei «sì» alla vita, della critica colorita e tagliente all’intellettualismo, che era l’intellettualismo del suo tempo, e che nel nostro si è afflosciato come un sacco vuoto. Forse per colpa sua o forse per colpa dell’esaurirsi del ciclo del pensiero astratto – quello della ragione e delle cosiddette categorie – che ha regnato incontrastato al pari di Luigi XIV in Francia. Al suo posto? Un caos da gestire alla meno peggio, come scrisse Umberto Eco, una tigre mai doma da cavalcare all’infinito, al più un pensiero debole come estrema forma della riflessione, del gesto e della parola. Fino a lambire i margini del nuovo edonismo alla Onfray o della fine della stanca democrazia alla Zizek.
Ma Nietzsche? Nietzsche inizia da dove è giusto iniziare: dal mondo greco. La non-razionalità del suo pensiero, viene fuori da un’originale esposizione dell’arte greca. In Die Geburt der Tragödie (La nascita della tragedia), afferma: «All’opposto di tutti coloro che si sono industriati di derivare le arti da un unico principio, come dalla necessaria fonte vitale di ogni opere d’arte, io ho fermato lo sguardo sulle due divinità artistiche dei greci, Apollo e Dioniso, e riconosco in essi i viventi ed evidenti rappresentanti di due mondi artistici, differenti nella loro essenza più profonda e nei loro fini supremi. Apollo mi sta davanti come il genio trasfiguratore del principium individuationis, per mezzo del quale soltanto è dato raggiungere veramente la liberazione nell’apparenza: laddove nel grido di Giubilo di Dioniso viene rotto l’incantesimo dell’individuazione, e rimane aperta la via alle Madri dell’essere, all’intimo nucleo delle cose…». I moderni non hanno una visione esatta dell’antichità classica e all’aspetto apollineo – che si sostanzia nel sogno, nell’armonia e nel culto della bellezza – non accostano l’altra faccia della classicità vale e dire l’aspetto dionisiaco – l’ebbrezza. Insomma, dove vuole arrivare quel professorino non ancora trentenne? Vuol abbattere le certezze con le quali un’intera civiltà è diventata adulta. Se la prende con Socrate per aver ucciso gli istinti e la volontà naturale e poi se la prenderà anche col cristianesimo e coi valori dell’«umiltà» e dell’«obbedienza» (parole di Benedetto XVI). Ma non è tutto. Perché, per il cervellone di Röcken quel Dio che abbiamo conosciuto e frequentato è pure morto. La conseguenza? Bisognerà entusiasmarsi perché ci si è liberati di un peso (e che peso!), cioè della figura invalidante per eccellenza, o al contrario bisognerà temere per la voragine del nulla che si è aperta dinanzi a noi? In questo dilemma c’è gran parte della storia del pensiero dell’ultimo secolo. C’hanno sbattuto la testa un po’ tutti fino ai postmoderni, un dilemma al quale nulla ha aggiunto il discorso di qualche nazi-Pierino con velleità da Dioniso e educazione da “Monnezza” - cioè alla Tomas Milian -, antropologia piuttosto diffusa in alcuni, chiamiamoli così, ambienti.
Carmelo Causale non appartiene a quest’ultima categoria. Autore teatrale, uomo del sud che si muove bene al sud, per mentalità o lui preferirebbe Weltanschauung vicino a Franco Cardini, e come lui abbastanza lontano sia dalla politica che conta sia da quella che non conta nulla. Anche Causale, dopo aver scritto su Dante e Cavalcanti non perdendosi in vane archeologie, e su alcuni fatti del meridione, vicini (immigrazione clandestina) e lontani (episodi di Bronte, nel periodo garibaldino), ha deciso di dire la sua su Nietzsche. E lo ha fatto con una pièce teatrale, Nietzsche - nascita e morte della tragedia, rappresentata a Catania, il 22 settembre scorso e a Palermo il 25 successivo, vale a dire in due realtà fortemente rappresentative del suo Meridione. La storia è singolare e accarezza quasi una tipica vicenda dell’assurdo: in scena appaiono alcuni personaggi conosciutissimi: lo stesso Nietzsche, Lou Salomé la scrittrice amata dall’autore dello Zarathustra ma anche da Rainer Maria Rilke, Paul Rée, filosofo e amico del protagonista e Peter Gast primo “esegeta” di Nietzsche, scrittore e compositore. La compagnia si trova in Sicilia ed è ospite di un albergo e della sua direttrice dai tratti caratteriali del tutto convenzionali: «Signor Nietzsche, il vostro gaudio è anche il nostro. Noi ci ricordiamo sempre di lei … Signora Salomè, e anche voi signor Paul Rée, tutti voi rispettabili clienti, siete, lo sapete, più amici che clienti…», ma il professore è già stanco e malato e cade vittima delle proprie visioni, consapevole del destino che attenderà l’uomo. È il primo ad averlo compreso: per l’uomo «tutto è disgusto». Ma disgusto e impotenza sono i termini giusti per narrare anche l’incontro tra Nietzsche, l’immagine esterna della modernità e quella della cosiddetta tradizione desacralizzata. Come a voler dire: impossibile tessere un dialogo, impossibile per un uomo di tale indole aprirsi a questa vita. Nietzsche viene sconfitto da se stesso. La questione nodale, nel dramma, non è la ricezione di un messaggio, non si tratta cioè né della quantità né della qualità della proposte che arricchiscono il secolo della prassi e dell’energia, ma della condizione propria al messaggero, allo scrivente, di Nietzsche o di chi per lui. Una questione che ci sembra di aver colto per esempio anche nella filosofia della persuasione di Michelstaedter. Vittima ancor più del maestro dello scarto determinante fra la potenza e l’effettivo potere. Il problema insomma, sta nella pretesa di chi prescrive la ricetta. Nell’uscita dalla camera oscura della creatività per correre – nietzscheanamente ma anche beffardamente – incontro al mondo.
Il dramma di Causale, infine, si lascia ben recitare da una compagnia di attori guidata dal regista Gianni Scuto, dove brillano le figure di Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini, Nellina Laganà, Alessandro Ferrari, Valentina Ferrante e Massimo Leggio nel ruolo del titolo. Costumi e scenografie sono rispettivamente di Mariella Gennarino e Virginia Carnabuci. Le musiche di Orazio Corsaro sono state eseguite al pianoforte da Milo Longo.