Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ermanno Olmi: 'Torniamo in campagna'

Ermanno Olmi: 'Torniamo in campagna'

di Sabina Minardi - 05/10/2011


«La crisi economica deve farci riflettere. Sul denaro, sul consumismo, sul senso della vita. E sulla parabola della società industriale». A 80 anni compiuti, il grande regista parla dei suoi valori. E del suo prossimo film


Ero convinto che la società industriale potesse sposarsi con la cultura rurale. Non solo così non è stato, ma la civiltà industriale è finita miseramente. E l'unica speranza di futuro è nel ritorno alla terra. All'esperienza millenaria dei contadini".

Porta questo, in dono, la vecchiaia: la libertà di cambiare idea. Il regista Ermanno Olmi è metodicamente impegnato nell'impresa: separando ciò che è marginale da ciò che conta, impiegando quello che oggi sa, e che prima non sapeva, per leggere il presente. Un'Italia in crisi, a corto di valori, ma ancora incapace di reagire.

Il lusso è farlo dalla sua casa di sempre che dà le spalle al bosco: ad Asiago, anche se per raggiungerla bisogna andare in su, tra strade che scorrono come fiumi di pietra polverosa direzione Monte Zebio, sapore di soldati e di trincee, di abeti e legni a mo' di croci sulla strada. 

E' da lì che Olmi sorvola sul presente che non gli piace affatto. E ragiona sulle colpe del passato, scandendo illusioni e delusioni con i suoi film. Dagli inizi, giovanissimo, in un apprendistato quasi decennale nella società di energia Edisonvolta: "La mia famiglia ha provato momenti di povertà quando mio padre, non volendosi iscrivere al partito fascista, è rimasto senza lavoro. Fu la Edison ad assumerlo: e da quel momento diventò la mia famiglia". 

Quando lui ha 13 anni, il padre muore sotto un bombardamento; la Edison assume la madre. A15 anni lascia gli studi e anche lui entra in azienda. Ma si capisce subito che quel ragazzo, che nel dopolavoro si diletta di teatro, non è fatto per stare in un ufficio: macchina da presa in mano, costoso investimento dei padroni, Olmi inaugura la Sezione Cinema Edisonvolta. Risalgono a quegli anni, dal 1953 al 1961, una quarantina di documentari e lungometraggi, riuniti e conservati nel Fondo Edison presso l'Archivio nazionale del Cinema d'Impresa di Ivrea. Film su commissione che mostrano uno spaccato di società italiana aperta al nuovo: la classe operaia, la rivoluzione dell'industria idroelettrica, il rapporto tra l'uomo e l'ambiente. 

"C'era la fierezza di appartenere a un gruppo, a un'azienda, a un popolo che, con le sue mani e il suo sacrificio, produceva trasformazioni storiche. E c'era, nella cultura di quella generazione, un senso di onestà e di dignità perduto per sempre. Oggi, che vale più essere furbi che onorabili, anziché più ricchi ci scopriamo poveri: miseria reale e morale".

L'aveva intuito una decina d'anni fa: certe indigestioni - di sesso, denaro, violenza - sono necessarie per recuperare il gusto. Ma bisogna che siano i nostri anticorpi a rivoltarsi, aveva detto. Ne vede, in circolazione?
"La crisi ci dà coscienza dello stato della situazione. Attendo il momento in cui l'indigestione di tutto ci procurerà un tale stato di disagio fisico da indurci a reagire. Ma è presto. Quel momento arriverà quando non ne potremo davvero più".

Sarà la classe operaia a guidare la protesta? 
"No. La classe operaia è figlia di una civiltà che non ha niente a che fare con il senso vero, profondo, dell'essere al mondo. La civiltà industriale è partita con un exploit, come se dovesse fare chissà cosa, ed è finita miseramente in un secolo e mezzo. L'unica vera civiltà compiuta è la civiltà rurale. Oggi, se dovessi avventurarmi in un progetto nuovo, ripartirei da quei trenta centimetri di humus, che è la crosta della terra dove il cibo si riproduce".

Lei non l'ha sempre pensata così. C'è stato un tempo, anzi, in cui dell'industria ha dato una rappresentazione epica.

"Certo, ma io sono stato persino entusiasta di Marghera, e del petrolchimico di Priolo. Tra il 1953 e il '54, ho realizzato un documentario dal titolo "Venezia città moderna", che esprimeva questo mio slancio per l'industria".

L'impressione che queste opere suscitavano è evidente. Tra cavi tesi, geometria delle forme, i documentari celebravano la bellezza degli impianti.
"Ero di fronte a opere dell'ingegno. Consideravo non solo legittima, ma necessaria, la loro costruzione: c'era bisogno di energia. Individuare i luoghi dove costruire queste dighe, e dove la creatività umana arrivava ai livelli più ardimentosi, era un'esperienza esaltante. La funzionalità dava un risultato estetico bellissimo. Mi ricordo quando andai a fare un documentario su una diga in costruzione e noleggiai, con i miei soldi, una vecchia Ariflex che aveva fatto tutta la guerra d'Africa. Però funzionava, e girai a 35 millimetri "La diga del ghiacciaio". Allora non avevo elementi per dubitare che fosse questa la via per per il progresso. Solo dopo ho capito".