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India 1857: come gli Inglesi si raccontano, a modo loro, la propria storia coloniale

di Francesco Lamendola - 27/10/2011







«Tre giorni durarono le stragi di Delhi, stragi orrende che strapparono grida d’indignazione non solo fra le nazioni europee, ma anche nella stessa Inghilterra.
Gl’Indiani, conoscendo la sorte che li attendeva, disputavano palmo a palmo il terreno, combattendo disperatamente nelle vie, nei cortili, entro e fuori le cinte, sulle rive del Giumna.
Erano rimasti ancora in loro possesso il Palazzo reale, il forte Selinghur, e parecchi edifici fortificati e opponevano una resistenza degna della più alta ammirazione.
Però la sera del 17, aperta una breccia nel muro del ben guarnito cortile dei magazzini, gl’Inglesi espugnavano il Palazzo reale, che era difeso da centoventi pezzi d’artiglieria e passavano a fil di spada tutti i difensori, compresi i figli dell’imperatore, caduti eroicamente con le armi in pugno.
Il 19 anche la batteria di Kissengange, che era armata di settantacinque cannoni e costituiva l’ultima difesa degl’insorti, veniva fatta tacere sotto il fuoco formidabile dei grossi pezzi inglesi, e i difensori subivano egual sorte di quelli del Palazzo reale.
Lo stesso giorno anche il Kotuali, o municipio della città, cadeva e centocinquanta indiani fra i quali parecchi membri della famiglia imperiali, che si erano arresi dietro promessa d’abver salva la vita, venivano fucilati ed impiccati dinanzi all’edificio!
Il 20, Delhi era tutta in mano agl’Inglesi e allora ne seguirono scene spaventevoli e carneficine inaudite, degne dei selvaggi della Polinesia.
Migliaia e migliaia d’indiani furono massacrati dalle truppe ubriache di sangue e di gin, che più nulla ormai rispettavano, n sesso, né età; e la città intera subì un saccheggio spaventevole.
I valorosi difensori della libertà caddero tutti, dopo aver trucidato con le proprie mani le moglie e le figlie perché non cadessero nelle mani dei vincitori.
Il 24, Sandokan ed i suoi compagni, dopo avere ottenuto il permesso dal generale Wilson, lasciavano la disgraziata città dove migliaia e migliaia di cadaveri cominciavano ad imputridire nelle vie e nelle case, mentre gl’Inglesi continuavano ad impiccare e fucilare i vinti. Lussac, nauseato da quella barbarie, aveva chiesto ed ottenuto il permesso di accompagnarli a Calcutta.
Ormai l’insurrezione era domata e solo il prode Tantia-Topi, con la bellissima e fiera Rani di Jahnsie ed un pugno di valorosi, teneva ancora alta la bandiera della libertà, fra le folte jungle e le immense foreste del Bundelkund.
Quindici giorni dopo, Sandokan, Janez e Tremal-Naik, con Darma, dopo aver ricompensato largamente Sirdar e lungamente abbracciato il valoroso francese che li aveva così validamente aiutati nella terribile impresa, s’imbarcarono sulla “Marianna”, salpando per la lontana isola di Mompracem.
Li accompagnava Surama, che aveva ormai conquistato interamente il cuore del flemmatico Yanez, e non mancavano i due fedeli animali: la tigre Darma e il cane Punthy.»

Questa è la conclusione di un celebre romanzo salgariano del ciclo di Sandokan e dei pirati della Malesia, «Le due tigri», nel quale si descrive come avvenne la riconquista inglese di Delhi durante la repressione della Grande Rivolta indiana del 1857.
Dalla pagina di Emilio Salgari non traspare alcunché di cui l’uomo bianco possa andare fiero, in quella circostanza; al contrario, tutte le sue simpatie sono chiaramente indirizzate ai ribelli indiani, i Sepoys, che, nel 1857, osarono insorgere contro il dominio britannico ed ebbero l’ardire di cercar di restaurare l’antico Impero Moghul, rimettendo sul trono dei suoi padri, a Delhi, il sovrano Bahadur Shah Zafar.
Certo, si tratta di un romanzo e non di una fonte storica: questa, però, era l’immagine della riconquista di Delhi da parte dei Britannici, durante gli eventi del 1857, che si ebbe nel resto d’Europa e del mondo; la versione di quei medesimi fatti, però, fu assai diversa in Gran Bretagna - e questo lo si può comprendere, almeno fino ad un certo punto.
Non è forse vero che le vicende della prima guerra mondiale apparivano completamente diverse, in Italia ed in Austria, se a narrarle era un libro di storia dell’una o dell’altra nazione? Ci è voluto poco meno di un secolo perché, placatesi le passioni e subentrata una visione più obiettiva, gli storici dell’una e dell’altra parte incominciassero a concordare su alcuni aspetti importanti, per poi avvicinare, via via, i propri punti di vista, fino a giungere ad una ricostruzione dei fatti che può essere onestamente e serenamente accettata, e sia pure con qualche rara eccezione, così dagli uni, come dagli altri.
Non è affatto comprensibile, invece, che gli storici inglesi, almeno fino ad anni recentissimi, abbiano proseguito, nella loro grande maggioranza, a presentare gli eventi indiani del 1857 in maniera totalmente opposta da come vennero percepiti nel resto del mondo; e che i libri di testo scolastici inglesi continuino, imperterriti, a fornire una versione dei fatti che poteva soddisfare l’orgoglio nazionalista di un suddito dell’imperatrice Vittoria di un secolo e mezzo fa, ma il cui anacronismo appare oggi quanto meno discutibile.
La lettura forzata e unilaterale di quegli eventi appare già dalla terminologia: la storiografia inglese seguita a parlare di “rivolta” indiana del 1857; la storiografia indiana, all’opposto, di “guerra d’indipendenza”. Quest’ultima terminologia è sicuramente esagerata: la sollevazione ebbe luogo principalmente in seno all’esercito e non arrivò a coinvolgere la massa delle popolazioni, anzi, non arrivò neppure a toccare la maggior parte del territorio indiano, restando confinata nella parte interna della pianura dell’Indostan. Ma anche l’espressione adoperata dagli storici inglesi è fortemente riduttiva: il vocabolo “rivolta” fa pensare a un qualcosa di disorganizzato e d’illegittimo; mentre essa non fu né l’una cosa, né l’altra.
Il celebre storico inglese G. M. Trevelyan nella sua monografia  «Storia dell’Inghilterra nel XIX secolo» (traduzione italiana di Umberto Morra, Torino, Einaudi, 1942, p. 425), così delinea il bilancio dell’insurrezione indiana del 1857-58 e della successiva repressione britannica:

«L’ammutinamento si era manifestato in una parte dell’esercito sepoy: non era una ribellione di razza; per questo dispiace di più che la lotta sia stata tanto feroce da lasciar uno strascico di memorie amare. Fu difficile restaurare il senso di “una felice e fiduciosa mattina” (dal poema “The lost Leader” [il rinnegato] di Robert Browning) nei rapporti tra inglesi e indiani. Nana Sahib, un giorno il favorito dei salotti inglesi, aveva, escogitando un tradimento orribile quasi quanto la sua stessa crudeltà, massacrato donne e fanciulli bianchi a Cawnpore. Il suo delitto raggiunse lo scopo che si prefiggeva: dare al conflitto come un carattere di guerra di colore. Vennero rappresaglie, benché soltanto contro uomini: poi fu posto un limite alle vendette dalla saggezza di “sua clemenza Canning”. Benché fosse approvato con entusiasmo da John Lawrence, la sua politica umana fece perdere al governatore generale molta popolarità presso i suoi concittadini infuriati.»

Per Trevelyan, dunque, il governatore britannico dell’India, lord G. J. Canning (1812-1862), si dimostrò talmente mite, nel condurre repressione della rivolta, da meritarsi dai suoi concittadini l’appellativo, in parte bonariamente ironico e in parte condito di spazientita disapprovazione, di Sua Clemenza Canning o anche Canning il Misericordioso; e ciò mentre l’opinione pubblica inglese, inorridita per il massacro delle donne e dei bambini europei (ma pochissimo curiosa di sapere le ragioni di una simile rivolta), avrebbe voluto che si usasse verso gli indigeni il pugno di ferro e che venisse impartita loro una lezione ben più sanguinosa e radicale.
Certo, il modo di esprimersi di Trevelyan, che parla di saggezza e di limiti posti alle vendette, fa pensare che la Gran Bretagna abbia saputo mostrare, anche in quel frangente, tutta la moderazione dei suoi capi politici e militari, tutto il saggio paternalismo per cui essa andava orgogliosa nell’amministrazione del suo smisurato impero coloniale: ed è precisamente ciò che il lettore inglese ama pensare della propria nazione e della propria storia.
Gli Inglesi, pertanto, sono i primi beneficiari della maniera assai edulcorata con la quale hanno ricostruito la storia del proprio impero, creando la leggenda di un governo talvolta severo, ma sempre giusto e, soprattutto, umano, tenuto insieme più dalla generosità e della lungimiranza dei conquistatori che dalla forza materiale, e oggetto di immensa invidia da parte delle altre potenze europee, i cui appetiti coloniali erano altrettanto robusti, ma che non possedevano quelle qualità di saggi dominatori che avevano fatto la prosperità, la potenza e lo splendore del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda.
Di fatto, gli studenti inglesi non vengono affatto informati, dai loro libri di storia, che i loro padri commisero una serie di genocidi nei loro territori coloniali, ad esempio in Australia e Tasmania; ma, al contrario, nel perfetto stile imperialista di Rudyard Kilping, vengono informati che la loro patria si caricò sulle spalle, per pura filantropia o quasi, il pesante fardello della civilizzazione dei popoli extraeuropei: «The white man’s burden».
Talvolta, per poter portare la civiltà, i Britannici usarono metodi non troppo ortodossi; come quando il generale Bannock fece distribuire ai Pellirosse del Nord America centinaia di coperte infettate con il vaiolo, primo esempio mondiale di moderna guerra batteriologica diretta deliberatamente contro le popolazioni inermi; ma simili episodi, ai giovani studenti del Regno Unito, non vengono quasi mai narrati, o, se lo sono, ciò avviene sempre in modo da minimizzarli.
Altre volte, pur di mettere le mani sulle ricchezze naturali, come oro e diamanti, o per superiori esigenze di ordine strategico, l’Impero Britannico se la prese anche con piccoli popoli europei, come i Boeri stabilitisi nell’Africa meridionale da oltre due secoli: anche in quel caso l’aggressione deliberata e l’enorme sproporzione di forze diedero vita a una epopea alla rovescia, nella quale, a dispetto dell’evidenza e di ciò che tutto il resto del mondo vedeva e capiva, gli Inglesi erano convintissimi di aver combattuto eroicamente contro orde strabocchevoli di nemici e di averlo fatto in perfetta buona coscienza, dopo esservi stati trascinai letteralmente per i capelli.
Non è che oggi la storia della guerra anglo-boera (1899-1902) venga raccontata in maniera molto diversa sui libri di storia britannici; e sono appunto questa rocciosa testardaggine, questa tracotante pretesa di essersi sempre battuti per delle ottime cause e nel modo più nobile e cavalleresco (mentre nel Sudafrica essi sperimentarono un’altra “bella” novità militare, i campi di concentramento per la popolazione civile, ove morirono di stenti migliaia di Boeri), che non può non lasciare perplessi, alle soglie del terzo millennio.
Gli altri popoli hanno rinunciato, quasi tutti, a gran parte delle loro interessate mitologie storiche; perfino gli Americani sono disposti, almeno a partire dall’inizio degli anni ’70 (quando apparve il film «Soldato blu» di Ralph Nelson), a riconoscere che i cow-boys e le “giacche azzurre” non avevano tutte le ragioni ad avanzare nel West, né i Pellirossa avevano tutti i torti nel difendere le loro terre; solo gli eredi dell’Impero della regina Vittoria proseguono caparbiamente a glorificare in modo impudente anche gli aspetti meno belli della loro storia nazionale.
Solo essi continuano a ignorare quel che il resto del mondo sa bene a proposito della seconda guerra mondiale: che essa non fu incominciata dalla Germania, ma dall’Inghilterra, la quale stava preparandola da anni; che, pur di piegare Hitler e conservare il suo immenso impero coloniale, la Gran Bretagna si alleò con Stalin, che pure aveva invaso la Polonia tanto quanto i Tedeschi e, a guerra finita, gli regalò metà dell’Europa, da mettere sotto il tallone; che Churchill non fu un simpatico zio con il sigaro in bocca, che difendeva intrepidamente la libertà del mondo, ma il criminale autore della guerra aerea indiscriminata contro le città indifese d’Europa; che i “valorosi” bombardieri della Royal Air Force provocarono molti più morti, sotto le macerie delle loro case, di quanti soldati britannici caddero in tutto il conflitto, per ripristinare democrazia e pace.
Solo essi non sanno che il resto d’Europa ha compreso il ruolo negativo e parassitario svolto dalla Gran Bretagna nella storia del continente: il ruolo del gendarme che vigila affinché non si metta in moto un meccanismo di unificazione, per poter continuare a inondarlo con le sue merci e ai prezzi stabiliti nel suo interesse; il ruolo del cinico aggressore che non esita ad assalire le piccole nazioni neutrali per distruggerne le flotte, prima che esse possano costituire una minaccia per la sua supremazia marittima e commerciale: così con l’Olanda nel corso del 1600, con la Danimarca nel 1801, con la Francia di Vichy, a Mers-el-Kebir, nel 1940.
Ci sono popoli che imparano dalla storia e soprattutto dalla sconfitta; e ve ne sono altri che, troppo abituati a vincere, non imparano mai niente, perché si credono eletti da Dio a svolgere una missione universale, nella quale - guarda caso, come insegnano i vari Jeremy Bentham e  John Stuart Mill - l’utile e il bene coincidono sempre.
In quale altra pare d’Europa, se non nella britannica Belfast, si può immaginare uno scandalo come quello rappresentato dalle celebrazioni annuali degli orangisti per la vittoria di Boyne di più di tre secoli fa (1690), con i protestanti che marciano con le fanfare e gli stendardi  attraverso i quartieri cattolici, ben decisi a rigirare eternamente il coltello nella ferita dell’altra metà della popolazione dell’Ulster?
Nemmeno nelle plaghe più arretrate dei Balcani, sottoposte per secoli alla spietata dominazione ottomana; nemmeno in quella Bosnia che, in anni recenti, ha vissuto gli orrori di un tipo di guerra che l’Europa credeva ormai finita da secoli e definitivamente dimenticata.
Una celebrazione come quella del 1° luglio a Belfast è una barbarie che non si riuscirebbe neppure ad immaginare in Paesi come l’Italia, la Francia, la Germania o la Spagna; un modo così arrogante di rinfocolare gli odî lo si può immaginare a malapena presso qualche società criminale organizzata, assuefatta alla provocazione, alla violenza sistematica, al disprezzo totale dell’altro, alla più becera insensibilità nei confronti del dolore altrui.
Quando accadrà che anche gli studenti britannici incominceranno a studiare la storia del proprio Paese così come si fa nel resto d’Europa: con un minimo sforzo di imparzialità e di riconoscimento delle ragioni degli altri?