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Iraq, cresce solo la paura

di Christian Elia - 26/06/2006

Un rapporto riservato dell’ambasciatore Usa a Bush tratteggia una società terrorizzata
Il quotidiano statunitense Washington Post ha pubblicato un rapporto riservato che l’ambasciatore Usa in Iraq, Zalmay Khalilzad, ha preparato per il presidente George W. Bush in occasione della visita a sorpresa di quest’ultimo a Baghdad, il 13 giugno scorso. E il testo è eloquente.
 
bush e khalilzad a colloquioIl mondo reale. Leggendo le note del rappresentante degli Stati Uniti in Iraq, emerge un quadro disastroso del paese, fuori dal contesto della propaganda che accompagna l’operazione Iraqi Freedom dal primo giorno, non può essere manipolata e si presenta in tutta la sua tragedia. La relazione tocca tutti gli aspetti della vita, con brevi note tratte dalle testimonianze dei dipendenti dell’ambasciata. “La situazione delle donne non è positiva e le stesse impiegate che lavorano per noi, finito il turno e quando vanno verso casa, indossano il velo e tentano di non farsi riconoscere”, racconta Khalilzad, citando casi specifici. “Un’impiegata sciita che si veste all’occidentale, quando torna a casa, finito il turno, è costretta ad abbigliarsi in maniera più casta per non finire preda dei fondamentalisti che picchiano le donne per strada se non sono vestite nel modo giusto, se parlano al cellulare o se chiacchierano con uomini non della famiglia. Una impiegata sunnita mi ha confermato le stesse cose, e ha aggiunto che il tassista che la porta ogni giorno dalla Zona Verde a casa sua le ha chiesto d’indossare il velo, perché altrimenti lui ha paura a portarla a bordo. O infine una ragazza impiegata alla sezione culturale che, da qualche mese a questa parte, è costretta a indossare il velo integrale per non avere problemi nel suo quartiere, quello di Adhamya. Tutte raccontano che il problema non è circoscrivibile, perché le minacce vengono indistintamente da uomini e donne, sciiti e sanniti, e dall’interno della pubblica amministrazione stessa, come dagli impiegati del ministero dei Trasporti, vicini ad al-Sadr, che hanno imposto il velo a tutte le impiegate degli uffici”.
 
un'iracheno tenta di salvare la vita al figlioA tutto tondo. Ma il problema non riguarda solo le donne. “Per quanto riguarda gli uomini, e i bambini, spesso sento dire che è meglio non indossare i jeans invece degli abiti tradizionali, perché si rischiano aggressioni da parte di uomini che vengono definiti saadristi o wahabiti”, scrive l’ambasciatore. Un altro tema rovente è quello delle divisioni etniche e confessionali. “Un impiegato curdo e un editore di un giornale che vive a Erbil parlano espressamente di pulizia etnica a danno degli arabi, in particolare per rastrellare case da dare poi ai curdi che sono venuti via da Baghdad. La tensione esterna si riflette anche all’interno. Due impiegate, una sannita e una sciita, hanno litigato violentemente perché una rimproverava l’altra di vestirsi in modo inadeguato”. La relazione tocca tutti i settori, come quello dei rapimenti di civili, rispetto al quale Khalilzad scrive che “uno degli uomini che lavora qui mi ha raccontato che hanno rapito suo fratello un mese fa. Pagando lo si libera, ma la maggior parte delle famiglie vive nell’incubo”. E’ il lavoro stesso per l’ambasciata Usa a generare paura nei dipendenti iracheni, tanto che Khalilzad scrive che “molti ci chiedono di cambiare la dicitura del pass per il check-point, perché lavorare all’ambasciata Usa equivale a una condanna a morte. Come parlare inglese in pubblico o avere un cellulare statunitense”. Ma è tutta la popolazione a vivere male. L’ambasciatore spiega a Bush che “le zone strategiche, come la Zona Verde, hanno corrente elettrica per 24 ore, ma ci sono città dove non c’è mai. Un amico di un uomo che lavora qui vive in un ministero dove riesce a nascondersi, ma almeno ha luce per 24 ore! Tutti sono costretti a comprare generatori, i cui prezzi sono alle stelle. La condizione attuale spinge le famiglie a scappare dall’Iraq. Una delle nostre dipendenti ha visto partire in pochi mesi la madre, il padre e due sorelle. Sono tutti tesi, uno di loro che vive in una zona a maggioranza sciita mi ha chiesto se immagino come si vive in un posto dove ogni sera c’è un funerale. Sono tutti stressati dal fatto di lavorare qui e di doverlo nascondere, temono per loro e per i loro cari. Uno di loro mi ha raccontato che quando la gente si muove fa di tutto per vestirsi e parlare come si usa nel quartiere dove si sta recando”. Un incubo insomma, come Khalilzad sintetizza alla fine, spiegando al presidente Bush che nell’Iraq liberato “le condizioni necessarie per una vita normale, al momento, non ci sono”.