La fede e il manganello. Una storia palestinese
di Franco Cardini - 13/01/2012
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| Avrei dovuto andare a Gerusalemme e a Betlemme anche quest’anno, per la messa di Natale. Lo faccio ormai da anni, quasi tutti gli anni. Ma non sempre il lavoro ti permette lussi del genere: quest’anno ho dovuto farne a meno. Mi sono così perduto, fra le altre cose, il non troppo edificante ma in cambio piuttosto divertente round di pugilato tra alcune comunità cristiane. La notizia ha “fatto epoca”, si fa per dire, durante la settimana prenatalizia: poi tutto è rientrato nella normalità. Ma amici palestinesi mi fanno sapere che ancor adesso, in pieno gennaio, il derby intercristiano continua. Non ce ne rendiamo conto perché siamo bombardati da tante e tali notizie – dalla Terrasanta e da altrove – da far passare in secondo piano quella di qualche monaco che si picchia con qualche altro: semmai, prestiamo attenzione ai rapporti, cattivi purtroppo, tra israeliani ebrei e israeliani musulmani (e/o cristiani), tra israeliani e palestinesi e così via. In realtà, a questi bizzarri aspetti della vita vicino-orientale bisognerebbe porre maggior attenzione per capire sul serio il formicaio di problemi sottostanti alla difficile convivenza politica e interculturale di quella parte del mondo. Parliamone, allora, “fuori stagione”: perché sapere e capire queste cose farà sì che il prossimo attentato palestinese e la prossima repressione israeliana ci coglieranno meno impreparata. Partiamo da alcuni dati generali e generici, che debbono però essere ben chiari. A richiesta, preciserò meglio questi dati. Frattanto ne diffondo le linee di massima, perché vedo che in giro c’è molta ignoranza e molta confusione, alimentata da chi (molti) ha interesse a che queste cose restino confuse. Stiamo parlando del complesso israeliano-palestinese, una realtà territoriale grande più o meno quanto la Toscana nella quale convivono una decina di milioni di persone così distribuiti: uno stato, Israele, e alcuni territori occupati, sette milioni di cittadini israeliani, di cui sei di fede almeno formalmente ebraica e uno ripartito tra musulmani e cristiani di varia confessione, con i primi in deciso aumento e i secondi in decisa flessione (non tanto perché si convertano, quanto perché se e quando possono se ne vanno). Esistono poi appunto i cosiddetti “territori occupati”, che dovrebbero andar a far parte del futuro stato palestinese, per ora riconosciuto in quanto Autority: a nordest la cosiddetta Cisgiordania o West Bank con città quali Gerico e Ramallah, abitate (a parte i coloni ebrei israeliani, insediati abusivamente ma in crescita numerica) da un paio di milioni di palestinesi tra musulmani, in maggioranza, e cristiani di varia confessione anch’essi in flessione, e la fascia sudoccidentale di Gaza, un milione tra musulmani in decisissimo aumento sostenuti dal partito Hamas e cristiani in decisa decrescita e in stato di sofferenza. La popolazione cristiana palestinese era, almeno fino agli Anni settanta, in buona armonia con quella musulmana: ma la costante, opposta ma decisa e convergente azione dei gruppi fondamentalisti musulmani e delle autorità israeliane di occupazione, che in un primo tempo almeno hanno favorito i fondamentalisti stessi (salvo poi pentirsene, ma troppo tardi) ha fatto sì che i rapporti tra musulmani e cristiani si guastassero e che la lotta patriottica dei palestinesi, tesa a giungere finalmente a uno stato palestinese (la continuità territoriale del quale resta però problematica e a tutt’oggi è impossibile), si trasformasse in una lotta indipendentistica dei palestinesi musulmani, che oggi – con minor chiarezza quelli dell’OLP, tra cui ci sono ancora molti cristiani; con decisione quelli di Hamas – dirigono il loro impegno alla creazione di una Palestina musulmana, nella quale i cittadini arabi cristiani sarebbero di serie B. Il vecchio nazionalismo palestinese di stampo socialista e, per intendersi, d’ispirazione nasseriana, quello di Arafat, è finito: era démodé e corrotto, ma “laico” e rispettoso del principio di convivenza cristiano-musulmana. Oggi non è più così. Di ciò approfittano le forze oltranziste israeliane, che sono almeno in parte purtroppo anche al governo, per procrastinare ulteriormente sine die il tempo del ritiro delle forze d’occupazione dal territorio palestinese. Allo stato attuale delle cose, è probabile comunque che di stati palestinesi ne nascerebbero due, uno in Cisgiordania e uno a Gaza e dintorni. In questo quadro già allarmante, dominato dal “muro divisorio” eretto dagli israeliani e dalla persistente politica degli insediamenti coloniali che erodono il territorio palestinese (e non si vede come questo trend potrebbe recedere), si inserisce la discordia tra le diverse comunità cristiane: poche decine di migliaia di fedeli – a parte le comunità cristiane occidentali, cattoliche e protestanti, e quelle greco-ortodosse e russo-ortodosse, in relativa crescita grazie soprattutto all’impegno della Russia di Putin – ripartiti tra i cristiani arabi di rito greco ma disciplinarmente afferenti alla Chiesa cattolica (i “melkiti”), cristiani armeni aderenti alla chiesa nazionale che ha rapporti sempre più stretti con la Chiesa cattolica, cristiani arabi di rito greco aderenti alla Chiesa autocefala ortodossa, cristiani siriani vicini alla Chiesa ortodossa ma fedeli alla loro tradizione monofisita, con una piccola ancorché gloriosa presenza di monofisiti etiopi nella basilica del santo Sepolcro e in qualche santuario sito in territorio israeliano-palestinese. E’ un quadro di massima, molto generico e impreciso, che però serve a spiegare almeno in sede propedeutica la complessità di quel paese e dei relativi problemi. Da notare che tutte le comunità cristiane presenti in quella che i cristiani chiamano la Terrasanta (il paese di Gesù, oggi diviso tra Israele e Palestina che resta occupata in attesa di un accordo bilaterale israelo-palestinese che in realtà l’attuale governo israeliano e l’attuale classe dirigente palestinese sono tacitamente concordi nel non ricercare sul serio) si spartiscono le differenti aree della basilica della Resurrezione di Gerusalemme (il “Santo Sepolcro”) e di quella della Natività a Betlemme, avvicendandosi nei medesimi spazi per i differenti servizi liturgici. Anni fa, in un periodo in cui io ero presente a Gerusalemme – ed era ancora vivo il grande archeologo francescano e mio fraterno amico Michele Piccirillo, testimone competente e divertito di questi derbies – si ebbe una bella rissa tra monaci armeni e monaci siriani a causa di uno splendido, simpaticissimo gatto tigrato cui la comunità armena teneva molto e che difatti girava nell’area armena della basilica, ma che i siriani detestavano. Neppure i buoni padri francescani, di tanto in tanto, disdegnavano dal canto loro qualche partita di pugilato. All’interno del Santo Sepolcro, il servizio di polizia è tradizionalmente assicurato da un paio di famiglie di palestinesi, che sono cittadine israeliane e di fede musulmana (fu il sultano Solimano a stabilire, nel Cinquecento, che fossero i musulmani a mantener l’ordine nelal basilica, viste le risse tra i cristiani). Sull’argomento, anni fa una splendida studiosa romnana di nascita ed ebrea di fede, Simonetta della Seta, ascrisse insieme con me un romanzo storico sull’argomento, Il guardiano del Sepolcro, edito da Mondadori, il cui protagonista e io narrante era il guardiano musulmano della basilica. Il fatto che un’ebrea e un cattolico si fossero messi insieme per dar voce a un israelo-palestinese musulmano avrebbe potuto essere una bomba: e in effetti, per qualche anno, Mondadori pubblicò il libro come best seller. Poi, misteriosamente, lo lasciò andare fuori catalogo. Evidentemente dava fastidio a qualcuno. Sconcertati, Simonetta ed io – convinti come eravamo e siamo di aver cercato di lavorare per la reciproca comprensione tra popoli e fedi differenti ma affini – cercammo di capire chi fossero questi nostri occulti nemici. Non siamo mai riusciti a saperlo. Il libro continua ad essere fuori commercio. Chissà se qualche lettore di queste righe sarà tanto interessato e tanto autorevole da venir a capo della faccenda e quanto meno convincere Mondadori a ripubblicarlo. Noi (e sì che frattanto Simonetta è diventata apprezzatissima attachée culturale della nostra ambasciata a Tel Aviv: un ruolo di potere e di prestigio) non ci siamo riusciti. Questo, se volete, è un appello. | |

