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La grandezza di Goethe sta nell’aver visto l’unità essenziale dell’uomo e del cosmo

di Francesco Lamendola - 22/02/2012


 

 

Per la cultura neopositivista e materialista oggi dominante, per lo scientismo oggi ovunque imperante, la vita religiosa non è che una forma embrionale dell’interpretazione logica dell’universo; il balbettio inconsapevole di una umanità ancora bambina, che non sa vedere, né sa pensare, al di fuori delle categorie del mito e del simbolo ancestrale.

Questa è la concezione di Auguste Comte; e, sia pure con qualche leggero adattamento e con qualche sfumatura di differenza, si può dire che rappresenti tuttora il punto di vista dell’establishment culturale, e specialmente di quello scientifico, con tutto l’accompagnamento di psicologi, sociologi, filosofi e, naturalmente, psicanalisti o sedicenti tali.

Sono ben pochi gli studiosi, e ancor meno gli scienziati, i quali, oggi, riconoscono nella vita religiosa un modo di espressione autonomo dello spirito, un fenomeno primario ed essenziale, mediante il quale la totalità della vita si manifesta a se stessa e si riconosce, si comprende, si fonde con la scintilla divina che è in essa.

Non è bastata nemmeno la scoperta, nel XIX secolo, delle raffinate e struggenti pitture rupestri del cosiddetto uomo primitivo, nelle quali si rivela, al di là di oggi ragionevole dubbio, non solo la straordinaria ricchezza spirituale e pienezza di senso estetico dei nostri antichi progenitori, descritti dagli antropologi evoluzionisti come dei bruti faticosamente in cerca della stazione eretta, ma anche la radice originaria, la struttura fondamentale del sentimento religioso, quale manifestazione spontanea della vita interiore dell’uomo in quanto tale.

Da quando un darwinismo brutale si è imposto come nuovo fondamento della visione dell’uomo e del suo posto nel mondo, è parso che, ormai, non vi fossero più margini per una visione che non solo riconoscesse il suo legittimo spazio alla religione come fenomeno originario, ma che vedesse nelle singole specie viventi, e quindi anche nell’uomo, non delle forme gettate a caso sulla scena del mondo, e a caso destinate a scomparire, ma le variegate e innumerevoli espressioni di una unità superiore, di un Tutto armonioso e multiforme, che si auto-riconosce nel fenomeno della coscienza, e dietro il quale la natura tiene celata l’essenza della Cosa in sé, del Noumeno.

In realtà, al panteismo rigoroso, ma in fondo grossolano e meccanicistico, di Spinoza, tra la fine del XVIII e l’inizio de XIX secolo era succeduta una concezione più elaborata e più spirituale del reale, anch’essa fondata sull’intuizione che l’uomo e il cosmo sono i due aspetti di una identica manifestazione; concezione che è stata poi sommersa e quasi relegata nell’oblio dalla marea del positivismo di matrice darwiniana: quella rappresentata da Schelling e soprattutto da Goethe, l’autore della «Teoria dei colori».

Il grande poeta tedesco aveva anche un animo di scienziato e di filosofo ed è significativo che tutto questo aspetto della sua personalità e della sua opera sia stato, di fatto, posto fra parentesi dalla critica moderna; si è voluto vedere dei filosofi in Marx e in Freud e, negli ultimi decenni, si è accordato loro uno spazio sproporzionato nei libri di testo di storia della filosofia, quasi che il pensiero europeo contemporaneo non avesse conosciuto sistemi più geniali dei loro; e si continua ad ignorare Goethe come filosofo, oltre che come scienziato.

In verità, basterebbe leggere con un minimo di attenzione e di sensibilità opere come «Le affinità elettive», per rendersi conto che egli è stato un grande e originale filosofo della natura: possedeva sia l’amore e l’attitudine per l’esperimento, per il dato concreto, per l’osservazione accurata, sia la vasta capacità di sintesi e l’acutezza di giudizio, per risalire dal fatto empirico alla realtà generale e per vedere le relazioni e i nessi tra cose apparentemente distinte e lontane.

Invece, oggi quasi solo le scuole d’indirizzo antroposofico tengono viva l’attenzione su questo aspetto della grandiosa opera di Goethe, perché è stato quasi solo Rudolf Steiner ad accorgersi della sua potenza e della sua profondità come filosofo della natura: il che è stato un bene, perché, grazie a lui, le sue opere di contenuto scientifico e speculativo sono state ripubblicate e tradotte in numerose lingue, ma anche un male, in un certo senso, perché non sono più uscite dal recinto in cui l’antroposofia, a torto o a ragione, è stata relegata dalla cultura oggi dominante, ovvero si è essa medesima, almeno in parte, auto-relegata.

Anche se gran parte dei suoi lettori e ammiratori non lo sanno, Goethe non smise mai di interessarsi di cose scientifiche e particolarmente del grande problema dell’origine delle specie e, quindi, anche dell’uomo: e tutto ciò, molto prima che le opere di Darwin e di Wallace familiarizzassero il grande pubblico con le problematiche relative all’evoluzionismo.

In realtà, di evoluzionismo di parlava da tempo, in Europa: nel 1830 l’Accademia di Parigi fu teatro di una memorabile disputa fra le teorie scientifiche di Cuvier e quelle di Geoffroy de Saint-Hilaire, e Goethe seguiva la vicenda con vivissima partecipazione, poiché la considerava - sono parole sue - questione della massima importanza, alla quale egli aveva dedicato lo sforzo speculativo principale dell’intera sua vita.

Georges Cuvier, che si può considerare il padre della paleontologia e della geologia storica, nel 1812 aveva pubblicato una delle sue opere fondamentali, la «Recherches sur les ossements fossiles des quadrupedes», e, nel 1825, un altro studio importantissimo, «Discours sur les revolutions de la surface du globe».  Egli sosteneva che le specie sono assolutamente stabili e negava la possibilità di una evoluzione interna della natura; se esistono differenze fra gli animali estinti e quelli attuali, ciò è dovuto al fatto che, in seguito ad una serie di catastrofi naturali, le antiche specie sono state distrutte e nuove specie sono state create al loro posto; e la stessa cosa è accaduta nell’ambito del mondo vegetale.

Non è stato solo il diluvio universale, di cui parla anche la Bibbia, a modificar radicalmente l’aspetto della flora e della fauna terrestri; le catastrofi sono state numerose, l’intera storia della Terra ne è stata contrassegnata più e più volte, per cui la totalità degli animali e delle piante è stata completamente distrutta e completamente rinnovata ad ogni nuovo sconvolgimento, in una vicenda grandiosa e sempre rinnovantesi, in cui al catastrofismo geologico, per Cuvier, corrisponde un fissismo biologico.

Alla teoria delle catastrofi naturali, con il suo corollario paleontologico, si contrapponeva la teoria evoluzionista di Jean-Baptiste de Lamarck, il quale, nella sua «Philosophie zoologique», pubblicata nel 1809, sosteneva l’evoluzione interna degli esseri viventi e l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Anche se Lamarck riteneva che solamente un numero assai limitato di specie animali e vegetali fosse riuscito a mutare nel corso del tempo, la sua teoria, fondata sullo studio dei reperti fossili, essendo ispirata all’idea di un dinamismo interno alla natura incontrò il favore di quanti non condividevano il fissismo di Cuvier; e, in particolare, venne ripresa e sostenuta da Etienne Geoffroy de Saint-Hilaire, uno dei fondatori dell’anatomia comparata.

Questi, nel libro «Sur le principle de l’unité  de composition organique», apparso nel 1828, sosteneva che vi era stata una evoluzione progressiva dalle piante agli animali e da questi ultimi all’uomo; in contrasto con Cuvier, inoltre, dichiarò che la modificazione degli organismi viventi è continua e che il suo motore risiede nell’azione dell’ambiente in cui vivono.

Come ricorda H. Kühn, Goethe seguì la disputa all’Accademia di Parigi con estrema attenzione e ne scrisse all’amico cancelliere von Müller, in maggio, una lettera in cui, tra l’altro, schierandosi con Geoffroy de Saint-Hilaire contro Cuvier, ma spingendo la sua concezione molto oltre quella dello scienziato francese, affermava che dietro ogni specie vivente si nasconde «una più alta idea», che è, in definitiva, tutt’uno con Dio, quel Dio che gli esseri umani intuiscono e cercano, ma che non sono in grado di vedere (e che non va confuso, pertanto, con la Natura spinoziana, che coincide con Dio, ma che è deducibile matematicamente e, quindi, più che visibile).

Così ha colto questo aspetto del pensiero di Goethe il filosofo, storico delle religioni e studioso della preistoria tedesco Herbert Kühn (1895-1980) nel suo libro «L’alba dell’umanità» (titolo originale: «Das Erwachen der Menschheit», Fischer Verlag, Frankfurt am Main, 1954; traduzione italiana di Bruno Maffi, Martello Editore, Milano, 1959, pp. 283-86):

 

«La grandezza di Goethe sta nell’aver sempre concepito questo legame organico fra l’uomo e tutto ciò che vive, e nell’averlo posto a base di tutte le sue ricerche, di tutti i suoi pensieri, di tutta la sua vita. Fu egli a dimostrare per la prima volta l’anello di congiunzione fra l’uomo e l’animale. Fu il primo a scoprire l’”ox intermaxillare” e a riconoscere che l’embrione umano ha una forma affine all’animale adulto. E, come nella sua “Teoria dei colori”, dimostrò l’unità della natura, così egli vide e affermò l’unità fra l’uomo e il cosmo. Per lui l’uomo attinge all’universo, e il suo dovere è di assimilare e comprendere la realtà, non di modificarla né di dedurne il senso e lo stato da un’idea preconcetta.”Riconoscere i rapporti interni del mondo sensibile è il compito dell’uomo, perché la nostra vita emana dal Tutto, e il nostro essere si sviluppa  ij un’azione e reazione continua col Tutto”. Questa concezione avvicinò Goethe a Spinoza. Anche Spinoza vedeva l’uomo come un tutto inserito nel cosmo. Ma, a questo riconoscimento, Goethe unisce il senso del’individuale e dell’interiore, che può resistere ad ogni influenza esterna. Per Goethe, ogni vita è un auto-formarsi e un auto-comprendersi dell’uomo attraverso il mondo, nell’atto stesso che il mondo schiude all’uomo la sua essenza nascosta e gli rivela la sua vita più segreta. Così è anche comprensibile l’atteggiamento di Goethe di fronte a Platone nel suo senso dell’unità del’anima e del mondo. Ecco una elle sue massime più profonde: “L’uomo può volgersi dove vuole, può intraprendere qualunque cosa, ma deve sempre tornare alla via che la natura gli ha prescritto”. Così, la vita trova la sua base nell’universo e, con essa, la sua gioiosa certezza, la sua pace interiore: tutto ciò ch’è visibile non è se non espressione, riflesso, rivelazione dell’essenza invisibile del mondo, che si cela dietro la natura per non lasciarsi afferrare.

Perciò, in Goethe è vero che l’individuo attinge dalla totalità della natura, del cosmo, ed è quindi la natura che determina  l’essenza dell’uomo, ma la natura non è un mosaico di pezzi isolati, non è giustapposizione di parti, ma un tutto organico, penetrato e animato nella varietà delle sue manifestazioni da un insieme di ordinamenti e di leggi. Quest’unità imperante in ogni cosa, quest’energia della natura, che è il suo ordine e la sua forma, conducono all’Onnipotente, a Dio. Goethe non concepisce il divino come antitesi al mondo, non lo vede come il Signore al disopra delle nuvole, che regge l’universo secondo i desideri dell’uomo, se occorre violandone le leggi. La divinità non agisce dall’sterno delle cose, ma abbracciandole, opera dall’interno della loro essenza. Dio è la vita, il senso profondo e il contenuto intimo dell’essere. Vi sono state epoche nella vita di Goethe in cui questo concetto ha preso la forma di un panteismo scialbo e scolorito; ma ve ne sono state altre in cui il divino gli è apparso nella sua onnipotenza, perfezione e creatività proprio nell’idea dell’essere come totalità. “Dio s’incontra sempre; Dio nell’uomo; se stesso nell’uomo”. In questa frase si esprime il suo sentimento duraturo: il mondo empirico come espressione e manifestazione dell’essenza invisibile del mondo, la vita di Dio in tutto ciò che opera e si muove. La stessa concezione ritorna pi volte come il filo conduttore del suo senso profondo della vita. “Che cosa di più l’uomo può guadagnare nella vita, se non che la natura-dio gli riveli per qual via essa sublima in Spirito l’immoto e conserva come realtà stabile il prodotto dello Spirito?”. In tutto ciò che vive opera lo spirito che è senso ed ordine; né la molteplicità divora il Tutto né le differenze lo annullano; è solo attraverso la varietà dei fenomeni che la realtà si dispiega nella sua interezza. Così, le due grandi unità del mondo e della vita non si contrappongono come due opposti, ma operano l’una sull’altra fecondandosi a vicenda. In Goethe, gli opposti sono sempre presenti, ma come totalità del mondo organico, e così vicine, che possono e devono influenzarsi  ed arricchirsi. In questa reciproca influenza, in questa azione e reazione degli opposti, nella coesistenza e nel mutuo rapporto dei contrari sono racchiusi la vita della natura e dell’uomo, il loro equilibrio interno e, insieme, l’ultima e più profonda unità fra realtà e vita. Insomma Goethe affermava già, nella piena consapevolezza dei problemi fondamentali, il concetto dell’origine dell’uomo dalla natura, e da questo atteggiamento la sua vita e la sua opera derivano ilo loro fascino immortale.»

 

Goethe, nell’agosto del 1830, ebbe anche un colloquio con l’amico e naturalista Frédéric Soret, precettore del principe di Weimar, con il quale riprese la precedente riflessione e sostenne che lo studio della natura è inutile, se si limita ad un esame e ad una catalogazione di singole specie viventi, come se fossero parti separate e a sé stanti.

Per lui, la natura agisce come un tutto unitario ed organico; e, dopo aver rivendicato, a partire dal suo studio sull’osso inframascellare, passato inosservato nell’ambiente scientifico tedesco, il merito di aver sostenuto tale idea quando essa non era ancora stata discussa dagli specialisti, affermò di vedere adesso, nella teoria evoluzionista di Geoffroy de Saint-Hilaire, la conferma della giustezza della sua intuizione.

Al di là della questione dell’evoluzionismo, comunque, che ancor oggi rimane una pura e semplice teoria, oltretutto indebolita da sempre nuovi riscontri paleontologici, benché i suoi sostenitori cerchino di presentarla come verità acquisita e definitiva della scienza, resta il fatto che Goethe fu tra i primi e tra i pochi a sostenere l’unità fondamentale delle forme viventi, anzi di tutto il creato, e ad affermare che il posto dell’uomo nella natura non è distinto e separato da quello delle altre specie, ma si distingue solo per il fatto che, in lui, la natura stessa giunge all’autocoscienza e si spinge così fin sulla soglia del mistero ultimo della realtà.

Mistero ultimo che, per lui, non potrà mai essere del tutto sollevato: perché la natura stessa ha voluto fare in modo che l’uomo potesse presagire l’elemento divino che si trova al centro di essa, ma non vederlo chiaramente.

Da spirito realmente e autenticamente religioso, Goethe non pensava che lo studio della natura e, in particolare, delle forme viventi, possa permettere all’uomo di gettare uno sguardo direttamente su Dio; ritiene che sia più grande un Dio che non si lascia sorprendere, per così dire, mentre sta proseguendo l’opera della creazione; un Dio che non finisce mai di sorprenderci e di lasciarci ammirati, perché lascia ovunque gli indizi della sua opera e le tracce del suo passaggio, mai però in misura tale da lasciarsi pienamente identificare.

Al contrario di Darwin, che dal processo dell’evoluzione naturale - da lui, peraltro, attribuito a fattori casuali - ritenne di poter dedurre l’assenza di un disegno divino e, quindi, di una provvidenza operante nel mondo, Goethe vi riconobbe il suggello di un Deus absconditus che non si lascia mai pienamente riconoscere, perché vuole che l’uomo continui a cercarlo ovunque, con passione e con infinita meraviglia, nella natura così come nelle profondità della sua anima assetata d’infinito e di eterno.