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La retorica dell'inglese per tutti

di Tullio Gregory - 07/03/2012

Mentre la conoscenza e la pratica della lingua italiana regredisce nelle nostre scuole medie e la capacità di comprendere un testo scritto è sempre più ridotta negli adulti, si apre il miraggio dell'inglese come lingua comune dalle scuole alberghiere all'università: tutti dovranno parlare inglese, i portieri d'albergo come i professori, almeno per i dottorati di ricerca.

Questo lo strumento essenziale per modernizzare e internazionalizzare le nostre malconce università, secondo le magnifiche sorti progressive prospettate dal ministro Profumo, raccogliendo ampi consensi soprattutto nei luoghi dedicati all'insegnamento politecnico e manageriale. Proprio perché da questi ambienti viene la proposta di lasciare la lingua italiana per l'inglese (povera lingua, ridotta a un modesto basic ), l'auspicata modernizzazione e l'internazionalizzazione sono finalizzate al rapporto con le imprese che, del progetto (addirittura definito «progetto Paese»), è «l'aspetto più importante».

In quella stessa prospettiva si pone l'Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario della ricerca, che propone i parametri per valutare quello che, significativamente, è definito «prodotto», termine usato per indicare il risultato della ricerca scientifica. Prodotto perché quantitativamente valutabile in base a criteri bibliometrici, cioè al «successo», identificato con il numero di citazioni nel giro di pochi anni.

Dunque università, prodotto, impresa: questo il circolo «virtuoso» che si pensa di promuovere con la mediazione dell'inglese, come se il valore della ricerca e dell'insegnamento dipendesse dalla lingua in cui si esprime.

 


 

Purtroppo gli alfieri della modernizzazione e dell'internazionalizzazione esclusivamente legate all'uso dell'inglese (nessun cenno alla qualità dell'insegnamento) non si limitano ai loro rispettabili campi disciplinari, ma sembrano offrire la loro ricetta come panacea universale da applicare anche a quelle forme di insegnamento e di studio che non forniscono «prodotti» per le imprese, ma cultura come sapere disinteressato capace di formare l'uomo libero, collocandolo fuori dall'angoscia del successo economico e del profitto immediato. Cultura che se è tale non «produce» beni di consumo (o comunque ne prescinde), ma vuole promuovere l'educazione della persona e del cittadino, renderlo capace di godere di beni immateriali, una poesia, un quadro, uno spettacolo (invece il Miur, fissando norme per i progetti di ricerca 2011-2013, nell'unico rapido accenno al patrimonio culturale, si preoccupa di precisare che esso deve essere studiato per la sua «valorizzazione come generatore di attività economiche»).

In realtà, anche in termini di sviluppo economico, la cultura «disinteressata» nel tempo lungo apre ben più positive prospettive rispetto al «prodotto» di pronto uso e si afferma come essenziale motore di creatività e di crescita in ogni settore del Paese.

E poiché si è parlato - come segno di internazionalizzazione - della crescente presenza di studenti cinesi nelle nostre università, andrà ricordato che sin qui la maggiore attrattiva della cultura italiana e il maggior contributo del nostro Paese allo sviluppo della Repubblica Popolare Cinese è costituito dall'importanza paradigmatica dei nostri studi di diritto romano, assunti come modello per il processo di codificazione avviato in quel Paese con la traduzione in cinese di tutto il Corpus iuris, compresi i fragmenta: non sono un «prodotto», ma la testimonianza del valore della nostra cultura classica e giuridica e del suo prestigio internazionale; fra l'altro agli studenti dell'Estremo Oriente non insegniamo l'inglese - che conoscono benissimo - ma il latino.

La verità è che gli studi umanistici, classici, letterari, filologici, storici - nei quali l'Italia occupa ancora un posto di primo piano - sono del tutto fuori dagli orizzonti di coloro che da decenni hanno governato e governano la nostra scuola e i nostri enti di ricerca. Le prove sono infinite: non solo è significativo che parlando di eccellenza nella ricerca non vengano mai ricordati gli studi umanistici (pure nel Cnr essi sono al vertice della valutazione da parte di un'apposita commissione internazionale), ma nella scuola media si è proceduto alla sistematica riduzione del numero di ore dedicate al loro insegnamento, con una totale insensibilità per la caduta nella conoscenza della lingua italiana (ne è ultimo esito il miserabile stile di gran parte delle tesi di laurea) e l'accantonamento del problema dell'analfabetismo di ritorno.

Si dimentica che, senza una scuola efficiente, dotata di laboratori e biblioteche (non bastano l'iPad e l'ebook signor ministro), con professori adeguatamente retribuiti (almeno come i commessi della Camera), con forti processi selettivi e incentivi che assicurino la mobilità sociale, non vi è riforma universitaria che regga, anzi non vi sono cultura e vita civile.

È in questo settore che vanno indirizzati gli investimenti e non v'è internazionalizzazione se il nostro Paese resta ai livelli più bassi nelle spese per l'istruzione e per la ricerca senza un impegno prioritario per la scuola preuniversitaria, struttura portante di un Paese moderno.

Cerchiamo di formare cittadini colti attraverso percorsi scolastici rigorosi: saranno anche migliori i «prodotti» per le imprese.