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Può l’estetica non essere antropocentrica?

di Francesco Lamendola - 19/03/2012


 

 

Per quale ragione una tigre che avanza silenziosa nella foresta, maestosa, ma anche temibile e potenzialmente pericolosa per chiunque, uomo compreso, la immaginiamo senz’altro come “bella”, mentre un rospo che gracida in riva allo stano ci appare “brutto”, senza attenuanti né esitazioni, tanto che i ragazzi che lo prendono crudelmente a sassate si sento quasi legittimati a farlo, come se stessero agendo secondo una sorta di giustizia non scritta?

Se lo sono chiesto legioni di etologi e qualche psicologo, ma quasi nessun filosofo: tanto radicato è il nostro pregiudizio antropocentrico, quando sono in gioco le categorie del pensiero, che, secondo l’uomo appunto, lo distinguono e lo separano nettamente dagli altri viventi.

Invece è una buona domanda da porsi, e proprio dal punto di vista filosofico; in senso etologico e psicologico, infatti, è giusto che a tentar di rispondere siano i cultori di quelle discipline, sulla base di studi e osservazioni diretti: ma il filosofo ha un altro compito, quello di saper vedere l’insieme e non solo le singole parti, e di cercare di decifrarlo e ricondurlo a categorie generali, ovvero a renderlo universalmente intellegibile, indipendentemente dal tipo di preparazione culturale, più o meno specialista, e da questo o quel particolare angolo visuale.

Ora, per tentar di rispondere a quella domanda, bisogna innanzitutto chiedersi cosa siano il “bello” ed il “brutto”, ovvero le categorie fondamentali dell’estetica. In genere si risponde che il bello è ciò che provoca sensazioni gradevoli e positive, di benessere, di armonia, di completezza, mentre il brutto, all’opposto, è ciò che suscita sensazioni sgradevoli e repulsive, dissonanti, stridenti, accompagnate da un senso d malessere.

Non è nostra intenzione soffermarci su questa particolare definizione, o su altre che sono state formulate: il punto su cui vogliamo concentrare la nostra attenzione è che “piacevole” o “spiacevole”, “armonioso” o “disarmonico”, “rasserenante” o “angoscioso” sono giudizi di merito, non di valore, poiché si applicano a situazioni contingenti e solo in un secondo tempo, per astrazione, il pensiero li isola dal contesto, li assolutizza, ne fa dei concetti di ordine generale e a sé stanti: ma, nel farlo, compie, inevitabilmente, una qualche forzatura della realtà, per il semplice fatto che, nella realtà, nulla viene dato o percepito isolatamente dal contesto, nulla può essere realmente separato e isolato dall’insieme del reale.

Il risultato è che “bello” e “brutto” non corrispondono realmente, se non per mera convenzione, a dei valori assoluti, ma a dei valori, se così possiamo chiamarli, relativi: per esprimerci in modo ancora più preciso: a dei giudizi di merito arbitrariamente assolutizzati; in altre parole, noi percepiamo e giudichiamo una cosa “bella” o “brutta” sempre e solo in riferimento alla nostra sensibilità e al nostro gusto estetico, di noi in quanto esseri umani in primo luogo, e di noi in quanto singoli individui, in secondo luogo.

Il punto è che noi non possediamo il benché minimo strumento per far sì che così non sia: fa parte della nostra struttura fondamentale e corrisponde ad una logica gnoseologica ben precisa: nessuno può sperare di conoscere qualcosa di reale, se non all’interno del proprio orizzonte di esperienza, a partire dalla propria struttura sensoriale e mentale, secondo i tempi e i modi che ineriscono alla propria specie.

Noi umani non  potremo mai vedere le cose come “belle” o “brutte” con la sensibilità di una mosca, di un cavallo, di un delfino; ciò non significa, peraltro, che dobbiamo chiuderci e trincerarci entro il nostro orizzonte antropocentrico. Il ragionamento ci rende consapevoli del fatto che sarebbe assurdo voler far coincidere la NOSTRA estetica con l’estetica in assoluto: ma il ragionamento è qualcosa che possiamo dirigere, entro certi limiti, secondo le nostre convinzioni e la nostra volontà; non così il senso estetico, che è il risultato non di operazioni logiche, ma di sensibilità ed istinto e che, pertanto, non tollera imposizioni di alcun tipo, per quanto “bene” intenzionate.

Scrive Peter A. Mäurer («La bellezza non è una legge della natura», in: AA. VV. «Il mondo animale. La nostra affascinante natura», 1986,  Monaco, Istituto di ricerche culturali, e Milano, Sport e cultura di Segrate, pp. 45-47):

 

«Da oltre duemila anni il greco Καλός Καγατός definisce quale perfezione dell’essere umano l’idea di bellezza del mondo occidentale. Con questa misura del “bello e buono” deve ed ha dovuto misurarsi tutto.

Con l’impronta di questa idea rivendicazione e gli esempi del proprio mondo culturale ogni uomo sviluppa il concetto di bellezza per lui valido, che può essere in armonia o in contrapposizione alla misura proposta. Questa nasce dalle esperienze della sua vita; riceve i modelli dalle informazioni e dagli incontri, nella famiglia e nell’ambiente ù stretto, successivamente dal mutamento di diverse definizioni enorme, le quali, formate dal relativo spirito del tempo, sono riconosciute all’interno di un gruppo o di un popolo. Ciò nonostante ci sono dei concetti di bellezza, ovviamente propri a tutta l’umanità e riconosciuti dalle più svariate culture.

Il modo nel quale il mondo animale è inserito i questo sistema di valori, ne è una prova.

Esistono al riguardo delle formulazioni molto differenti per valutare quando e quali animali soddisfano i criteri della bellezza.

Il modo di muoversi viene spesso citato per primo. Forza o armonia, spesso entrambe, sono quelle caratteristiche che suscitano ammirazione: persino le rappresentazioni di un orso o un elefante, di un giaguaro che si muove con passi maestosi provocano le associazioni citate.

Anche il comportamento mimetico degli animali, in verità da loro pensato come protezione, è un ulteriore criterio per il quale l’uomo percepisce l’animale come “bello. Fa parte di questo aspetto il comportamento di alimentazione “simile al’uomo”: di scimmie o scoiattoli, la posizione eretta insegnata a dei cani, ma anche tutto il comportamento di corteggiamento di mammiferi e uccelli. E non solo i bambini si sentono attratti; lo stesso vale per “il bambino che esiste nell’adulto”.

Il meccanismo dell’attribuzione della bellezza viene fatto scattare anche dal “comportamento da bambino”. Lo “schema-bambino” suscita quasi sempre una manifestazione di simpatia. Non solo nel nostro ambiente culturale un uccellino bisognoso di aiuto, farà scattare una reazione corrispondente come “bello e da proteggere”. Ora questo tipo di reazione è innato o meno? Proprio questo esempio potrebbe dimostrare che percepiamo la bellezza negli animali in modi assai differenti.

Nello stesso modo opera un altro processo di attribuzione della bellezza, che sostiene piuttosto il nostro desiderio (subconscio?) di una gerarchia di valori nella natura. Belli sono quegli animali che rappresentano per l’uomo una forza e un potere minaccioso. Questi sono i grandi mammiferi, la famiglia dei gatti, ma anche altri animali come ad esempio il serpente. La tigre, il leopardo, il leone vengono riconosciuti nel nostro ambiente culturale, dove in verità non hanno mai vissuto, non solo come “belli”, ma sopratutto vengono loro attribuiti dei valori positivi. Il serpente, per la maggior pare di struttura corporea piccola e non forte, però pericoloso per il suo veleno, viene rappresentato come animale simbolo. Gi animali che dal punto di vista della statura sono superiori all’uomo vengono “spiritualmente addomesticati” tramite l’attribuzione di potere, forza, maestà, e qualità simili. Lo stesso può avverarsi anche mediante assegnazione di una bruttezza intensa; le origini di tali ordinamenti con radici in vecchie magie  ci sono raramente note.

È scientificamente documentato che nell’identificazione dell’uomo con certi animali si tratta di evidenziare la propria immagine tramite determinate associazioni. Questo può verificarsi nel fatto che l’uomo addomestica o vince gli animali. Gli animali che rappresentano la grazia o bellezza si trovano sugli stemmi delle più svariate rappresentazioni. Il portatore dello stemma rivendica in tal modo per sé i valori attribuiti all’animale in questione.

I più vari diritti che l’uomo spesso accampa nei confronti dell’animale, possono indurlo a considerare un animale come “bello” anche se questo non soddisfa gli abituali criteri di bellezza.  L’immaginazione del prodotto finale “bistecca” potrebbe eventualmente mandare un macellaio in una tale estasi che la sua scala dei valori si scosterebbe parecchio dalla norma. […]

Il modo in cui l’uomo giudica la bellezza degli animali vale unicamente per esso i quanto riesce a pensare solo seguendo gi schemi delle sue categorie. Ma quando un topo considera bello un altro topo? Cosa ne pensa una rana di un’altra? Cosa pensano gli animali delle altre specie, delle piante, dell’uomo? Difficilmente possiamo rispondere a queste domande, ma ci aprono un nuovo modo di giudicare.

Il modo antropocentrico finora usato di attribuire la bellezza nel mondo animale è, visto le conseguenze per la natura e quindi per l’uomo, senz’altro sbagliato. Esistono però degli esempi di un indizio di un cambiamento dell’orientamento. Ne citiamo solo due: i pavoni con i loro colori spendenti vengono giudicati belli dall’uomo e in parte erano perfino dei simboli del potere e della bellezza. L’espressione “trono del pavone” indicava una dinastia monarchica dell’Iran, anche un proverbio sulla !”bellezza vantata”, vi fa riferimento. Ma i pavoni sono daltonici!

Un esempio simile è costituito da alcune specie di lumache che hanno sulla pelle dei meravigliosi disegni a colori: ma esse vivono nell’assoluta oscurità in caverne profonde, dove mai il sole può rendere visibili questi colori! […]

Solo quello che grazie alla propria “prestazione” nel senso più ampio procura un soddisfacimento dei bisogni ha il diritto di esistere e viene poi inquadrato sotto il criterio di “bello”. Possiamo modificare questo atteggiamento assai dubbio soltanto se riflettiamo sull’ordinamento dei nostri concetti di bellezza. Perché la “bellezza” - checché se ne dica - non è una legge naturale.

L’insorgere di un nuovo modo di concepire la nostra idea di bellezza avrà successo soprattutto se riusciremo ad avvicinarci a quanto ci è più intimo, a quanto ci ispira fiducia. Quindi dovremo imparare dai nostri animali domestici cosa può essere “bello”, perché grazie alla loro vicinanza possiamo comprenderli. Con un po’ di buona volontà possiamo capire in base a quei loro comportamenti che possono essere individuati da noi che cosa accade nel loro campo dei sentimenti e che cosa è per loro adatto alla natura. Se continuiamo però a rendere schiavi i nostri coabitanti più prossimi, non ci comunicheranno quasi niente della loro e nostra comune patria. Essi riescono ad esprimere la loro bellezza solo se godono della libertà.»

 

Nel ragionamento di Mäurer ci sono almeno due punti che non ci convincono.

Il primo è l’associazione di bellezza e potenza, nonché di bellezza e simpatia (e, al contrario, di bruttezza e debolezza, nonché di bruttezza e antipatia).

Certamente la tigre, il leone e il leopardi sono considerati belli dall’uomo anche per effetto della loro potenza; ma, più ancora, perché la potenza, in essi, si affianca alla grazia maestosa: come in un paesaggio romantico, ad esempio una scogliera a picco sul mare o una ripida costa montana, il bello confina da un lato col sublime, dall’altro con l’orrido (perché orrida, ma al tempo stesso affascinante, è l’immagine di una tigre o di un leone che balzano sulla preda, magari umana, atterrandola e uccidendola in pochissimi istanti).

L’orso bruno, nelle culture indigene della costa nord-occidentale americana, è un animale-totem, circonfuso di un’aura sacrale, non certo per la sua bellezza, ma per la sua potenza e anche, forse, per una certa vaga somiglianza che esso presenta con le creature umane, quando si drizza sulle zampe posteriori e procede in posizione eretta; presso gli Ainu del Giappone settentrionale esso è, o piuttosto era, oggetto di un vero e proprio culto religioso, anche se (o proprio perché) veniva regolarmente cacciato e mangiato dall’uomo.

Il serpente non è necessariamente debole quanto a struttura corporea - si pensi a un pitone, un boa constrictor o un anaconda lungo quasi dieci metri -, ma pericoloso per il veleno e, nella maggior parte delle culture, è visto come “antipatico”, indipendentemente dalla maggiore o minore bellezza dei suoi colori, dei suoi disegni o delle sue proporzioni.

Nella lotta fra una mangusta e un serpente a sonagli, crediamo non ci sia praticamente nessuno che non parteggi idealmente per la prima; istintivamente, l’uomo sente come “giusta” la vittoria della mangusta, quasi una forma di giustizia, se non anche di vendetta e di rivalsa verso un animale così subdolo e nocivo come il serpente (questo almeno nella cultura occidentale, perché un altro discorso, pressoché sconfinato, riguarda gli ambiti culturali diversi dal nostro, nella percezione delle qualità positive o negative degli animali e anche delle piante).

Ma che c’entra questo con il senso estetico, ossia con il giudizio sul bello e il brutto? Sia che lo si tema per il suo veleno, sia che lo si ammiri per la rapidità e l’eleganza dei suoi movimenti, il serpente non è oggetto di giudizio estetico, semmai di giudizio morale: «velenoso come un serpente» si dice, infatti, per associazione mentale, di una persona che colpisca a tradimento, in modo rapido e improvviso, servendosi di armi nascoste e di subdole strategie di offesa, a cominciare dalla maldicenza e dalla calunnia.

Anche gli animali che vengono raffigurati sugli stemmi araldici non necessariamente rappresentano la grazie e la bellezza. Si pensi agli avvoltoi che adornano, con macabro gusto, i due battenti del portone del palazzotto di don Rodrigo, ne «I promessi sposi»; si pensi allo scorpione, utilizzato talvolta come simbolo araldico; per non parlare di draghi e mostri di vario genere, sempre facendo la tara dei diversi significati che tali animali mitologici rivestono nelle diverse culture (in quella cinese, per esempio, il drago è un animale sostanzialmente benevolo, nel senso che incarna delle forze di natura positiva). Quali valori può rivendicare per sé colui che scelga uno scorpione come proprio simbolo araldico, e che cosa ciò avrebbe a che fare con l’apprezzamento estetico dell’animale rappresentato?

La stessa obiezione vale per le somiglianze fra l’animale e il “comportamento infantile”, ma anche per le somiglianze fra i cuccioli (o gli adulti) degli animali ed i piccoli della specie umana: come ben sanno i disegnatori dei film animati di Walt Disney, e anche i produttori di molti documentari naturalistici realizzati per un pubblico infantile, nonché le case costruttrici di pupazzi di peluche e altri bambolotti di pezza o di diverso materiale, la sensibilità umana è facilmente toccata dalle somiglianze di proporzioni con la propria specie (testa grande rispetto al corpo, ad esempio, oppure occhi molto grandi, umidi e dall’espressione tenera).

Nello “schema-bambino” di cui parla Mäurer, una cosa è “bello” e una cosa è “da proteggere”; è vero che i bambini tendono a identificare le due cose (così come tendono a identificarle gli adulti umani riguardo ai propri piccoli), ma, nella cultura umana, sono il giudizio dell’artista e quello del critico d’arte a dettare le regole del bello e del brutto, non le simpatie dei bambini che, la notte, vogliono dormire stringendo orsacchiotto di pezza dal sorriso malinconico o il tigrotto simile a un grazioso gattino.

L’istinto di protezione può essere una componente secondaria del giudizio estetico, ma non sempre e non universalmente; allo stesso modo, anche un certo tipo di donna suscita in molti uomini un istinto di protezione, anche se non corrisponde al tipo femminile considerato più bello (anzi, sovente proprio il contrario); né si dimentichi che non appena il cucciolo diventa un animale adulto, il bambino tende a stancarsene e di certo non lo vede più né bisognoso di protezione, né, tanto meno, “bello”, come forse lo vedeva prima.

Il secondo punto che non ci convince è la conclusione. Concordiamo sul fatto che l’uomo dovrebbe abbandonare il proprio antropocentrismo; non gli si può chiedere, però, di farlo nel campo dell’estetica, perché, piaccia o no, al senso estetico non si comanda.

Quanto al fatto che l’uomo dovrebbe imparare dai propri animali domestici che cosa sia più conforme a natura, questa è una contraddizione in termini: proprio perché domestico, l’animale che vive con l’uomo non può insegnare a quest’ultimo che cosa sia secondo natura, ivi compreso il senso estetico, perché lo ha dimenticato; semmai è vero il contrario: vivendo insieme all’uomo, è l’animale che si umanizza, che perde, cioè, le sue caratteristiche “naturali”.

E poi, quanta retorica nell’affermazione che l’uomo dovrebbe cessare di “rendere schiavo” l’animale; e quale contraddizione! Forse che l’animale domestico, che pure amiamo, non è, in fin dei conti, schiavo? E non solo schiavo: l’uomo lo rende nemico degli altri animali, insegnandogli tecniche di caccia assai più raffinate di quelle che l’istinto potrebbe mai suggerirgli.

Insomma: amare gli animali, ma amarli per davvero, non può voler dire vedere il mondo come lo vedono loro, anche perché noi non sappiamo affatto come lo vedono; ma nel rispettare la loro diversità e non scambiare il nostro punto di vista, di esseri umani, per il punto di vista di Dio.