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Quale federalismo?

di Mario Bozzi Sentieri - 18/04/2012

 

La crisi della Lega Nord, profondamente segnata dalle indagini sull’uso improprio dei contributi (pubblici !) al partito, sollecita una duplice riflessione:   quella sul ruolo del movimento politico fondato e ,fino a ieri,  guidato da Umberto Bossi  e quella sulle prospettiva del federalismo nel nostro Paese.

E’ indubbio che, soprattutto nella fase movimentista, la Lega Nord abbia rappresentato uno dei più significativi fattori di rottura nel quarantennale sistema di potere democristiano e social-comunista. L’emergere di questa realtà a base territoriale, fortemente radicalizzata nel messaggio e nell’individuazione del “nemico” (“Roma ladrona”) è stato l’elemento di coagulo per un’insofferenza diffusa nel  Nord Italia, che andava ben oltre lo stretto riformismo federalista. In primo piano c’era piuttosto la richiesta per un sistema fiscale meno rapace, per un riequilibrio (a favore del Nord) del sistema di trasferimento delle risorse, per un’amministrazione pubblica più attenta alle domande del territorio.

Come ha scritto Luca Ricolfi, ad introduzione della nuova edizione di “Il sacco del Nord”, “il federalismo non era principalmente un fine, un ideale politico, bensì un mezzo, un potente strumento di raddrizzamento dell’economia e della società italiana”. Un “mezzo” – aggiungiamo noi – segnato da un forte moralismo (il Nord buono ed onesto contro il Sud malavitoso e sprecone) che, alla prova dei fatti  e dei recenti scandali, ha mostrato la sua intima gracilità.

A ciò si  aggiunga un certo velleitarismo leghista (la famosa secessione “padana”) che in realtà ha nascosto la debolezza politica della stessa Lega Nord, incapace di tradurre in un chiaro progetto riformatore le spinte che provenivano dal territorio. Di questa debolezza  “strutturale” della Lega Nord e del suo leader carismatico se ne era accorto, in origine, Gianfranco Miglio, docente di valore e teorico di un nuovo costituzionalismo d’impronta federalista, che aveva ipotizzato, senza risultati,  una Lega “custode ” della Seconda Repubblica e “guardiana” di una accezione “puritana” nella gestione della cosa pubblica, colta e capace di sviluppare un’azione di lunga durata, ben lontana da quel “pragmatismo di  bassissimo livello” che Miglio vedeva espresso da Bossi.

Fatto sta che, a vent’anni da suo emergere, la capacità propositiva del leghismo è andata via via perdendo  forza, lasciando sostanzialmente orfano lo stesso progetto federalista, sul quale sono prevalsi gli aspetti folclorico-velleitari (l’ampolla padana, la secessione, il ministeri al Nord) piuttosto che la reale volontà riformatrice.  Né sono rimaste tracce della stessa presenza leghista all’interno dei governi a guida berlusconiana, succedutisi dal 1994 al 2011.

Restano perciò inevasi i tanti problemi a cui l’opzione federalista, sempre annunciata, ma mai realizzata, aveva dato sostanza e rilevanza politica. Di tutto questo l’auspicio è che, Lega o non Lega, si cominci seriamente a  discutere, proponendo finalmente chiare contromisure. Per andare dove ? Certamente non nella direzione di una improponibile e velleitaria secessione, ma di un organico riformismo costituzionale, che dia efficienza alla pubblica amministrazione, che accorci, sul territorio,  la catena decisionale, che indichi, con chiarezza, le competenze (dai Comuni alle Regioni allo Stato), che renda meno iniquo il carico fiscale.

Chi saprà farsi carico di queste domande,  rimaste purtroppo inevase da un ventennio,  trasformandole in azione politica ed in un coerente progetto riformatore,  riconquisterà le chiavi del consenso, non solo del Nord, ma dell’intero Paese.