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La critica alla forma capitale di Alain de Benoist

di Giuseppe Giaccio - 24/04/2012

 

Le fibrillazioni che hanno caratterizzato, negli ultimi anni, la vita del capitalismo (la crisi dei subprimes e del debito sovrano), con ripercussioni negative e spesso drammatiche sulle esistenze di milioni di persone, appartengono alla fisiologia e non alla patologia di questa formazione economico-sociale. Lasciato a se stesso, alla coltivazione delle sue spontanee inclinazioni, il capitalismo tende, per sua logica interna, obbedendo alla sua intima ratio, a produrre il modello della cosiddetta società a clessidra, espressione con la quale ci si riferisce a una aggregazione umana in cui la ricchezza si accumula nella parte alta della scala sociale (come succede, appunto, in una clessidra, dove la maggiore quantità di polvere o acqua si trova nella parte superiore dell’ampolla), diminuendo, fino a produrre una strozzatura, a mano a mano che se ne scendono i gradini. Il capitalismo, come, del resto, suggerisce il suo nome, è un modo di produzione sbilanciato in direzione del capitale. Cos’altro dovrebbero fare i capitalisti se non accrescerlo ad ogni costo, a spese della terra e del lavoro? Questo è il loro mestiere, il loro dna, e non ha senso attendersi da essi qualcosa di diverso. Questa dinamica, qualora abbia la possibilità di esprimersi con coerenza, sino in fondo, mette in pericolo, alla fine, la coesione sociale e la sorte degli stessi detentori di capitale. Una società in cui pochi hanno troppo e troppi hanno poco non può, evidentemente, reggere a lungo. Luciano Gallino ha parlato, a questo riguardo, di «pulsioni autodistruttive»[1] presenti all’interno del capitalismo dalle quali esso si è finora salvato o perché è stato costretto a scendere a patti da attori sociali e politici che hanno preteso e ottenuto, al prezzo di dure contrapposizioni frontali, una redistribuzione più equa dei pesi e degli utili, una diversa spartizione della torta del pil (si potrebbe dire che, paradossalmente, sono stati i suoi nemici a salvarlo da se stesso), o perché i capitalisti hanno ritenuto più conveniente concedere qualcosa per poi vederselo restituito con gli interessi sotto forma di acquisti, di consumi crescenti, incoraggiati da tecniche di marketing e di seduzione pubblicitaria sempre più raffinate. C’è stato un momento in cui il ciclo capitalistico denaro/merce/denaro illustrato da Marx è sembrato funzionare, accontentando un po’ tutti i soggetti sociali e politici del mondo occidentale (sindacati, partiti, imprenditori) e realizzando la quadratura del cerchio di cui ha parlato Ralf Dahrendorf. I capitalisti prendevano denaro in prestito, in genere dalle banche, lo utilizzavano per produrre merci che immettevano sul mercato e col ricavato ripagavano i debiti, remuneravano i lavoratori e se stessi, mentre la politica ridistribuiva parte della ricchezza prodotta per il benessere collettivo e predisponeva o irrobustiva il quadro legislativo e istituzionale che consentiva di continuare il “gioco”.   

Quest’epoca, per definire la quale si è parlato, a seconda dei casi e dei contesti, di compromesso fordista, glorioso trentennio, miracolo economico, è ormai alle nostre spalle. Il meccanismo si è inceppato, in parte per ragioni economiche e sociali (la crescente difficoltà di soddisfare i differenti attori), in parte per ragioni geopolitiche (la fine del condominio bipolare Usa/Urss). Il periodo compreso tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso ha visto il ritorno in forze delle concezioni liberiste, giustificate sulla base del presupposto, puramente ideologico e di cui non è difficile dimostrare l’infondatezza, secondo il quale il privato è meglio del pubblico, perché produrrebbe ricchezza e valore, laddove la sfera statale sarebbe capace solo di produrre disavanzi e clientele. Abbiamo così conosciuto la premiership di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e il doppio mandato presidenziale per Ronald Reagan negli Stati Uniti (America is back, America great again erano i suoi slogans), la messa in soffitta dell’ordine di Yalta, la globalizzazione, l’inizio della flessibilità del lavoro e delle delocalizzazioni della produzione, l’ascesa del gigante cinese e del suo capitalismo autoritario, i conflitti per il controllo delle fonti energetiche non rinnovabili mascherati e nobilitati da ingerenze umanitarie a tutela dei diritti umani. Il  capitalismo si è finanziarizzato, i suoi interlocutori non sono più tanto i lavoratori, sempre più indeboliti e timorosi, quanto gli azionisti, che pretendono di veder crescere i dividendi e non si curano dei prestatori di lavoro, sfruttati senza alcuno scrupolo nelle cosiddette maquiladoras che spuntano un po’ ovunque in America Latina, India, Cina – zone in cui le paghe sono bassissime, le condizioni di lavoro ottocentesche, i sindacati sconosciuti, il degrado ambientale a livelli inimmaginabili, mentre nei paesi sviluppati lo stato sociale è ormai al nunc dimittis. Sacche di questo tipo sono, d’altronde, presenti anche da noi: si pensi alle vaste enclave di economia illegale dove lavora al nero, in situazioni disumane, la manodopera immigrata clandestina. L’incertezza, scrive Jean-Michel Quatrepoint, è «la regola dei managers, come degli impiegati. Si taglia, si ritaglia, si esternalizza, si raggruppa, si delocalizza. Bisogna muoversi incessantemente per nutrire quei mercati che vivono, come il resto dell’economia, sugli scambi, i flussi. Più ci si muove, più ci sono movimenti, più c’è flusso, più la finanza prospera e la sua influenza cresce. Ormai, è essa a dettare alle imprese la loro strategia»[2]. In questo contesto, ha notato Luciano Gallino, i «mondi vitali» delle persone diventano «puri nodi di scambio di relazioni mercantili»[3] e l’essere umano viene ridotto alla avvilente condizione di «deposito mobile di forza lavoro erogabile a comando»[4] (just in time, come si dice, cioè quando fa comodo al datore di lavoro e senza tener conto delle esigenze del lavoratore). La globalizzazione è lungi dall’essere ciò che i suoi retori decantano quotidianamente attraverso il circuito dei mezzi di informazione di massa, vale a dire la migliore modalità di allocazione di uomini, risorse, saperi. Al contrario, gli indicatori relativi alla disoccupazione, alla produttività e alla crescita economica raccontano una storia diversa, ci dicono che in tutti questi settori la globalizzazione ha portato frutti più negativi  che positivi, sia nei paesi sviluppati che in quelli del Terzo mondo[5]. Parafrasando ciò che diceva Norberto Bobbio a proposito della democrazia, potremmo parlare di promesse non mantenute della globalizzazione. Danilo Zolo, dal canto suo, ne prevede una più o meno rapida «decadenza immanente e progressiva»[6].   

Il quadro qui sommariamente delineato lo si può trovare sviluppato, in modo più particolareggiato e analitico, in molti testi di non difficile reperimento. Merito di Alain de Benoist è di non limitarsi alla descrizione, ma di mettersi alla ricerca di possibili vie d’uscita dall’impasse in cui siamo attualmente rinchiusi. L’originalità e l’interesse delle sue posizioni nascono dalla consapevolezza, purtroppo non molto diffusa, che dal vicolo cieco del turbo-capitalismo (parola dalla quale si potrebbe anche eliminare il prefisso, senza che il suo significato cambi) si esce solo ponendosi su un terreno completamente nuovo. I critici della Forma-Capitale, come preferisce dire l’intellettuale francese, esprimono, infatti, di solito, tesi che, in varia misura, sono interne e/o dipendenti da essa. Un primo gruppo di tali tesi è riconducibile alle tematiche evidenziate da Michael Hardt e Antonio Negri in Impero e Moltitudine, saggi che hanno avuto una grande risonanza mediatica a livello mondiale (sono stati presentati come la bibbia dell’altermondialismo, o perlomeno di una sua frangia) e nei quali le odierne tendenze capitalistiche, pur criticate, sono giudicate, nel complesso, positivamente in quanto farebbero piazza pulita di ciò che rimane del vecchio mondo preesistente alla globalizzazione, conterrebbero nuove possibilità di liberazione e favorirebbero l’avvento della moltitudine, cioè di una «soggettività» capace di legare «la singolarità al comune»[7]. Hardt e Negri si richiamano apertamente, aggiornandolo ai mutati scenari, al ragionamento proposto da Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista: come la società borghese è un progresso rispetto a quella feudale, così l’Impero mondializzato è un passo avanti rispetto alla realtà degli Stati nazionali edificati dalla borghesia.

Una seconda posizione è quella di chi ritiene che i problemi posti dal capitalismo finanziario saranno avviati a soluzione nel momento in cui emergerà un nuovo antagonista in grado di ridurlo a più miti consigli e di fargli riabbassare la cresta. Anche in questo caso, siamo di fronte a un discorso di tipo analogico; si tratta di costringere, come è già successo in passato, il capitalismo ad addivenire a un nuovo compromesso che risulti vantaggioso per tutti, di mettere a punto le regole di un nuovo gioco win-win, a somma positiva, in cui tutti vincono e nessuno perde. La rabbia degli indignados, su cui negli ultimi tempi sono scorsi fiumi di inchiostro, sembra non andare oltre questo orizzonte neoriformista (fatto proprio anche da Luciano Gallino), almeno a giudicare dagli scritti di Stéphane Hessel, indicato come il maître à penser del movimento. Ci si può, tuttavia, chiedere se un tale gioco sia mai esistito e se possa davvero esistere. Persino quella che è stata considerata l’età dell’oro del capitalismo e dello stato sociale, il primo trentennio del secondo dopoguerra, ha prodotto almeno due perdenti: la natura, sfigurata da interventi umani pesantemente invasivi, che ora comincia a presentare il conto, e il Terzo mondo che, con la decolonizzazione, ha visto mutare le forme, ma non la sostanza, del suo asservimento agli interessi occidentali.     

Un terzo gruppo di posizioni, all’interno del quale si possono situare quelle di Alain de Benoist, fa capo a quanti ritengono, invece, che solo costruendo un nuovo paradigma, un diverso nomos della Terra, una differente modalità di appropriazione, produzione e distribuzione che ponga al centro i concetti di limite e di bene comune, sarà possibile trovare il bandolo della matassa. Vi possiamo inserire, a titolo puramente esemplificativo, la corrente della decrescita, l’ecologismo più coerente e consapevole, il pensiero meridiano di Franco Cassano, l’alternativa mediterranea propugnata da Danilo Zolo, il Régis Debray che tesse l’elogio delle frontiere, le analisi di François Flahault sul prometeismo occidentale.  

Sia la via riformista, sia la via altermondialista, continuando ad avere sullo sfondo l’Occidente sviluppato – nel caso del riformismo per ridargli una vernice sociale, nel caso dell’altermondialismo per farvi germogliare i semi della moltitudine (Hardt e Negri) o per costruire una globalizzazione dal basso, più giusta e democratica (Susan George, Ignacio Ramonet) – non fanno i conti con il vero nodo che abbiamo davanti, ossia la non riproducibilità di un modello che per sostenersi ha bisogno di dosi crescenti di energia, destinata però a scarseggiare, stando alla legge dell’entropia illustrata da Nicholas Georgescu-Roegen: la Terra fa parte di un sottosistema chiuso, che non può ricevere apporti dall’esterno; ne consegue che tutta l’energia utilizzata è perduta per sempre e non è reintegrabile. A che serve realizzare un altro compromesso tra capitale e lavoro, se poi il mondo viene letteralmente saccheggiato e divorato? L’impronta ecologica è già adesso oltre il margine che consente la riproduzione della biosfera e non sarà certo l’araba fenice dello sviluppo sostenibile a ridurla. Si può tranquillamente aggiungere che, anche laddove si pervenisse a una generalizzata adozione delle energie rinnovabili, ad un mondo wws (wind, water, sun – vento, acqua e sole), cosa a giudizio di alcuni fattibile e niente affatto utopistica nel medio periodo, il prezzo da pagare in termini di impatto ambientale resterebbe comunque significativo e preoccupante, perché la fame di energia rimane elevata. «Per questo», ha osservato Marco Morosini, «diversi autori propongono di limitare l’energia usata dall’umanità al valore attuale di duemila watt di potenza continua pro capite, pari a 1,5 tonnellate equivalenti di petrolio o 18mila chilowattora all’anno. Secondo questi studiosi, oltre un certo livello le perturbazioni alla biosfera provocate dalle trasformazioni energetiche compiute dall’uomo diventano inaccettabili, a prescindere dalla fonte e dalle tecniche usate»[8].

Nella prospettiva di Hardt e Negri, qualora si realizzasse, il problema assumerebbe contorni ancora più inquietanti e drammatici, dal momento che la moltitudine vagheggiata nei loro libri si configura come un’entità desiderante, posseduta da desideri senza limiti, che non potranno mai essere soddisfatti, se non temporaneamente, e che richiederanno, perciò, investimenti energetici inesauribili che non è dato scorgere nemmeno lontanamente per l’ovvio motivo che non esistono. La moltitudine è composta da tanti Gargantua e Pantagruel, simboli rabelaisiani dell’eccesso, della dismisura, della hybris, ampiamente lodati da Hardt e Negri, i quali, a questo proposito, esprimono il punto di vista dell’intera modernità e non solo quello di una nicchia altermondialista. Il modo di produzione e, più in generale, di vita della moltitudine è, infatti, il posse, cioè il potere, la potenza, che ogni “moltitudinario” e la moltitudine nel suo insieme debbono espandere al massimo. Non è sorprendente, allora, che Hardt e Negri denuncino e liquidino come «misticismo del limite»[9] gli approcci teorici che abbiamo in precedenza inserito nella terza delle tendenze individuate, dimenticando che, come scrive Régis Debray, «l’essere e il limite accadono insieme e l’uno attraverso l’altro»[10]. Il disconoscimento di questa verità ci espone alla stessa, misera sorte della rana di Fedro, che scoppiò perché tentò di varcare i confini del proprio essere, volle essere ciò che non era. Non c’è, in questa posizione, alcuna irrazionale esaltazione del limite, ma piuttosto un sano realismo, che in Alain de Benoist e negli altri autori e movimenti ascrivibili a questa area si manifesta anzitutto a livello psicologico, personale, come rivalutazione della lentezza, di ritmi di vita meno frenetici, il che comporta una critica in profondità della «monocoltura della mente» (Vandana Shiva) e la necessità di «decolonizzare» il nostro immaginario sviluppista (Serge Latouche). Sul piano economico, questi intellettuali auspicano una ripresa del senso originario dell’economia, che è cura dell’oikos, e non può essere ridotta a crematistica, alla crescita illimitata e sregolata di denaro elettronico e di azioni, all’economia-casino che produce bolle speculative, arricchendo Soros e tutti gli altri squali delle Borse e immiserendo gli anonimi e ignari sottoscrittori di azioni e titoli tossici. L’oikos non va peraltro inteso solo in senso economico, ma nel suo significato più ampio di casa, e ciò spiega l’attenzione che questi autori riservano alla sfera locale, alla prossimità; sul piano politico interno, il nuovo paradigma si configura come democrazia partecipativa che potrebbe essere favorita dall’introduzione del reddito di cittadinanza; a livello di politica internazionale, slabbratosi lo ius publicum europaeum, Alain de Benoist oppone al progetto «monoteistico» del Washington consensus, quello pluralistico di grandi aree sovranazionali internamente legate da vincoli federali. Tutto ciò può essere riassunto in una bella formula, sorta nell’ambiente degli zapatisti del Chiapas: costruire un mundo en donde quepan muchos mundos, un mondo nel quale ci sia spazio per molti mondi.     

 

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Si dice che il generale de Gaulle, ad un suo sostenitore che gridava, riferendosi ai suoi avversari: «Mort aux cons!», «morte agli imbecilli!», abbia replicato: «Vaste programme!», «programma arduo, impegnativo!». Qualcosa del genere si può affermare anche degli obiettivi che traspaiono dalle pagine di questo volume. La difficoltà di realizzarli non deriva tanto (o solo) dalla più o meno massiccia presenza di imbecilli nel campo opposto. Gli imbecilli si trovano, ahinoi, dappertutto perché, come è noto, le loro mamme sono sempre incinte. Probabilmente, tra i globalizzatori ce ne sono di più perché lì il bacino di utenza, chiamiamolo così, è più ampio, ma questa è una ben magra consolazione. No. La difficoltà deriva, in primo luogo, dal fatto che, per dirla con Régis Debray, mai come oggi si assiste a una profonda e rischiosa divaricazione tra lo stato mentale delle persone – la loro mentalità, i loro modi di pensare – e lo stato delle cose, la realtà che abbiamo sotto gli occhi, ma di cui non teniamo alcun conto. La mentalità diffusa, frutto di una sedimentazione plurisecolare, ci spinge a correre vorticosamente su tutto il globo terraqueo, spremendo le cose (e gli uomini, spesso reificati, considerati alla stregua di cose) per avere, crescere, svilupparci a ritmi esponenziali; le cose, per contro, avrebbero bisogno di un po’ di requie, di pace, di tregua. Non ce la fanno più. E ormai non ce la fanno nemmeno gli esseri umani, protagonisti e vittime al tempo stesso di questo moto browniano, per interrompere il quale dovremmo, come suggerisce François Flahault, smetterla di pensarci come soggetti, cioè come sostanze che hanno in se stesse la fonte del proprio essere e il cui rapporto col mondo può, di conseguenza, essere caratterizzato solo all’avere. «Soggetto cartesiano e Homo economicus», osserva Flahault, «sono le due facce di una medesima rappresentazione di sé e della società. Questa rappresentazione ha condotto il pensiero a focalizzarsi sulla circolazione dei beni commerciali (i beni che si hanno o che non si hanno) e a sottostimare l’importanza dei beni (nel senso più ampio del termine) grazie ai quali noi siamo»[11]. Una seconda difficoltà è legata alla confusione concettuale regnante in quel settore di oppositori della globalizzazione che non critica il fenomeno in sé, ma la sua deriva neoliberista. Costoro si identificano in pieno nella retorica globalizzatrice (diritti umani, sviluppo sostenibile, una giustizia globale ottenuta grazie a tribunali internazionali) e vorrebbero che si passasse dalle parole ai fatti, sotto l’egida dell’Onu, senza comprendere che la globalizzazione, come lo sviluppo, è una soltanto e non ce n’è un’altra e che i paesi che siedono nel Consiglio di sicurezza dell’Onu non accetteranno mai una riforma in senso democratico di questa istituzione che diminuisca i loro poteri.   

La lotta sembra impari, disperata. Le «catastrofi pedagogiche» su cui fa assegnamento Latouche per fermare il treno della globalizzazione, scendere e salire su un altro treno appaiono a dir poco aleatorie, dato che, come ha osservato de Benoist, non è affatto scontato che una catastrofe insegni qualcosa a coloro che l’hanno subita; ci sono anzi buone ragioni per pensare il contrario: se fosse così, dovremmo già da tempo vivere in un nuovo paradiso terrestre. Che fare, allora? Classica domanda. In linea teorica, la risposta non è difficile ed è così riassunta da Régis Debray: «Di fronte al rullo compressore della convergenza, con i suoi consensi, le sue concertazioni e i suoi compromessi, ravviviamo le nostre ultime forze di divergenza»[12]. Contrariamente a quanto ci viene ossessivamente somministrato dai mass-media, le forze che spingono nel senso della convergenza, quelle che puntano alla costruzione di una realtà in cui the world will be as one, come recita una nota canzone di John Lennon, assurta a inno del pacifismo planetario, sono anche quelle più belligene, distruttive, violente e totalitarie. Infatti, edificare un mondo in cui ci sia un unico mercato, con prodotti, reali o virtuali, standardizzati al massimo, un unico governo, un’unica giustizia internazionale, un’unica lex mundialis, comporta il ricorso a tutti i mezzi, anche a quelli più drastici, per mettere in riga i recalcitranti, criminalizzati come nemici del genere umano. «La globalizzazione», ha scritto lucidamente Danilo Zolo, «non può che essere assistita da robuste protesi militari»[13]. Carl Schmitt ci ha lasciato pagine illuminanti su questa eterogenesi dei fini dell’universalismo e del pacifismo. Viceversa, fissare precise linee di divergenza è, almeno potenzialmente, la maniera migliore per dialogare con l’altro – che viene riconosciuto in quanto tale e non ridotto a immagine imperfetta di noi stessi, bisognosa di conversione – e risolvere pacificamente i conflitti, come suggerisce anche la saggezza popolare: patti chiari, amicizia lunga. Tutto questo va bene, in teoria. Ma in pratica? La risposta di Alain de Benoist è, ancora una volta, improntata al realismo. Sulla scia del suo amato Sorel, egli ci dice che, come i primi cristiani, dobbiamo stare nel mondo – cioè immergerci nella realtà per meglio conoscerla e criticarla e costruire dal basso, con pazienza, calma e umiltà (nel senso di aderenza all’humus) una prospettiva di cambiamento radicale, senza essere del mondo, cioè senza vendergli la nostra anima per un piatto di lenticchie (o per qualsiasi altro piatto), prostituendoci davanti ai suoi idoli. Nessuno, tra coloro che oggi contano, concederà mai spazi che non siano residuali a quanti si prefiggono di scalzare e abbattere lo status quo. Niente tribune mediatiche, o vaste platee televisive, o accesso ai luoghi in cui si prendono le decisioni che determineranno il nostro futuro. Solo catacombe. Inutile lamentarsene, perché è nella logica delle cose. Ciò è fuori dalla nostra portata, almeno per ora e presumibilmente ancora per molto tempo. Tutto il resto – il lavorio su noi stessi per acquisire uno sguardo sempre più penetrante e lucido sulla realtà, la costruzione di isole di resistenza, l’edificazione tra esse di ponti, collegamenti, reti – dipende esclusivamente da noi. È poco? È molto? Non importa. Possiamo farlo. Dobbiamo farlo.   

 

 



[1] Cfr. Luciano Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005, pag. 258.

[2] Jean-Michel Quatrepoint, La crise globale, Mille et une nuits, Paris 2008, pag. 79.

[3] Op. cit., pag. 247.

[4] Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2008, pag. 132.

[5] Cfr. Luciano Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 2007, pagg. 99 sgg.

[6] Cfr. Danilo Zolo, Tramonto globale, Firenze University Press, Firenze 2010, pag. 11.

[7] Cfr. Michael Hardt/Antonio Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004, pag. 231. Per una rassegna critica delle reazioni suscitate dalla pubblicazione dei due saggi, si veda: Alain de Benoist, «Multitude ou chaos? Sur les thèses de Michael Hardt et Antonio Negri», in Krisis, numero 25, maggio 2011, pagg. 26-67.  

[8] Cfr. Marco Morosini, «Cento per cento rinnovabili», in Internazionale, 4/10 novembre 2011, pag. 59.

[9] Cfr. Michael Hardt/Antonio Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001, pag. 358.

[10] Régis Debray, Éloge des frontières, Gallimard, Paris 2011, pag. 46.

[11] François Flahault, Le paradoxe de Robinson, Mille et une nuits, Paris 2005, pagg. 160-161.

[12] Régis Debray, op. cit., pag. 87.

[13] Danilo Zolo, Chi dice umanità, Einaudi, Torino 2000, pag. 220.