L'americanizzazione totale non può attendere
di Enrico Galoppini - 16/05/2012
Fonte: europeanphoenix
L'Italia tra nuovi "scandali", "antipolitica" e saccheggio dello Stato
Gli italiani sono un popolo dalla memoria corta. Nel bene e nel male: dimostrano ingratitudine verso chi ha fatto loro sostanzialmente del bene (o meno male di altri…) e dimenticano alla svelta le “lezioni” ricevute.
Per carità, scordarsele per poter poi meglio tirare avanti senza deprimersi collettivamente, sarebbe di per sé un buon segno, ma in questo popolo vi è la radicata abitudine a non far tesoro di quanto ha già dovuto patire. Il problema è che spesso e volentieri dalle batoste del passato non ha imparato proprio nulla; anzi, poiché le ha interpretate così come ha voluto chi gliele ha date, ha finito per introiettarle proprio al contrario di come andava fatto.
È il caso, ad esempio, della stagione “moralizzatrice” andata sotto il nome di “Mani pulite”. Uno spettacolo dato in pasto al peggior popolino – compreso quello che si ritiene “acculturato” perché legge un quotidiano “progressista” - per inscenare un repulisti da cima a fondo che nella sostanza ha lasciato il sistema inalterato, peggiorandolo addirittura per molti aspetti che incidono nella vita di tutti noi.
Che poi a reclamare “pulizia” siano, esasperati a dovere da una pletora di “giustizieri”, proprio gli strati più infimi della popolazione, sia per censo che per cultura, è cosa sinceramente preoccupante, poiché con la “modernità” anche la proverbiale “onestà” dell’altrettanto proverbiale “persona umile” è andata a farsi friggere. Oggi, il “popolo” è quanto di più greve ed abbrutito si possa concepire, infarcito com’è di messaggi ed abitudini capaci di traviare anche un beato. E senza il classico e sempre valido “timor di Dio”, anche la “morale” di cui molti si riempiono la bocca diventa un puro vaniloquio.
Per questo, sebbene Beppe Grillo abbia ragioni da vendere quando lancia i suoi strali contro “la casta”, vien poco da esaltarsi al pensiero di un “processo popolare” evocato dal capo del Movimento 5 stelle, col suo pubblico bello pronto con le corde e il sapone. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”… bisogna sempre ricordarselo. Certo, è vero che alcuni – ricoprenti le cariche cosiddette “di responsabilità” - hanno la coscienza nera come la pece e fanno sinceramente ribrezzo anche solo a pensarli, ma non è che la maggioranza, che supinamente accetta stili di vita ed atteggiamenti mentali dettati dai dominanti, sia automaticamente con la coscienza immacolata.
Eh no, così è troppo comodo. Perché qua, in un certo senso, il più pulito c’ha la rogna. Va bene, non è bello rinfacciare alla massa – bombardata da messaggi fuorvianti - le sue cattive abitudini (riassumibili in tutta una serie di comportamenti volti a migliorare il proprio “tenore di vita”), come dire, “ve la siete cercata”, proprio mentre i più fragili, e talvolta oggettivamente rovinati, si stanno togliendo la vita; ma è anche vero che tutti, in una certa misura, si sono ‘compromessi’ con quest’andazzo, che finché ha garantito ricchi premi e cotillon è stato scambiato per “il migliore dei mondi possibili”, mentre ora, al momento che la nave affonda, si vorrebbe dare la colpa solo a qualche ‘schettino’, pulendo d’un colpo la coscienza a tutti gli altri che ballavano e gozzovigliavano senza mai porsi mezza domanda sul senso di una vita trascorsa nell’inconsapevolezza più scellerata.
E così, con buona probabilità, anche stavolta, tra una ridda di “scandali” (politici, bancari ecc.), andrà a finire che tutto cambierà perché nulla cambi. Nel senso che c’è il fondato rischio che a fronte di un crollo elettorale dei partiti della “Seconda repubblica”, massacrati e “depurati” – alcuni più degli altri (v. la Lega) - dalle solite “inchieste” ad orologeria, ci si ritrovi con una bolla d’aria in mano, con tanti saluti a chi s’illudeva di vivere un sostanziale ed epocale cambiamento.
“Cambiamento”: questa è la parola magica in democrazia, assieme a “riforme” e “nuovo”, ripetuti ossessivamente dalla propaganda, e dalla pubblicità, che della prima replica stili e finalità. E “cambiamento” avremo, né più né meno come ci fu spiattellato regolarmente, a pranzo e a cena, con il festival degli “avvisi di garanzia” dei primi anni Novanta.
Ma è poi forse cambiato qualcosa dopo quella sarabanda? Abbiamo avuto una classe politica migliore, più onesta e più “dalla parte della gente”? Suvvia, smettiamola di credere agli asini che volano. Per prima cosa, ogni nazione ha i capi che si merita, a maggior ragione se manco si rende conto di essere completamente asservita ad interessi che non sono i suoi. Secondariamente, in effetti qualcosa è cambiato, sì, ma decisamente in peggio.
L’Italia, dopo “Mani pulite”, si è trasformata a tappe forzate in una copia dell’America. E tutto è andato in quella direzione.
Intanto, falciando la classe politica del cosiddetto “Pentapartito”, sono scomparsi dalla scena anche gli ultimi statisti (uomini politici col senso dello Stato), e siamo rimasti solo con buffoni, nani e ballerine (e voglio ancora essere ottimista) smaniosi di prostituirsi senza dignità. A quel punto, il saccheggio dei beni dello Stato è risultato un gioco da ragazzi. Guarda caso, ogni volta, il tintinnio di manette e gli “scandali” vanno di pari passo con l’esigenza di “svendere” per “privatizzare”, sostenuta a tamburo battente da un’ossessiva e monotona grancassa mediatica mirata a screditare l’idea di “Stato” e di “pubblico”, come se questi fossero sinonimo di “malaffare”. Se lo ricordino, ogni tanto, gli avidi consumatori delle cronache di certi giornali “giustizialisti” e “forcaioli”… E, già che ci siamo, chissà perché, con un sincronismo sbalorditivo spuntano fuori sempre le “Brigate Rosse”, o “la Mafia”, a far fuori qualche personaggio scomodo, che resiste all’ennesima calata di braghe…
Vi è un’abbondante messe di materiale, sia su carta che su internet, per rendersi conto della vera e propria rapina ai danni della comunità nazionale andata in scena col festival della “moralizzazione” di vent’anni fa. E alla fine, poiché in Italia l’opposizione è inesistente, checché ne pensino quelli che ancora trovano gratificante atteggiarsi ad “anticonformisti” o “rivoluzionari”, buona parte di quelli che erano beni pubblici, pagati coi soldi frutto dei sacrifici di tutta la “gente normale”, sono stati svenduti a pochi pasciuti pescecani, che sono ancora lì, pronti a papparsi anche il grosso e succulento ‘secondo grande boccone’ del patrimonio dello Stato italiano.
Nello stesso torno di tempo, ci hanno messo la ‘camicia di forza’ del “Trattato di Maastricht”, con tutti i più feroci “moralizzatori” dell'epoca che erano anche i più ferventi “europeisti” (il Pds, La Rete…). Da quel giorno, il classico “Dio lo vuole!” è stato trasformato in “l’Europa ce lo chiede!”, per imbarcarci in un’assurda e controproducente ‘Crociata’ contro le “sovranità nazionali”. Non è forse l’Unione Europea l’apposita versione a noi imposta degli “Stati Uniti d’Europa”?
Non è tuttavia questa la sede per un’analisi puntuale e dettagliata di quanto è accaduto vent’anni fa, ma basta poco per rendersi conto di come, mentre il teatrino della “moralizzazione” viene periodicamente inscenato per placare gli umori di un “popolo” aizzato ad arte, siamo finiti per assomigliare sempre più all’America, senza nemmeno quegli elementi apprezzabili – sempre alla luce della “modernità”, beninteso - che vi si potrebbero individuare; perché quello è, volenti o nolenti, il modello al quale tutto il mondo deve appiattirsi affinché i signori del danaro e dell’usura possano coronare il sogno di trasformare l’uomo in un fantasma di se stesso, in balia del suo ego e, a quel punto, di tutti i farabutti intenzionati a tiranneggiare le vite del prossimo poiché a loro volta fanno torto a se stessi.
Procediamo dunque in ordine sparso e cominciamo con un “piatto forte”, visto che, come recita la Costituzione, la “Repubblica antifascista nata dalla Resistenza” è “fondata sul lavoro”. È decisamente triste innalzare al rango di ‘divinità laica’ quella che gli antichi hanno concepito e descritto solo come una “pena”, un male necessario (i “nobili”, non hanno mai “lavorato”, e un motivo ci sarà): per di più l’uomo “moderno”, lo vede come un “fattore della produzione”, al pari del “capitale” e dei macchinari, cosicché – con un apparente paradosso - quello che a parole viene reso un “valore assoluto” tanto che occupa l’art. 1 di una legge fondamentale dello Stato, nella pratica è sempre più privo di senso, perché il “senso” l’ha perso esattamente colui che lo esplica, l’uomo, che negando Dio non fa altro che negare se stesso, con la conseguenza che anche quelle che egli presenta come le sue più “elevate conquiste” son destinate ad un misero fallimento.
Ma che cos’è questo “mercato del lavoro” che rievoca più la tratta degli schiavi che una realtà in cui, avendo in vista la crescita morale e materiale della nazione, dovrebbero incontrarsi, in un clima di mutua collaborazione, le energie di tutti i “ceti produttori”? Siamo, insomma, al mercato delle vacche, sempre più magre, tra “flessibilità”, “mobilità” e “precariato”, tutte parole che evitano di pronunciare la parola “sfruttamento”. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è difatti la regola nei rapporti di lavoro nella nostra nuova patria ideale, l’America, dove una massa di poveracci arranca per sopravvivere tra più lavori, “a tempo”, saltuari, a tutte le ore, con poche o nulle garanzie, mentre una minoranza – ben rimpinzata perché serve da sostegno del sistema – si sollazza tra stipendi da favola e privilegi che i comuni mortali possono solo sognarsi la notte. Chi ha buona memoria ricorderà come a partire da “Mani pulite” divenne all’ordine del giorno ripetere ossessivamente, da parte di gentaglia con posto ultrafisso e manna dal cielo garantita, che no, non si poteva più pensare al “lavoro sicuro”, ma si doveva entrare nell’ordine d’idee della “competitività”, della “mobilità”, come se ad un operaio o un impiegato normale fregasse qualcosa di queste “sfide dei mercati che la globalizzazione ci impone”.
Collegato a questo, ma non solo, vi è la creazione di una “società multietnica”, essenziale per trascinare verso il basso i livelli salariali e tutte le garanzie sin qui raggiunte. Che cosa di meglio che un surplus di “braccia” da impiegare a “buon mercato”, mentre una viscida e spudorata menzogna ripete che “gli italiani non vogliono più fare certi lavori”? Non a caso, è nella patria dello sfruttamento, l’America, nata sul sacrificio di milioni di schiavi deportati dall’Africa, che la “società multietnica” è stata concepita e realizzata. Una situazione – quella della “società multietnica” – che, in mancanza di un saldo legame che non può essere un vago “contratto sociale”, tra i vantaggi per gli sfruttatori offre anche quello dell’assenza di solidarietà tra chi, pur dibattendosi tra difficoltà condivise, non si unisce contro gli sfruttatori perché c’è qualcosa che, “a pelle”, impedisce – a parte alcune sporadiche eccezioni - di stabilire un legame capace di porre in essere una resistenza attiva ed organizzata. Per cui, la tanto decantata “lotta di classe”, diciamolo pure ai suoi fautori, non funziona proprio in una “società multietnica”…
Il risultato di questa “ricetta” è presto detto: la scomparsa del “ceto medio”, di quella fascia maggioritaria della popolazione, discretamente benestante dal punto di vista materiale, che è sempre stata un elemento fondante delle società europee sia negli anni dei Fascismi (Carta del Lavoro), ove questi si sono sviluppati, sia nel periodo della cosiddetta “socialdemocrazia” (Statuto dei Lavoratori). La direzione in cui invece marcia quest’Italia, sempre più invertebrata e senz’anima, è ben altra, purtroppo: una massa d’individui che s’arrabattano tra lavoretti e “contratti”, e un’élite di “manager” e “dirigenti” satolli fino agli occhi. D’altra parte il “pericolo” di un “ceto medio” per Lorsignori è chiarissimo, perché su quello si regge una comunità nazionale sana e robusta, e per questo sono impegnati anima e corpo nel massacrarlo senza pietà taglieggiandolo in ogni modo e studiando sempre nuovi sistemi per rendergli la vita complicata.
Che dire inoltre della diffusione a pioggia di ipermercati, quasi tutti di catene straniere? È il modello del “mall”, quegli orribili agglomerati di negozi, ovunque tutti uguali, con la stessa merce, e “in franchising” perché le piccole attività a gestione familiare devono chiudere bottega (l’obiettivo è trasformare tutti in “dipendenti” di pochi enormi gruppi). All’ipermercato si va obbligatoriamente in macchina, perché c’è tanta, tanta merce con cui riempirsi il carrello. Addirittura è la viabilità stessa delle città ad essere modificata in funzione della presenza di questi “templi del consumismo”, e anche le feste comandate devono inchinarsi alla religione dell’acquisto compulsivo, dove il “libro sacro” viene sostituito dal depliant recapitato di continuo nella cassetta della posta (da un “multietnico” sfruttato per pochi soldi). E dove sono sorti per primi questi “centri commerciali”? In America, dove stanno aperti “24 ore su 24”, il che ci indica la fine che faranno anche qua i loro schiav... ops, volevo dire dipendenti. Facevo giusto caso al fatto che ultimamente, con il cosiddetto “governo tecnico” (leggasi: quello che deve fare il “lavoro sporco”), si è fatto un gran parlare di “liberalizzazione degli orari d’apertura”, e d’un tratto tutti i supermercati, anche quelli piccoli, e compresi i “discount” (altra trovata americana per i “poveracci”), è stato istituito il “sempre aperto fino alle 21”, oppure quella giornata infrasettimanale in cui il locale era chiuso al pubblico adesso è stata ridotta a mezza giornata.
Non parliamo poi della diffusione capillare del gioco d'azzardo. Fino alla svolta epocale verificatasi nei primi anni Novanta, si contavano - e per i miei gusti erano già troppi – estrazioni del Lotto, Superenalotto, Totip, Totocalcio e qualche lotteria. Dagli anni Novanta s’è rotto ogni freno inibitorio: lotterie ogni mese, sale bingo al posto della tombolata in famiglia, gratta e vinci dal tabaccaio, sale scommesse su tutto e tutti che, se prima erano mezze nascoste, frequentate solo da individui patologici, adesso si vorrebbe spacciare per luoghi in cui trascorrere un allegra giornata all’insegna dell’ipocrita “gioca poco e gioca sicuro”. E non è forse l’americana Las Vegas la città simbolo del gioco d’azzardo? Tremo al solo pensiero che anche qua vogliano costruire un obbrobrio simile...
Il cinema, poi, da passatempo ameno per famiglie, coppiette, militari in libera uscita e intellettualoidi che si fracassano le meningi con film bulgari con sottotitoli in cirillico, s’è trasformato in un tempio dell’immaginario: i “multisala” che proiettano pellicole in cui il contenuto svanisce di fronte alle “emozioni” (occhiali tridimensionali, suono assordante ecc.) sono dei complessi integrati in cui si va ad istupidirsi dell’altro, come se tutto il resto non bastasse, mentre ci s’ingozza con secchiate di “popcorn”.
Sono riusciti addirittura a modificare anche i gusti per le automobili. Fatta salva la follia dell’abuso dell’auto, dall’utilitaria, o la sportiva, o, per chi ne aveva l’esigenza, la “familiare”, si è passati al “suv”, il simbolo dell’arroganza e della protervia di chi per il solo fatto di spaparanzarsi su un “macchinone” crede di avere sempre “ragione” sentendosi in diritto di sfracellare impunemente il malcapitato di turno che non s’è ancora dotato di un ‘gippone’ che non ha alcun senso su strade che non sono quelle dritte, larghe e desolate dei film americani “on the road”. Tra parentesi, anche l’ossessione sui “limiti di velocità” (autovelox, “patente a punti”ecc.), oltre che a fare “cassa”, serve a ridurre il cittadino in uno stato di servaggio che in ogni momento lo può mandare rovinato, come se si trattasse di un “criminale”.
Un campo in cui la trasformazione è stata evidentissima a partire dai primi anni Novanta è poi quello militare. A cosa è servito abolire la “leva”? Apparentemente ad eliminare un “anacronismo”, per molti vissuto come una vera seccatura. Ma in realtà la “riforma” delle Forze Armate serviva a chi aveva tutto l’interesse a mandare in giro per il mondo delle ‘truppe cammellate’ con la scusa delle “missioni di pace”, che un po’ alla volta – esauritasi la patetica finzione - si sono trasformate in partecipazione entusiastica e convinta alle guerre della Nato. Ne vedremo delle belle, in Siria e Libano. Non c’è bisogno di essere un fine “geopolitico” per capire che un miliardo di euro l’anno per presidiare una regione dell’Afghanistan, in attesa di chissà quale condizione affinché si debba far ritorno a casa, non ha alcun senso se non quello di alleggerire le spese allo Zio Sam, che da solo non ce la fa più a stare dietro a tutti i fronti che ha aperto con la cosiddetta “guerra al terrorismo”. Ed ora pensiamo a qual è la situazione negli Stati Uniti… esiste la coscrizione obbligatoria? Certo che no, perché lì quella del “militare” è una professione, e lo stesso dev’essere qua, salvo poi coinvolgere emotivamente “la nazione” ogni volta che qualcuno ci lascia le penne, come se si trattasse di un povero ragazzo strappato a forza dalle braccia della mamma, mentre invece trattasi di persone che sanno benissimo cosa vanno a fare e a quali rischi vanno incontro. Non per questo non si deve provare umana pietà per chi muore (e magari qualche volta, anche per le vittime locali…), ma la grande questione inevasa è: che cosa diavolo ci stiamo a fare, con mezzi e uomini in armi, ai quattro angoli del pianeta? Quando senti dire che “c’è la crisi” e allegramente si spendono cifre da capogiro per presidiare, ufficialmente, un ’fortino’ o un ‘ospedale’, c’è qualcosa che non torna.
Ma veniamo ad un altro “piatto forte”… La scuola pubblica è in uno stato comatoso. Ovvio che chi può evita di mandarci i figli a perdere tempo. In una logica ineluttabile, finisce così che nelle scuole un tempo fiore all’occhiello dell’educazione nazionale finiscono solo i figli degli sfigati, in classi “multietniche” dove sarà già un successo se alla fine della quinta elementare si sarà appreso almeno a leggere e scrivere. Il fenomeno dei “bulletti” va di pari passo con il degrado sociale, così anche nelle scuole, in specie nelle “professionali”, tra non molto i docenti dovranno entrare armati se vorranno essere rispettati. Ai rampolli della società “bene”, invece, si apriranno le porte di università che costeranno cifre sbalorditive, e un primo assaggio di questo “elitismo” crasso e volgare lo si ebbe, nei primi anni Novanta, con l’innalzamento da 300.000 lire per tutti (fatti salvi gli esoneri “per merito” e per i “meno abbienti”) alle odierne cifre proibitive, con la scusa degli “scaglioni di reddito”, sbandierati dai soliti “paladini della gente”. Tutta una cinematografia per ragazzi, ambientata nei vari “college”, ha fatto il resto, alimentando il pregiudizio per cui la nostra fosse un’educazione “noiosa” mentre in America è tutto un “divertimento”, compreso l’immancabile momento in cui il belloccio di turno fa il cascamorto con una “ragazza pon pon” davanti agli armadietti del corridoio.
La scuola è effettivamente un osservatorio privilegiato per giudicare il livello di degrado dell’Italia odierna. Si tratta infatti di un microcosmo in cui sono compendiati tutti i difetti dell’attuale società, composta di individui smaniosi di “modernizzarsi”. Se a scuola si hanno “debiti”, e non più “insufficienze”, logico che ci si prepari ad un futuro da indebitati perennemente.
Gli americani sono in effetti un popolo di schiavi delle banche. Le prime “carte di credito” non sono forse arrivate dall’America? E a cosa sono servite, quelle e le “vendite a rate”, esplose dagli anni Novanta di pari passo con la diffusione degli ipermercati con annesso mega-parcheggio? Il risultato è che anche le nostre città, ormai, ad ogni angolo hanno “sportelli bancari” e filiali di “finanziarie” che con una retorica bugiarda inneggiano, nei loro cartelloni, ad “affidarsi” a loro per “coronare i tuoi sogni”, dare “solidità al tuo futuro”. Lo stesso dicasi per il dominio sempre più incontrastato delle “assicurazioni”. In America ti devi “assicurare” su tutto, e non è infatti casuale il fatto che, nei film polizieschi, ci scappi il morto perché un parente spera di intascare il “premio dell’assicurazione”. Non hai la polizza? Non vieni curato: ed è il destino che attende anche noialtri, se non ci si rende conto di che cosa nascondono gli assalti “moralizzatori” contro la “sanità” di questa o quella Regione o certe trasmissioni “di denuncia” che, mostrando anche degli oggettivi sprechi e disservizi, veicolano l’idea che “pubblico” è sinonimo di “marcio”, con l’unica alternativa, pronta come i canini del vampiro, che resta quella della “sanità privata”, mentre i “poveracci” senza polizza verranno ammassati in qualche ‘lazzaretto’. Il tutto si nutre dell’insicurezza insita in chi non si “affida” più al suo Creatore – ciò dev’esser chiaro – ma siccome la fede non la si può dare per legge, che almeno si comprenda che l’abuso delle “assicurazioni” fa leva su una “insicurezza” agitata ad arte ed instillata in tutti noi attraverso un apparato comunicazionale ed “educativo”, nonché, esistenzialmente, tramite un “modo di vita” che rende di fatto “precaria” l’esistenza in quegli aspetti che almeno gli esperimenti “socialisti” avevano avuto il merito di organizzare in maniera più consona alla dignità umana. Uno spazzino è sempre uno spazzino, anche se lo chiami “operatore ecologico”, ma di sicuro preferirà un posto sicuro, comunale, piuttosto che un degradante incarico nell’organico di qualche “cooperativa di servizi”.
L’industria della pubblicità, ovvero l’arte di presentare le cose per come non sono, opera ad un livello di sofisticazione mai visto prima, in maniera onnipervasiva ad un punto tale che senza “raccolta pubblicitaria” nessuna trasmissione televisiva merita più di essere proposta ad un pubblico progressivamente istupiditosi a livelli preoccupanti. Il film di prima serata non prevedeva alcuna interruzione: poi, un giorno, dissero che tra primo e secondo tempo c’era da sopportare un po’ di pubblicità, e da quel momento, sulla spinta di “tv commerciali” che se proprio dobbiamo sopportare la televisione sarebbe meglio non esistessero, è stato un bombardamento di reclame a tutte le ore, e in tutti i modi, dalle sovraimpressioni ai “bip”, compresa la trasformazione di artisti in “piazzisti” nel più deprimente stile delle “televendite” introdotte sempre dai suddetti canali privati. Quando la pubblicità invade ogni angolo di strada, viene appiccicata dappertutto e uno sportivo viene ridotto ad un’insegna deambulante si ha l’impressione, non lontana dal vero, che tutto ruoti intorno al celebre “produci, consuma, crepa”. Ricordo bene le magliette delle squadre di calcio italiane, ancora senza pubblicità, mentre quelle dei paesi più “avanzati” erano già sponsorizzate, per tacere di quelle del “soccer” lanciato in America, più adatte al carnevale che ad un’attività intrisa ancora di alcuni “valori” qual era lo sport, prima che anch’esso si riducesse ad una passerella di “vip” sempre più bizzosi e adusi ai “colpi di testa” tipici delle “star” del cinema. Si pensi alla serietà di uno Zoff, di uno Scirea (che sembravano “vecchi” quando erano giovani!), e la si confronti con la sbruffoneria di queste sottospecie di gladiatori tutti tatuati, il cui principale motivo di celebrità sono i contratti milionari e le “veline” che riescono ad abbordare.
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