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Alain de Benoist: “Sull’orlo del Baratro” fioriscano i boccioli d’Europa

di Francesco Marotta - 25/05/2012

Fonte: destra

Il nulla raffigura anche la negazione dell’intendere la politica. La Destra è sempre più incapace di prendersi il futuro, omologata all’immancabile nostalgia demolitrice e la Sinistra rimane in balia delle smanie da collettivo eccelso. L’Europa è a un bivio, dinanzi un baratro creatosi grazie all’incedere di una crisi senza fine.
Alain de Benoist è un battitore libero, vede chiaro. Nel suo ultimo libro “Sull’orlo del baratro” riscopre l’amore improvviso per l’aritmetica illustrando una sequela di percentuali agghiaccianti e pone una domanda: la globalizzazione di forgia liberale, neoliberale rappresenta la libertà dei popoli?
Questione complessa. Soffermarsi a lungo sulle cause, senza sforzarsi di individuare una via di uscita non impossibile da raggiungere, può risultare un facile alibi, sviante. Nell’introduzione del saggio del pensatore francese, Eduardo Zarelli e Massimo Fini mettono in evidenza il percorso e le dicotomie della società della crescita, oggi in netto declino. Quell’alone di materialismo, intrinseco nell’apparato di una forma definita moderna, tormentata dall’individualismo, priva di esigenze politicamente corrette di identità e di luogo.
Come avverte De Benoist, Il periodo non è dei migliori e l’incedere di una società a clessidra, dove l’inclinazione e i depositi di ricchezza si accumulano solo nella parte alta degli scalini sociali, provocandone una strozzatura man mano che la sabbia raggiunge i gradini più bassi, non permette margini di errore.
È un dato di fatto, quanto l’impoverimento del ceto medio. Sono lontani gli anni in cui la classe media godeva di un netto progredire del proprio tenore di vita, non paragonabile ad un presente dove riuscire a fronteggiare una decrescita vertiginosa è sempre più difficile.
Dagli anni Ottanta in poi i vincoli di spesa s’ingrandiscono velocemente in relazione ai redditi. Una conseguenza del turbo-capitalismo, dei capitani di sventura, specchi dell’evoluzione del neoliberismo, delle élites delle borse e dell’azionariato in mano agli oligopoli delle multinazionali, dell’esclusività accentratrice della Forma-Capitale finanziaria e del conseguente allargamento della sua opera, dovuta alle delocalizzazioni dell’impresa, tale da peggiorare ineluttabilmente il salario dei dipendenti autoctoni, permettere licenziamenti coatti, trasferendo la produttività verso i Paesi emergenti a costo zero, impiegando costantemente un numero minore di uomini in suolo patrio e determinando l’indebolimento dell’occupazione.
Ecco l’anticamera della precarietà del lavoro e della compressione dei salari e il successivo depauperamento delle classi medie e povere, assoggettate dall’indebitamento, nell’unica speranza di riuscire a preservare un tenore di vita. Stretto dalla morsa del sistema mercato-merce, l’insorgere di una crisi strutturale di questa portata, concomitante alla crisi ipotecaria americana, accondiscende all’insana conseguenza diretta del sistema mondialista, associato all’insieme d’idea/e del mondo e della sua realizzazione.

Dal fondo del baratro fuoriescono esalazioni globali: laddove la globalizzazione rende fluido un pensiero incentrato sull’annullamento degli spazi e dei loro confini, delle merci e della produttività prive di territorialità definita, ad un attento esploratore dei mari in tempesta, risulta facile scorgere la finanziarizzazione del capitale distaccato dall’economia reale.
Da qui una deriva senza esclusioni di colpi che porta, inaspettatamente, a due dicotomie specifiche: La prima, il libero scambio su cui si basa la dottrina del level playing field — campo da gioco livellato —, intesa secondo le rigide del mercato globale come l’annullamento di tutte le barriere per la libera circolazione del mercato, inclusa l’abolizione delle regole.
In alternativa, come sostiene Maurice Allais, premio Nobel per l’Economia nel 1988, la liberalizzazione degli scambi del capitale e delle merci possibile solo grazie alla regionalizzazione di Paesi politicamente ed economicamente associati, socialmente e organicamente comparabili. In pratica, la dove vi è un’autentica coscienza di identità strutturale. Dove le liberalizzazioni mondiali, archetipi di un mare in burrasca quale il Mediterraneo, non giungerebbero mai ad intaccare le fondamenta di un apparato-Regione: ordinato, solido, in cui sia quasi impossibile la diffusione della dottrina level playing field.
Ecco allora sopraggiunge un amaro risveglio, sopra un braciere ardente dall’appellativo Europa, dalle tre velocità di un’Italia attonita. L’UE e la politica dei singoli stati non hanno certo apportato una miglioria significativa alla costruzione di un’Europa Unita. Davvero unita.
Giungono soluzioni valide? Una fra tutte, il reddito di cittadinanza. Potrebbe essere una delle soluzioni. Pur considerandone le diverse difficoltà nell’attuazione, a posteriori, se offerto congiuntamente in un’ottica di un organismo politeico, semplificherebbe la distribuzione dei compiti regionali, nazionali e provinciali, secondo le proprie capacità, mediante l’equa ridistribuzione di un reddito garantito. Secondo Yoland Bresson,economista francese sostenitore del reddito di esistenza «la crescita non crea più occupazione, perché gli effetti positivi che esercitava un tempo in questo campo sono ormai annullati dai continui incrementi di produttività. I governi che si sono succeduti in questi ultimi decenni, tuttavia, hanno continuato a trattare la disoccupazione come un incidente passeggero, che era bene integrare in attesa del ritorno del pieno impiego».
Produttività sfruttata quasi in ogni settore in modo magistrale dai fiancheggiatori dell’incremento a breve termine. L’imperativo pare essere la riduzione dei salari e l’incremento della manodopera straniera. Dogma — è interessante ricordarlo — che non ha attecchito nella terra del Sol Levante: il Giappone inversamente alle indicazioni di mercato ha fatto rincorso ad una politica di rigetto dell’immigrazione ad appannaggio dell’operosità locale. Il risultato? L’accrescimento tecnologico prima dei suoi rivali occidentali.
Nell’era degli aiuti socio-economici e dei titolari di patenti della socializzazione di puro cashmere, la logica di un reddito base garantito, non influenzato da nessuna limitazione da ipotetici sussidi sociali, non è solo una semplice prospettiva avvincente.
Si apre uno scenario che non ha nulla a cui vedere con le grandi crisi del passato in quanto strutturale. Un futuro pressante congiunto al crollo del sistema Denaro, capace di indignazioni poco spontanee e soluzioni poco congenite. L’intensificazione del processo di crollo dell’attuale società al di sopra di un’economia tangibile, potrà dunque essere un nuovo inizio in un’era di decadimento dei dogmi pre-impostati ?
L’insanabile congiuntura non esula dalla presa di coscienza di ciò che realmente accade. Partendo dall’esistenza della Forma Capitale e della società di mercato poste su di un piedistallo economico finanziario, del liberalismo capace di condizionare l’assetto politico e dell’individualismo contemplativo, sapere dove si è e cosa si è, rappresenta un inizio. Chiamiamola coscienza. Realmente libera, dal falso altruismo incapace di tradurla in praticità non astratta, priva dell’illusione di un nuovo sequel anti-protezionista; attualmente rinnovato e di gran moda nei salotti dei lumi dell’internazionalizzazione.
Uno scenario ampio, colmo di inconvertibili ordinanze, espressione di un modello duraturo. Il libero scambio, alto tasso d’interesse.

SULL’ORLO DEL BARATRO
Di Alain De Benoist
Arianna Editrice
Ppgg 182 – euro 9,80