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Il fallimento del sistema denaro: una opportunità?

di Eduardo Zarelli - 21/06/2012

 

 

 

«Un uomo stava camminando nella foresta quando s’imbattè in una tigre. Fatto dietro-front

 precipitosamente, si mise a correre inseguito dalla belva. Giunse sull'orlo di un precipizio,

ma per fortuna trovò  un ramo sporgente di un albero a cui aggrapparsi. Guardò in basso,

 e stava per lasciarsi cadere, quando vide sotto di sé un'altra tigre. Come se non bastasse,

arrivarono due grossi topi, l'uno bianco e l'altro nero, che cominciarono a rodere il ramo.

Ancora poco e il ramo sarebbe precipitato. Fu allora che l'uomo scorse una fragola matura.

Tenendosi con una sola mano la colse e la mangiò. Com'era buona!».

 

Koan Zen

 

 

Un tempo si diceva che il battito d’ali di una farfalla in Polinesia poteva provocare una catastrofe nell’emisfero opposto. Era una classica iperbole della complessità, per esprimere il concetto che l’ecosistema Terra è integrato e ogni sua componente è interdipendente. Nel sistema mondo capitalista, l’iperbole si è realizzata patologicamente in economia, attraverso il denaro che, essendo virtuale, non conosce i limiti del contesto fisico ambientale. Enormi masse di denaro si spostano ogni giorno, ogni ora, ogni minuto da una parte all’altra del mondo senza trovare ostacoli. In un mondo integrato e globale, la spregiudicatezza locale nell’elargizione di mutui ipotecari – per restare alla nostra metafora – può avere conseguenze devastanti in ogni angolo del Pianeta.

Quella in corso, tuttavia, è solo la più recente e ampia versione di una crisi strutturale, che sussegue ad altre degli ultimi anni montando con irreversibile compulsione: bancarotta del Messico nel 1996, tracollo delle "piccole tigri" asiatiche nel 1997, "subprime" americani nel 2008; quindi è rimbalzata in Europa, provocando il default dell’Irlanda e della Grecia, poi, come un’onda di ritorno, ha colpito di nuovo gli Stati Uniti, mentre in Europa le defaillance irlandese e greca hanno intaccato il Portogallo e la Spagna, e hanno aggredito l’Italia e oggi, probabilmente, tutto il vecchio continente. Una crisi, insomma, che non può essere governata, perché segna il punto d’arrivo di un modello di sviluppo basato sulle crescite esponenziali. In tal senso, come si fa ad uscire dalla economia debitoria – leggi “finanziarizzazione dell'economia” – senza uscire anche dall'economia della crescita? La crisi non si limita ai comportamenti criminali di un manipolo di speculatori; le sue cause strutturali, sistemiche, sono da individuare in una crescita smisurata e nel conseguente ricorso a vari tipi di indebitamento: finanziario (derivati, obbligazioni, titoli azionari mobilitati per un valore totale otto volte superiore al PIL reale), monetario (il denaro emesso è dodici volte il PIL mondiale), pubblico (sia quello contratto dai vari Stati con altri Stati, sia quello verso i propri cittadini-risparmiatori), privato (crediti al consumo, carte di credito ecc.).

Via gli speculatori, quindi? Certo, ma di fatto non ci sarebbero grossi cambiamenti, perché anche l'azienda presso cui andiamo a lavorare, l'amministrazione comunale del posto in cui abitiamo, la locale azienda sanitaria, il fondo che gestisce la nostra pensione, la banca emettitrice del nostro bancomat e l'agenzia di Stato che versa il sussidio di disoccupazione al nostro vicino cassaintegrato sono da tempo, in un modo o nell'altro, indebitati. Tutti avevano fatto conto ("aspettativa", si dice in economia) di riuscire in futuro a guadagnare – facendo profitti, riscuotendo tasse, realizzando interessi, vendendo immobili e "cartolarizzando" il Colosseo... – più di quanto avevano ricevuto in prestito. Credevano, cioè, nella chimera di una crescita economica esponenziale e senza fine. Un calcolo tragicamente sbagliato. Da tempo – dieci, venti anni, e c’è chi dice trenta – le economie occidentali sono in crisi di realizzo, il loro tessuto produttivo non è più in grado di riprodurre guadagni tali da riuscire a mantenere gli standard dei consumi privati e pubblici. Per mascherare questo fallimento e allontanare il declino, le hanno tentate tutte: la leva finanziaria, i titoli tossici, il signoraggio del dollaro, oltre, ovviamente, al vecchio trucco di stampare carta moneta. Niente: nonostante le continue invocazioni e i lauti sacrifici umani, la "santa crescita" non arriva, e non arriverà mai più, almeno per chi è da questa parte del mondo.

I debiti nelle economie industriali mature, a partire dagli Stati Uniti (il Paese maggiormente debitore, al mondo) hanno cominciato a crescere già a cavallo degli anni '70 e '80 del secolo scorso. L'immissione di crediti si è resa necessaria, perché si erano inceppati i normali meccanismi di profitto-accumulazione-investimenti-riproduzione fino a quel momento garantiti dai tradizionali cicli economici produttivi industriali. L'idrovora dell'espansione, dello sviluppo e della crescita è insaziabile. L'intensificarsi delle crisi (non solo finanziarie) rende sempre più stringente il dilemma: continuare a inseguire il benessere attraverso la crescita dei beni e dei servizi immessi sul mercato, pur sapendo che i costi ambientali e sociali per la maggior parte delle popolazioni della Terra superano di gran lunga i benefici, oppure cambiare rotta usando strumenti di riferimento diversi dal dettato economicista? Non è il caso di cominciare a domandarci se non sia una solenne sciocchezza pensare soltanto agli aumenti del PIL? O, addirittura, se non ce la faremmo lo stesso a cavarcela – e magari anche meglio – con una "economia in contrazione", cioè producendo, comprando e vendendo non molto di più di quanto ci è necessario per vivere? Un’economia "stazionaria", come la virtuosa ciclicità naturale insegna.

La parola "crisi" in cinese, composta nei suoi ideogrammi, può essere interpretata abbinando il concetto di "crisi" con quello di "opportunità". Si può quindi uscire dall'economia del debito (cioè da quell’economia che pone gli interessi del capitale al di sopra di quelli del lavoro e della vita stessa delle persone e dell'ecosistema terrestre) e da tutto ciò che ne deriva. È questo, il vero recinto di pensiero da cui nessuno riesce a uscire. Le vecchie ricette keynesiane non hanno realmente più margini di applicazione, in una crisi strutturale di queste dimensioni e di questa qualità. È ormai chiaro che le risposte possono venire solo uscendo dalle regole e dai dogmi del mercato. Dovremmo pensare a un altro tipo di ricchezza, a un altro tipo di benessere, a un altro modo di lavorare e a un altro modo di relazionarsi, tra le persone, che non sia quello che passa attraverso il portafogli.

In tal senso, diventa realistico parlare di post-crescita, se si indica la necessità è l’urgenza di un’inversione di tendenza rispetto al modello dominante dello sviluppo e della crescita illimitati.

La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: dispensa un benessere materialistico illusorio, incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie e non offre un tipo di vita filosoficamente o religiosamente giusto, conviviale e comunitario. È una "antisocietà", malata di ansia di ricchezza, di egoismo e di utilitarismo. Il miglioramento del tenore di vita, di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei Paesi "sviluppati" è un'illusione; indubbiamente, molti possono spendere di più per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare una serie di costi aggiuntivi in forme diverse, non sempre monetizzabili, legate al degrado – non quantificabile, ma subìto – della qualità della vita (aria, acqua, ambiente): ad esempio, le spese di "compensazione" e di riparazione (farmaci, trasporti, intrattenimento) imposte dalla vita moderna o determinate dall'aumento dei prezzi di generi divenuti rari (l'acqua in bottiglie, l'energia, il verde...). Lo stesso criterio di “qualità della vita”, disponendo come principio essenziale, per una fattiva controtendenza, il reincantamento del mondo su principi certi inerenti alla sacralità del vivente e l’irriducibilità della condizione esistenziale dell’uomo come parte consapevole del cosmo, è oramai ostaggio del nichilismo individualista, che affoga nell’inautenticità della mercificazione universale. Un’inversione di tendenza si rende quindi necessaria, per il semplice motivo che l'attuale modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto e incompatibile con gli equilibri omeostatici della natura: esso porta con sé, sulla scia dei Paesi ricchi, perdita di autonomia, alienazione, nichilismo pragmatista, aumento delle disuguaglianze sociali e dell'insicurezza personale e comunitaria.

Occorre allora tracciare un percorso che ci conduca verso un nuovo immaginario, un paradigma alternativo, un’originale prospettiva meta politica. È questo, l'orizzonte di un'altra economia, giusta e sostenibile, cioè comunitaria; è questo, il sostrato materiale di un principio universale di giustizia internazionale: l'autodeterminazione dei popoli.

In senso generale, se in ogni luogo c’è un centro del mondo possibile, è necessario che gli uomini tornino a essere abitanti del loro territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica e spirituale della loro sopravvivenza, dal momento che è oramai minacciata nella sua stessa sostanza dai meccanismi razionalistici, che si insinuano a livello cellulare fino al fondamento stesso del vivente. In questo orizzonte, l’esigenza identitaria va politicamente reinterpretata come energia costruttiva per la crescita della coscienza del luogo e per l’affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali – territoriali, cioè ambientali e quindi produttive e sostenibili – e su reti di scambio complementari e reciprocitarie, invece che gerarchiche, fra entità locali. Il principio di sussidiarietà deve partire dall’entità fondamentale della comunità naturale (la famiglia) e delegare alle entità superiori solo ciò che non è assolvibile dal livello fondamentale, autonomo e libero, e quindi coeso e comunitariamente partecipe dell’organismo complessivo. Allora l’uomo si sentirà parte di una comunità, protetto, e quindi avrà verso di essa un comportamento sobrio, responsabile e consapevole.

Si vede subito, quali sono i valori prioritari da far prevalere su quelli oggi dominanti: la sacralità del vivente sulla mercificazione; l'altruismo sull'egoismo; la reciprocità sulla competizione; il piacere ludico e relazionale sull'ossessione del lavoro; l'importanza della vita sociale sul consumo; il gusto del bello, del bene e del vero sull'efficientismo pragmatico. Il problema è che i valori utilitaristici attualmente dominanti sono pervasivi, perché suscitati e stimolati dal sistema, che essi stessi, a loro volta, contribuiscono a rafforzare. La scelta di un'etica personale diversa, come quella della sobrietà volontaria, può incidere sull'attuale tendenza e minare alla base l'immaginario del sistema. Senza una sua contestualizzazione partecipativa, però, il cambiamento rischia di rimanere limitato al livello della coscienza individuale. È necessario un nuovo paradigma, che mostri in modo persuasivo l’indispensabilità di un mutamento epocale sul piano reale: culturale, sociale ed economico. Costruendo delle identità comunitarie tese al bene comune e alla ciclicità della natura, si può uscire dall'artificio vettoriale e suicida della modernità.

 

(prefazione al volume Sull'orlo del baratro di Alain de Benoist, Arianna editrice)