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Lo splendido non-ti-scordar-di-me dell’isola Chatham minacciato da pecore e maiali

di Francesco Lamendola - 17/07/2012


File:Mysotidium.jpg


 

Le isole oceaniche ospitano degli ecosistemi dai caratteri particolarissimi, unici al mondo; in pratica, ciascuna di esse dovrebbe essere considerata come un santuario della natura meritevole della più attenta e gelosa salvaguardia.

Le piante e gli animali di un’isola oceanica differiscono, a volte notevolmente, da quelli esistenti nella più vicina terraferma; essa è come un piccolo mondo a sé, nel quale la flora e la fauna si sono organizzate secondo modalità differenti, perché la barriera costituita da vaste distese di mare aperto ha impedito che vi giungessero le specie di animali più grandi e, quindi, ha consentito che le forme viventi prosperassero libere dai predatori di primo grado. Di conseguenza, tutto il sistema ecologico si è strutturato secondo modalità peculiari, con il risultato che si sono diffuse piante altrove scomparse, mentre non vi sono giunte, forse, piante altrove comunissime; e anche gli animali inferiori hanno conosciuto una dinamica analoga.

Gli evoluzionisti sostengono che nelle isole oceaniche le specie viventi hanno potuto svilupparsi in maniera particolare, il che spiegherebbe la diffusa presenza di “fossili viventi”; ma il concetto di “fossile vivente” è intrinsecamente ambiguo, per non dire contraddittorio, senza contare che tutta la teoria evoluzionista è, appunto, sempre e soltanto una teoria, che non è stata definitivamente dimostrata e che, anzi, tende a perdere terreno, mano a mano che i rinvenimenti paleontologici mostrano la difficoltà di individuare i supposti “anelli mancanti” (cfr. il nostro precedente articolo «I fossili viventi non sono una prova, ma certo un indizio contro l’evoluzionismo», apparso in data 27/04/2012 sul sito di Arianna Editrice).

Sia come sia, evoluzionismo o no, i sistemi ecologici delle isole oceaniche rappresentano degli straordinari laboratori naturalistici, nei quali, a causa della difficoltà di arrivo di nuove specie immigrate, le nicchie ecologiche si dispongono in maniera diversa da quel che accade sui continenti: ad esempio, la mancanza di mammiferi predatori rende superfluo il volo degli uccelli, che possono procurarsi il cibo anche semplicemente camminando sul terreno. Ecco perché le isole oceaniche, perfino quelle di grandi dimensioni, come il Madagascar o la Nuova Zelanda, sono o sono state il paradiso degli uccelli non volatori, alcuni dei quali di dimensioni particolarmente grandi.

Tuttavia, proprio a causa del loro isolamento e della peculiarità dei loro ecosistemi, le isole oceaniche sono anche fragilissime riguardo all’arrivo di nuovi immigrati, magari introdotti  dall’uomo in modo involontario; topi e capre, in particolare, si sono rivelati addirittura micidiali, i primi divorando le uova degli uccelli, le seconde arrampicandosi fin nei recessi più scoscesi per brucare le piante, magari rarissime o uniche al mondo, fino a trasformare intere foreste in sterpaglie desolate o in veri e propri deserti.

Anche le pecore hanno causato gravissimi danni, per non parlare dei maiali, talvolta rinselvatichiti; questi, in particolare, rivoltando le zolle alla ricerca di tuberi, hanno inferto dei colpi mortali alla vegetazione endemica di alcune isole oceaniche; e danni ancor più gravi sono stati provocati dai conigli, anche per la loro straordinaria e incontrollabile prolificità.

Può accadere, pertanto, che l’uomo infligga danni irreparabili alla flora e alla fauna di un’isola oceanica, pur senza prendervi stabile dimora (il che, dal punto di vista naturalistico, è decisamente il caso più fortunato). Un caso esemplare è offerto dal non-ti-scordar-di-me dell’Isola Chataham, il bellissimo “Myosotidium hortensia”, dai fiori di un delicato colore turchino.

Le Isole Chatham sono un arcipelago situato nel Pacifico meridionale, circa 770 km. ad est di Christchurch, nella Nuova Zelanda; esso è formato da 10 isole, due sole delle quali, Pitt e Chatham, abitate dall’uomo: la prima ospita appena 50 persone, la seconda 700. Sono lembi di terra solitari, selvaggi, caratterizzato da dirupi rocciosi, lagune, torbiere, picchi vulcanici, che un tempo erano la patria della misteriosa popolazione polinesiana dei Moriori, nella cui lingua le isole si chiamavano Rekohu, cioè «del sole brumoso».

Scoperte nel 1791 dal capitano inglese Broughton, che ebbe subito uno scontro con gli indigeni, divennero un punto d’appoggio per i cacciatori di balene britannici e nordamericani che dirigevano audacemente i loro velieri verso la banchisa antartica. Già in questa fase l’equilibrio ecologico dell’isola ricevette una rude scossa, perché i nuovi venuti introdussero, sia volontariamente che no, animali destinati a provocare seri danni alla vegetazione, specialmente il topo e la pecora, che sono tuttora i suoi nemici più pericolosi.

Nel 1835 una tribù maori, quella degli Ngati-awa, sbarcò nelle isole sotto la guida del capo Pomaré e sottomise brutalmente i Moriori, molti dei quali vennero uccisi e divorati nel corso di orrendi festini cannibaleschi: una pagina di storia che i terzomondisti non amano ricordare, perché sfata nel modo più impietoso il mito del “buon selvaggio” di ascendenza illuminista, come pure l’altro mito che vorrebbe sempre e solo gli Europei quali responsabili di tutti i mali che colpirono le popolazioni indigene nel corso della storia moderna.

Sta di fatto che gli sventurati Moriori scesero da circa 2.000 unità, quanti si calcola che fossero verso la fine del XVIII secolo, ad appena un centinaio nel 1860, ulteriormente ridotti ad appena una dozzina all’inizio del XX secolo (senza contare i sanguemisti). Oggi essi sono completamente scomparsi, così come è purtroppo accaduto ad altre popolazioni isolane del Pacifico meridionale, ad esempio ai Tasmaniani o agli indigeni dell’Isola di Pasqua.

Il destino dei primitivi abitanti umani può dare un’idea di quello che si verificò per gli altri abitanti delle Isole Chatham, colà presenti fin da prima degli stessi Moriori: le piante e gli animali, i quali, superando le immense distese d’acqua, con l’aiuto dei forti venti prevalenti dell’ovest, avevano popolato l’arcipelago nel corso del tempo, trovandovi il loro habitat ideale.

Ma torniamo al non-ti-scordar-di-me. Così delineavano la situazione di questa bellissima pianta fiorita, più di vent’anni or sono, il biologo Harold Koopowitz e il giornalista scientifico Hilary Kaye nella loro pregevole monografia «Piante in estinzione. Una crisi mondiale» (titolo originale: «Plant Extinction: a Global Crisi», Washington D. C., Stone Wall Press, 1985; traduzione dall’inglese di Francesco Corbetta, Bologna, Edagricole, 1985, p. 166):

 

«Nella zona temperata del Pacifico meridionale, ben nascoste a circa 700 km. al largo della costa della Nuova Zelanda,  ed in direzione della città di Christchurch, vi sono le isole Chatham. Su questo gruppetto di isole vivono circa 600 persone.  La più grande è l’isola omonima, Chtaham, di 90.000 ettari. Questo remoto gruppo di isole ha visto almeno tre invasioni. La prima, approssimativamente 1.000 anni fa, fu ad opera dei Morioris, una popolazione della Polinesia orientale che conduce esistenza nomade andando a caccia per procurarsi il cibo. La seconda invasione avvenne da parte degli Inglesi e si verificò nel tardo ‘700. I contatti con l’Uomo bianco decimò i Morioris. Meno di cento anni più tardi i Maori della Nuova Zelanda invasero essi le isole e fecero schiavi i pochi Morioris sopravvissuti. La popolazione era diminuita da 2.000 unità a 100 individui nel 1862.  L’ultimo esponente di questa popolazione morì nel 1933. Anche le piante dell’isola ebbero scarso successo durante le varie invasioni.

“Myosotidium hortensia”, il Non ti scordar di me dell’isola Chatham, è una pianta assai spettacolare ed è largamente coltivata in Nuova Zelanda e ben conosciuta dai giardinieri in altri climi temperati. Ogni pianta produce una rosetta di foglie tutte ondulate e a base cordata, che sono di un colore verde brillante ed assai lucide. Nella stagione adatta la pianta produce grandi infiorescenze di fiori bluetti assai simili ai non ti scordar di me. Queste piante amano il mare e crescono su dune sabbiose  e talvolta anche su coste rocciose esposte talvolta anche agli spruzzi di acqua salata  dove come fonte di nutrimento non dispongono che delle alghe marine  in decomposizione o di depositi naturali torbosi. Le prime descrizioni di queste isole facevano cenno  di estese superfici ricoperte dai blu di “Myosotidium” che orlavano la linea di spiaggia.  Anche alla metà del nostro secolo la popolazione citava la presenza di estese superfici ricoperte da queste meravigliose piante. Una persona  che attualmente girovaghi per gli oceani non ha alcuna possibilità  di poter ammirare queste copiose fioriture  perché al giorno d’oggi esse sono ormai rare.

Pecore e maiali pascolando lungo le spiagge sono gli imputati per il declino di queste specie. I maiali grufolando nel terreno arrivano ai succulenti steli tuberosi sotterranei che divorano con avidità mentre le pecore erano attratte dalle grandi foglie lucenti. Comunque malgrado l’attuale rarità della specie la prognosi per il “Myosotidium” è buona e fausta perché sono state istituite riserve sulle isole più piccole e si riferisce che la specie si sta riprendendo da sola. Sull’isola Chatham è stata istituita una riserva privata, e qui viene protetta la maggior parte della popolazione vegetale.  Speriamo che questo gigantesco “Myosotidium” non venga dimenticato.»

 

Il non-ti-scordar-di me dell’isola Chatham, che è possibile ammirare anche in alcuni giardini delle nostre latitudini, è, dunque, seriamente minacciato proprio nella sua terra d’origine e costituisce pertanto un caso emblematico di quella minaccia globale che incombe sulla flora delle isole oceaniche, rappresentata dalla presenza dell’uomo, dall’introduzione di animali e piante di origine estranea, dal disboscamento, dallo sfruttamento inconsulto delle risorse naturali, dall’installazione di stabilimenti industriali (nel caso delle Chatham, si tratta di quattro piccole fabbriche per la lavorazione delle aragoste: a Waitangi, a Kingaroa, a Owenga e a Port Hutt), dalla costruzione di strade, porti e aeroporti, dall’inquinamento marino e atmosferico.

Perfino la presenza di una semplice stazione meteorologica può causare, indirettamente, dei gravi danni a un ecosistema isolano di tipo oceanico; le piante e gli animali, abituati a prosperare senza competizione con specie più agguerrite, soccombono allorché le condizioni locali subiscono modifiche anche di lieve entità, perché le nicchie ecologiche sono più rigide e la capacità di adattamento a nuove sfide richiede tempi lunghi, cosa che rischai di non lasciare scampo a delle specie rappresentate da popolazioni di modesta consistenza numerica.

Anche la fauna indigena delle Chatham contiene dei tesori veri e propri; vi sono ben diciotto specie di uccelli che, vivendo così isolate da quelle del più vicino continente (l’Australia, con il suo avamposto della Nuova Zelanda) hanno sviluppato caratteri di accentuata endemicità, come nel caso delle cinciarelle, dei piccioni e dei pettirossi.

L’uccello forse più interessante di tutta l’avifauna isolana è il pettirosso nero chiamato petroica, una specie in pericolo di estinzione, proprio come lo è il non-ti-scordar-di-me. Per un momento, questo uccello è stato sul punto di scomparire per sempre: ciò è accaduto quando si era ridotto ad una sparuta popolazione rifugiatasi sull’isola di Little Mangere (al largo dell’isola Pitt). Nel 1976 erano ancora in vita solamente sette individui, tutti in quello scoglio sperduto nell’oceano; in nessun altro luogo al mondo ve n’erano degli altri, sicché l’estinzione sembrava inevitabile; e nel 1980 erano scesi ad appena cinque.

Se la petroica non è scomparsa e, oggi, pare in ripresa (già nel 1985 gli individui erano risaliti a 38), ciò si deve unicamente ai disperati sforzi dell’uomo, il primo responsabile del problema: facendo allevare i piccoli di petroica ad altre specie di uccelli, particolarmente a delle cince, si riuscì, alla venticinquesima ora, a schivare l’irreparabile. Ecco un caso in cui gli esseri umani hanno tentato di rimediare alle conseguenze nefaste del loro modo di rapportarsi con la natura delle piccole isole oceaniche.

Tuttavia, il pericolo non è affatto cessato, né per il pettirosso nero, né per il non-ti-scordar-di me dell’isola Chatham; e del resto, al temporaneo salvataggio in extremis di queste due pregevoli specie viventi, fa riscontro il ben più tragico destino di centinaia e migliaia di altre specie animali e vegetali, scomparse per sempre dalle faune e dalle flore locali e solo in pochi casi preservate grazie a degli esemplari trasportati lontano dal loro ambiente originario, nei giardini zoologici e botanici d’Europa e del Nord America.

Possiamo solo sperare che una nuova sensibilità ecologica si diffonda, prima che sia troppo tardi.