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Rovesciare la teologia dell’automobile per tornare a vivere a misura d’uomo

di Francesco Lamendola - 19/09/2012



 

L’automobile è la divinità dei nostri tempi e il suo culto è la nuova religione di salvezza, con una sua teologia, con i suoi dogmi, con le sue eresie da reprimere nel sangue?

Forse essa è venuta ad occupare, nel Pantheon politeista della tarda modernità, un ruolo egemone e smagliante, paragonabile a quello di Zeus in cima all’Olimpo, con il televisore, il telefonino, il computer e i giochi elettronici nei ruoli subordinati, ma pur sempre onorevoli ed essenziali, svolti da Hera, Ermes, Ares e Afrodite?

E noi, cittadini del terzo millennio che non possiamo più fare a meno dell’automobile, né degli altri accessori della tecnologia; che non possiamo trovare né conservare un lavoro se non possediamo automobile, telefonino e computer; anzi, che non riusciamo a trovare nemmeno uno straccio di uomo o di donna per riempire la nostra solitudine, se non possediamo e non sappiamo usare con destrezza tali sacri oggetti, siamo forse diventati i seguaci di un nuovo culto, di cui i tecnici, i programmatori e i designer industriali sono i nuovi sommi sacerdoti, mentre le funzioni diaconali vengono disimpegnate da legioni di rivenditori autorizzati e, naturalmente, di addetti alla riparazione e alla manutenzione?

Potrebbe sembrare indelicato e quasi di cattivo gusto porsi tali interrogativi proprio adesso, che la crisi produttiva del settore automobilistico, almeno in Italia, morde a sangue il nostro tessuto sociale e getta ombre sempre più fosche e inquietanti sul nostro avvenire, che gli economisti legano indissolubilmente alla ripresa economica basata sullo sviluppo, ossia sulle stesse linee guida che ci hanno portato nel presente vicolo cieco.

Finché la F.I.A.T. e le altre case automobilistiche andavano forte, finché vendevano migliaia di automobili al giorno in tutto il mondo, finché riempivano le strade e le autostrade con i loro ultimi modelli, fare la parte del diavolo e insinuare che, prima o poi, ci sarebbe stata una crisi di sovrapproduzione e che, pertanto, forse era bene ripensare un tale modello di sviluppo, anzi l’idea di sviluppo in se stessa, era cosa che costava poco o niente e che appariva politicamente corretta, almeno finché si restava sull’innocuo terreno della critica teorica; ma adesso che migliaia e migliaia di posti lavoro sono a rischio, è lecito fare un discorso del genere?

Ebbene noi riteniamo che non solo sia lecito, ma doveroso; e non certo per insensibilità verso gli operai che hanno perso o stanno perdendo il loro posto di lavoro, ma perché, se non riusciremo a rivedere alcune nostre certezze sbagliate che ci portiamo dietro da troppo tempo, non faremo altro che inseguire il miraggio di una ripresa impossibile, precludendoci le ultime possibilità di trovare delle vie d’uscita, passando per la presa d’atto della insostenibilità dell’attuale modello produttivo e acquisendo la consapevolezza della assoluta, inderogabile necessità di ripensare la religione dell’automobile, che ci ha portati dove ci ha portati.

Si dirà che in Germania, negli Stati Uniti e in Giappone si continuano a vendere le automobili; ed è vero, ma stanno raschiando il fondo del barile. Che il mercato mondiale sia sul punto di saturarsi, è un fatto; che, poi, le strutture capitalistiche più robuste e collaudate, quelle più elastiche e innovative, riescano ancora a vendere automobili, strappandosi le une con le altre gli ultimi pezzi di mercato, è un altro fatto: ma non deve far perdere di vista l’essenziale, ossia l’insostenibilità di un modello economico basato sulla produzione illimitata di beni, da sostenersi mediante la creazione paranoica, compulsiva, di sempre nuovi bisogni artificiali.

Dove non sono arrivati, finora, il buon senso, la saggezza e la lungimiranza, sta arrivando la crisi economica: soldi da spendere per acquistare nuovi modelli di automobile, molte famiglie non ne hanno più; a stento ne trovano per affrontare le spese essenziali e indispensabili, dal cibo all’affitto e alla stessa benzina, peraltro riducendo sempre più l’uso del mezzo di trasporto privato. E se nemmeno questo basterà, vuol dire che la pazzia ha preso il posto di ogni ragionevolezza.

L’interrogativo che dobbiamo porci, dunque, non è se si possa continuare a credere nella religione dell’automobile, perché il grande dio Pan è morto, e solo i suoi seguaci più fanatici e irragionevoli non se ne sono ancora accorti; e nemmeno se l’automobile con il motore diesel o quella elettrica potranno rimpiazzare, e in quanto tempo, le automobili a benzina, perché è certo che questo avverrà e anche abbastanza presto, ma non è altrettanto certo che questo risolverà il problema produttivo e, di conseguenza, occupazionale.

Il punto è se vogliamo continuare a praticare la religione del consumo e dello sviluppo o se vogliamo considerare la possibilità di convertirci alla religione della sobrietà, del limite, della decrescita, proprio in vista di un futuro migliore e non peggiore di quello che ci si offre nell’attuale congiuntura e secondo le attuali, ragionevoli prospettive; un futuro più felice e non più cupo, più aperto alla speranza per le generazioni future e non più scoraggiante, da vivere in amicizia con gli altri viventi e con l’ambiente e non in guerra permanente contro di essi, come fossero dei nemici da piegare, sottomettere e sfruttare senza limite alcuno.

Così scriveva il giornalista Carlo Laurenzi, visitando il Salone dell’automobile a Torino nell’ormai lontano 1968, ma con accenti che risuonano di impressionante attualità (dal volume miscellaneo «Il Milione 1968», De Agostini; cit. in:  Angelo Gianni e Antonio Desideri, «Momenti e problemi del nostro tempo», Messina-Firenze, Casa Editrice G. D’Anna, 1970, 1977, vol. 3, pp. 333-36):

 

«Si ripete che gli uomini di oggi sono tutti tendenzialmente edonisti, che questa nostra epoca è irreligiosa. Ma le cose non stanno proprio così. Noi possiamo non avere fede, magari non avere speranza; rimarrà sempre una luce o un’ombra di mito dentro di noi. Forse siamo idolatri, e non ha importanza che abbiamo costruito gli idoli con le nostre mani. L’essenziale è che gli idoli ci sovrastino e ci trascendano, il che regolarmente avviene. Il Salone dell’Automobile di Torino è un evento che tentiamo di esorcizzare col definirlo “tecnico” o “commerciale”: in realtà è un evento primordiale e mistico.

Alla base è il candore: chi entra nel santuario è innocente, ovvero fruisce di una pausa innocente. Io non ho visto se non popolazioni italiane entrare nella grande chiesa delle automobili, ma è certo che i visitatori di Francoforte, di Londra, di Parigi, di Ginevra non sono dissimili dai nostri fedeli. A Torino i fedeli ammontano a parecchie decine di migliaia ogni giorno. Naturalmente, tutti gli alberghi della città sono pieni, ma questo accadrebbe anche per una fiera di minore richiamo. La maggioranza dei pellegrini affluiscono ininterrottamente dalle città del nord, lungo le autostrade,  soprattutto a bordo di pullman; altri pullman vengono da molto lontano e viaggiano di notte, cosicché i pellegrini dormono inquieti nel viaggio, sognando ciò che vedranno o fantasticando su quello che hanno veduto. Piove. Le autostrade sono lucide e viscide; ogni lume è sinistro, ogni stazione di servizio rosseggia come un piccolo cerchio d’inferno nelle notti nere. Torino è pavesata di striscioni multicolori, inneggianti alle marche, alla gioia di vivere su quattro ruote,  ai tempi di percorrenza del “chilometro lanciato”. Queste cifre, questi nomi stanno come nomi di angeli o giaculatorie. Da qualche torpedone scendono stuoli di scolari, guidati da un allucinato maestro. In certi pellegrini di provincia la semplicità e l’entusiasmo sono così puri che potete vedere quei pellegrini, pazienti, mettersi in fila per accedere al vagone-ristorante insabbiato nel recinto della fiera: allo steso modo, nella foresteria della Verna, i romei si pascevano del perfido, ma salutifero cibo dei frati

.I richiami fra una religione e l’altra sono fitti e facili. Ecco: se chi entra in chiesa si dirige subito verso l’acquasantiera, così il visitatore del salone, con un gesto rituale assai simile, depone la sua scheda (un tagliando del suo biglietto d’ingresso)  in un’urna trasparente. Per quasi tutti questo gesto sarà inutile o varrà come prova  di propiziazione o creanza; per uno, ogni giorno, il gesto verrà ricompensato a usura, e il suo nome, suscitando una feconda invidia, sarà pubblicato dai quotidiani subalpini. La mano di una ragazza, vigilata dall’occhio di un notaio, avrà estratto dall’urna la sua scheda: gli sarà donata un’automobile e ciò significa che, secondo la liturgia dei saloni, egli sarà stato colmato di grazia. Io spero che nessuno troverò irriverente questo paragone e altri paragoni possibili. L’anima dell’uomo è sempre la medesima, nelle spire del desiderio, nel timore, in una prospettiva di ricompensa, di fronte alla bramosia di salvarsi, nel pretendere confusamente che una lotteria lo riscatti, o implorando perdono. Quest’anima, in modo spesso non consapevole, accoglie una religione o la crea. Alcune religioni tendono all’alto; alcune divinizzano invece il concetto. Non si negherà che l’automobile sia, oggi, il più concreto e insieme il più solenne degli idoli. Personalmente, rinuncerei ai vantaggi veri della cosiddetta civiltà tecnologica (che non sono pochi) purché ci sottraessimo alla schiavitù dell’automobile. Ma con quale possibilità di successo un profeta, ammesso che vi siano profeti, tuonerebbe, si solleverebbe, oggi, contro il vitello d’oro?

La potenza del vitello d’oro consiste in questo: che l’uomo ha l’illusione di soggiogarlo, nel momento stesso in cui ne è soggiogato. Un’automobile vive con l’uomo. Ha bisogno dell’uomo per mantenersi, proprio come l’uomo ha bisogno dell’automobile per vincere il proprio limite, trasformandosi in un’entità solitaria, volvente, potenzialmente aggressiva, veloce. L’automobile e l’uomo, dunque, danno luogo a una simbiosi notevolmente mostruosa (se la giudichiamo da un punto di vista classico) che ricorda un poco le turpi creature dell’Ade. Ci fu un tempo, fino a non moltissimi anni fa, i cui l’automobilismo è stato uno sport o un diporto. Adesso, generalizzandosi,  una maniera di vivere, e forse, cosa terribile, è la vita: la vita che ci chiude in scatole di acciaio, così disperati e soli. Simili a una turba di conquistatori scesa da un altro pianeta, le scatole d’’acciaio sono fra noi, padrone di noi, adorate e servite, custodi del destino degli uomini? Poche righe di fantascienza contengono, forse, l’intera storia contemporanea, e illuminano il devastante futuro.

Si accede al salone come a un tempio. I fedeli sono avidi e pallidi, l’eccitazione stessa impedisce che il brusio delle voci si faccia clamore. Molti guardano senza capire; effettivamente non c’è molto da capire. L’essenziale è che le automobili stiano sui piedistalli, lucenti, compatte  nelle loro tinte notturne o solari. Alcune ruotano su piedistalli girevoli, con lenta maestà. Altre, sorvegliate da sacerdoti bonari, sono accessibili ai fedeli: il cofano del motore è aperto, a mostrare un cuore di alluminio e talvolta, nel brivido di chi guarda, tre carburatori.  L’abitacolo è accessibile: in tal caso la ressa dei pellegrini può farsi rischiosa. Con ansia, secondo turni accelerati, i pellegrini verificano se la nuova granturismo sprint, della quale i giornalisti hanno scritto che è soltanto una due più due, disponga realmente di quattro posti, come sostiene la casa. La donne vengono spinte nell’abitacolo posteriore, pigiate; gli uomini siedono al volante, tentano i comandi, dicono a bassa voce: “Non dovrebbe essere difficile adattarsi a una guida meno lunga”, o sciocchezze del genere, con passione, con serietà, senza traccia di umorismo. Nulla è così arduamente rintracciabile, in un salone dell’automobile, come l’umorismo.

Anche l’erotismo, l’altro cardine del costume contemporaneo, è dimenticato: nessuno (per quanto la cosa non appaia quasi credibile) guarda le donne, quando riemergono, faticosamente e scompostamente, dall’abitacolo posteriore delle due più due. Non ho mai visto corteggiare nessuna delle belle ragazze degli stands, le quali hanno uniformi provocanti e occhi bistrati,. Esse sono ritenute angeli, da cui è lecito ricevere informazioni sui prezzi di listino e ottenere il dono carismatico di stampati pubblicitari. L’innocenza dei saloni non ha confini.»

 

Forse, a proposito di quest’ultima osservazione di Laurenzi, si potrebbe obiettare che l’erotismo c’è, ma non è più rivolto agli esseri umani, bensì alle automobili stesse: è un erotismo tecnologico e curiosamente asessuato, nel senso che l’automobile non è maschio né femmina, semmai è angelo, per continuare con le analogie dell’autore; ma un angelo che è lecito guardare sessualmente, che anzi diviene l’oggetto del desiderio; mentre questo desiderio, più che sublimato, viene trasformato in una nuova forma di patologia sessuale: accanto alla gerontofilia e alla pedofilia, alla necrofilia e al feticismo, ecco nascere e imporsi l’attrazione sessuale per una scatola di metallo. A ogni secolo le sue inclinazioni e le sue perversioni.

Ad ogni modo, per oltrepassare la morente religione dell’automobile, bisogna capire bene che cosa essa sia, o che cosa sia stata: non la religione di un oggetto, ma di un modo di vita. Pertanto è un modo di vita che deve essere cambiato e rovesciato, non soltanto un oggetto; non si tratta di non adorare più quell’oggetto, ma di modificare radicalmente la propria filosofia di vita.

La filosofia di vita della vecchia religione, o della vecchia idolatria, si fondava sulla quantità: di più, sempre di più: maggiore potenza, maggiore velocità, possibilità di fare un maggior numero di cose in un tempo più breve. In luogo di essa è necessario rifondare una religione basata sulla qualità della vita: non più velocità, più potenza e più cose di cui disporre; non più dominio e più manipolazione di esse; ma, al contrario, un prendersi cura amorevole dei propri bisogni autentici, cercando non la competizione sfrenata, ma la collaborazione con l’altro e ricordando sempre di essere ospiti, non padroni della Terra che abitiamo insieme agli altri viventi.

L’automobile è l’ipostatizzazione devozionale della forza, della tecnica aggressiva, della velocità guerresca (non per nulla piaceva tanto a Filippo Tommaso Marinetti); il suo motore rombante è il surrogato dell’atto sessuale e, nello stesso tempo, della lotta contro gli altri: esso permette di superarli, mediante una maggiore potenza e una guida spavalda e spericolata; e superarli equivale a ucciderli simbolicamente, trapassandoli con la lancia del proprio volante e cremandoli con i gas del tubo di scappamento. Si tratta, quindi, di uno strumento che dovrebbe compensare frustrazioni e complessi, anche di natura sessuale; ma che, per la dinamica stessa di qualunque manifestazione consumista, finisce per aggravarli e cronicizzarli.

Si tratta, allora, di riscoprire il piacere delle cose semplici, degli affetti, della contemplazione, del contatto autentico con la natura; di elaborare o ritrovare una filosofia di vita non aggressiva, non esasperatamente competitiva, ma pacifica e benevola, nella quale le cose siano realmente al servizio dell’uomo e non mai usate in maniera tale da dominarlo. Le automobili non scompariranno, ma dovranno essere adoperate in maniera più sobria, più parca e più saggia: torneranno a essere un mezzo di trasporto come altri, non particolarmente raccomandabile per i suoi effetti collaterali di tipo ecologico e sociale, e non sarà più considerata uno status symbol; meno che meno, uno strumento per compensare le frustrazioni, sessuali o d’altro genere.

Che bel giorno sarà quello in cui gi uomini torneranno a guardare con stupore, ammirazione e desiderio, non più le automobili, ma le donne; e le donne, gli uomini…