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Nel «Panopticon» di Jeremy Bentham il volto poliziesco e totalitario dell’utilitarismo

di Francesco Lamendola - 17/07/2013



L’utilitarismo è, probabilmente, la filosofia che più di tutte si avvicina alla negazione di se stessa e al rovesciamento totale, coerente e  compiaciuto di quella “sophia perennis” che, dagli albori del pensiero umano, ha sempre vagheggiato e perseguito la ricerca della Verità intesa come interezza, e la sua coincidenza con il Bene e con il Bello. In questo senso, l’utilitarismo si può considerare come il trionfo dello spirito moderno sulle ultime, esangui vestigia della metafisica, già colpita a morte da Kant e ormai sul punto di venire relegata nella soffitta delle cose vecchie ed inutili; e i suoi maggiori rappresentanti: Adam Smith (1723-90), Jeremy Bentham (1748-1832) e John Stuart Mill (1806-1873), come gli esponenti di un modo radicalmente nuovo di porsi di fronte ai problemi del conoscere e dell’etica.

Per essi, una cosa è “buona”, o anche “giusta” (e si noti la confusione dei concetti) se suscettibile di accrescere la felicità degli esseri sensibili – e non solo degli uomini; “cattiva”, se la diminuisce. Quanto poi alla difficoltà di stabilire che cosa sia la felicità, nessun problema: essi, anzi, si ritengono perfettamente in grado non solo di definirla, ma anche di quantificarla; e si regolano in questo modo: giudicano che l’utilità sia la misura della felicità di un essere sensibile.

Bentham, in particolare, continuatore dell’empirismo e precursore del positivismo, disprezza un’etica che pretenda di fondarsi su dei valori, entità astratte ed evanescenti, mentre vuole basare la sua etica sopra dei solidi fatti, in modo da costituirla in una scienza vera e propria. Per poterlo fare, egli parte dall’assunto che la felicità altro non sia che il piacere (come nel sensismo, aspetto che lo accomuna, ma solo per un attimo, a Leopardi, e che ne fa un tardo epigono di Epicuro). Ebbene, nella sua etica “scientifica”, Bentham pretende di formulare addirittura un’algebra morale, ossia di quantificare la felicità, intesa come il risultato di quell’agire che produce il massimo del piacere e, viceversa, il minimo del dolore.

Da bravi eredi della stagione illuminista, peraltro, gli utilitaristi non si interessano solo della felicità del singolo, ma si preoccupano anche di quella del genere umano: e formulano la curiosa teoria secondo cui le azioni “buone”, cioè utili, portano la felicità non solo all’individuo, ma alla società intera (vedi la bislacca teoria di Adam Smith circa la “mano invisibile”), talché la ricerca del piacere da parte dell’individuo, se ben diretta, non può non portare al bene collettivo. Come Cesare Beccaria e come Helvétius, essi hanno una concezione militante della filosofia, e pensano che essa debba contribuire, anche stimolando l’azione legislativa, alla diffusione della massima felicità per il maggior numero possibile di persone.

Bentham, per esempio, era un uomo dalle idee sociali molto avanzate; molto bene intenzionato, molto progressista, molto sensibile al bene di tutti, e non solo degli uomini, ma anche delle donne, anzi perfino degli animali. Nel suo curriculum si trovano praticamente tutti gli “ismi” che tanto apprezza la cultura radicale e pseudo libertaria contemporanea: laicismo, femminismo, animalismo, al punto che la sua biografia sembra quella di un Pannella ante-litteram. Credeva fermamente, da buon inglese, nella libertà di commercio, ma amava anche tutte le altre libertà, da quella di stampa a quella sessuale (tanto da proporre la depenalizzazione dell’omosessualità); era contrario alla schiavitù, alla sottomissione delle donne, al maltrattamento degli animali, ai privilegi della Chiesa, al monopolio commerciale, alle punizioni fisiche; era a favore delle libertà personali, della pensione, delle assicurazioni sulla salute, dell’insegnamento laico (l’università di Londra, quasi una sua creazione postuma, fu chiamata “l’università senza Dio”), delle tasse di successione, del divorzio, e (di nuovo da buon “liberale”) dell’usura, che solo un’età buia e stupida come il Medioevo aveva potuto giudicare negativamente.

Insomma un personaggio che, pur essendo vissuto due buoni secoli fa, sarebbe piaciuto molto a tutti gli esponenti della odierna cultura militante più “avanzata”, “liberale” e “democratica”: un nemico dei pregiudizi, un paladino dei diritti, una mente aperta e proiettata verso il futuro; ma anche uno spirito pratico, un solido borghese mai dimentico del proprio interesse e del quattrino: quel caratteristico impasto di egoismo e di filantropismo che costituisce il tratto più comune di ogni utilitarismo, orientamento filosofico che non ha mai avuto il coraggio di portare alle logiche conseguenze le proprie egoistiche premesse, ma si è sempre barcamenato – a parole, beninteso - in uno strano amalgama ove il singolo, “non si sa come” (direbbe Pirandello), perseguendo il proprio utile ed il proprio piacere, realizza contemporaneamente – che sia l’astuzia della ragione di Hegel? – il massimo utile per l’intera società, o almeno per gran parte di essa, sì che l’egoismo e l’altruismo si sovrappongono, si mescolano e  alla fine, Dio sa come, si confondono del tutto. Che bellezza: così l’utilitarista non si sente mai in colpa, non si sente mai brutto e cattivo; certo, è un egoista, un edonista, nonché un libero pensatore, in fondo un erede del libertinismo, oltre che dello scetticismo (Adam Smith era buon amico personale di David Hume); ma niente paura, il Diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge; lo credereste?, tirando le somme, salta fuori che quanto più l’utilitarista bada ai fatti suoi e si  propone di concedersi il massimo del piacere, inteso proprio in senso quantitativo, tanto più egli viene ad essere un altruista e sia pure inconsapevole, un benefattore dell’umanità, un amico dei poveri - e non è un caso che dal mantello di Bentham sia venuto fuori anche Robert Owen, con il suo benintenzionato socialismo utopistico!

Ma c’è un altro aspetto del pensiero di Bentham che merita di essere evidenziato: quello relativo al sistema carcerario. Questo volonteroso figlio dell’illuminismo, questo nipotino ideale di Beccaria non poteva non dedicare una parte della sua prodigiosa, multiforme attività speculativa alla questione delle pene; e fu così che ideò il Panopticon («che fa vedere tutto»), un carcere dove ogni detenuto sa che può esser osservato in qualsiasi momento da un unico guardiano, vera e propria prefigurazione del Grande Fratello orwelliano. Michel Foucault ha visto nel Panopticon il paradigma di una società protesa a punire e a sorvegliare nello stesso tempo, esercitando il massimo della pressione sui suoi membri. In effetti, l’idea centrale di Bentham è che i detenuti, a forza di sentirsi osservati in ogni ora della giornata, per anni ed anni (anche se non è detto che lo siano veramente), finiranno per introiettare una tale angoscia e per subire un così forte condizionamento psicologico, da comportarsi “bene” in maniera automatica, per il solo fatto di sapere che ogni loro eventuale infrazione potrebbe essere vista e, quindi, punita.

Il bello è - si fa per dire - che questo filantropo assatanato, questo instancabile promotore di riforme sociali (amico influente di molti pezzi grossi, in patria e all’estero), questo indomabile paladino della libertà, non sembra rendersi conto di aver elaborato una vera e propria distopia; pensa, al contrario, di aver creato qualcosa di eccellente (tanto da ispirare utopisti come Owen), tutto pieno di fervore umanitario e di caldo, sincero desiderio di rendersi utile – cioè, secondo i suoi presupposti, “buono” e “giusto” -  verso i suoi concittadini e, se possibile, verso il resto dell’umanità.

Decisamente non possedeva il senso dell’umorismo; o, se lo aveva, doveva essere alquanto macabro: nel suo immenso narcisismo, arrivò al punto di chiedere (e ottenere), per testamento, che il suo cadavere venisse imbalsamato e conservato in una specie di vetrina nell’Università di Londra, dove è noto come l’Auto-Icona. Si tratta di un reperto particolarmente orrido, anche perché uno sbaglio nel procedimento di imbalsamazione ha fatto sì che la testa si deteriorasse in fretta e che fosse necessario sostituirla con una di cera, che tuttora fa bella mostra di sé dietro la teca. Per la cronaca, alcuni studenti in vena di goliardia (altrettanto macabra di quella del filosofo) l’hanno trafugata, nel 1975, chiedendo un simbolico riscatto; dopo di che, una volta recuperata nella lontana Scozia la discutibile reliquia, le autorità universitarie hanno pensato bene di collocarla in un frigorifero nei sotterranei dell’ateneo londinese: macabro cimelio da esibire – o da nascondere – per la gioia dei patiti del genere horror. Dopotutto, siamo nella patria di Edgar Wallace e di Agatha Christie, dove aleggiano i fantasmi della Torre di Londra, evocando cupe storie di complotti e condanne a morte.

Ecco come Franco Biancardi riassume il progetto del Panopticon, ideato da Bentham nel 1791 come carcere “ideale”, concepito secondo il criterio della massima funzionalità, cioè della massima sorveglianza con la minima spesa (da: F. Biancardi, «I nuovi argomenti», Napoli, Edizioni Manna, 2002, pp. 115-16):

 

«Nel 1786 il giurista e filosofo inglese Jeremy Bentham, meglio conosciuto dagli studenti come il fondatore dell’utilitarismo e noto per la sua “aritmetica morale”, scrisse un singolare opuscolo dal titolo “Panopticon, ovvero la Casa d’Ispezione”; il termine “panopticon” deriva dal greco “pan” (tutto) e “opticon” (visivo, ottico) e, perciò, significa letteralmente “veditutto”. In pratica, Bentham immaginò una prigione così organizzata: una costruzione a forma di anelo con al centro una torre provvista di larghe finestre, schermate da persiane, che si affacciano sulla parte interna dell’anello. L’anello, a sua volta, è suddiviso in celle, ciascuna delle quali occupa l’intero spessore della costruzione ed ha due finestre: una che si affaccia verso l’interno, in perfetta corrispondenza alla torre centrale di controllo, l’altra rivolta verso l’esterno, in modo che la luce possa agevolmente attraversare la cella da parte a parte. Questo ingegnoso sistema di prigionia consente ad un solo sorvegliante per turno, ospitato nella torre centrale, di vigilare giorno e notte sui prigionieri, osservando tutto quello che fanno senza essere visto (grazie alle finestre schermate). Il Panopticon o Casa d’ispezione dispone anche di un rudimentale telefono che, attraverso una rete di tubi, consente al sorvegliante (chiamato Ispettore) di rivolgersi in qualsiasi momento ai prigionieri, rendendo in tal modo incombente ed angosciante la sua costante presenza. Un interessante aspetto di questo bizzarro (ma non troppo) sistema di sorveglianza è rappresentato dal fatto che la torre centrale, che ospita l’Ispettore, è aperta ai visitatori, siano essi parenti ed amici dei prigionieri  che semplici curiosi; i detenuti sono così sottoposti anche agli sguardi indagatori di gente in transito che rappresenta quella che Bentham chiama l’Opinione (oggi traducibile in Opinione pubblica).

Per vent’anni il filosofo tentò invano di accreditare il suo progetto presso le autorità politiche del tempo; nel frattempo egli maturò la convinzione che questa sua idea potesse essere sfruttata anche per la costruzione di manicomi, ospedali, ospizi, fabbriche, brefotrofi e scuole.

A ben guardare, Bentham può essere considerato l’antesignano dell’idea di Grande Fratello, un’espressione che racchiude  in sé il senso di un invisibile Ispettore che incessantemente, ci controlla, ci sorveglia e ci condiziona fin nelle nostre scelte più personali.»

 

Non è tanto significativo il fatto che l’idea del Panopticon, inteso come carcere, sia stata realizzata, dopotutto, in diversi luoghi, dalla Gran Bretagna, all’Italia (carcere di Santo Stefano), a Cuba; quanto che egli abbia finito per considerare tale modello estensibile a tutte le istituzioni preposte alla sanità, alla produzione, all’educazione: per lui, evidentemente, il principio ispiratore di una scuola, di una fabbrica o di una clinica psichiatrica non è poi tanto diverso da quello di una prigione, anzi si può dire che egli li ritenga fondamentalmente simili.

Ed è proprio questo che richiama la nostra attenzione sulle implicazione del super-liberismo, del radicalismo intransigente, del progressismo a oltranza di filosofie come quella di Bentham e degli utilitaristi inglesi: una volta stabilito che non è bene ciò che é bene, ma che è bene ciò che è utile; e che la felicità consiste nel piacere, abbassando l’uomo al livello del bruto e santificando qualunque tipo di edonismo, evidentemente non resta che portare agli uomini la “felicità”, che essi la vogliano o no, che la trovino desiderabile o no. Gli utilitaristi hanno questo in comune con gli illuministi: che sanno cosa è bene per gli uomini, più di quanto lo sappia chiunque altro e più di quanto lo sappia il “popolo”; perché il popolo, fino a quando non viene illuminato dalla ragione, non è che una massa abbrutita e immersa nella superstizione, che deve essere guidata e indirizzata, magari anche presa a staffilate, se necessario: ma, oh!, per il suo bene, si capisce; sempre per il suo bene. Sono filosofi che fanno paura: con tutto il loro antidogmatismo, sono più intolleranti della Santa Inquisizione…

Quanta strada abbiano poi fatto le idee di Bentham, magari sotto una diversa verniciatura e all’ombra di sistemi politici e sociali diversissimi da quelli ch’egli auspicava, questa è una cosa che sta sotto gli occhi di chiunque: purché, beninteso, si abbia la voglia e l’onestà di guardarla in faccia.