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Figli del nulla. Il disagio giovanile tra nichilismo e buddhismo

di Paola Basile - 25/07/2006

Figli del nulla
Il disagio giovanile tra nichilismo e buddhismo
A cura di:
Paola Basile
Centro Studi A.S.I.A
Associazione Spazio Interiore e Ambiente
Via Riva Reno 124 - 40121
Bologna
INDICE
Premessa.......................................................................................................................II
0. Figli del nulla ........................................................................................................... 1
PARTE I
Le cause e i sintomi
SEZIONE I
Le cause: nichilismo e senso del nulla .......................................................................... 5
1. Giovani..................................................................................................................... 5
2. Nichilismo .............................................................................................................. 10
3. Nulla....................................................................................................................... 16
4. Indifferenza ............................................................................................................ 23
5. Noia ........................................................................................................................ 29
SEZIONE II
I sintomi: disagio e mancanza di significato .............................................................. 38
6. Disagio ................................................................................................................... 38
7. Anima ..................................................................................................................... 46
8. Mancanze ............................................................................................................... 60
PARTE II
Oltre il nichilismo e Testimonianze
SEZIONE I.................................................................................................................... 72
Oltre il nichilismo: comprendere i significati del sentire ......................................... 72
9. Oltre........................................................................................................................ 72
SEZIONE II
Testimonianze: verso il buddhismo ............................................................................ 91
Avvertenze ................................................................................................................. 91
1. La domanda nascosta ............................................................................................. 93
2. Una strana e sacra “follia”...................................................................................... 98
3. Il cavaliere nero e il suo velo di morte................................................................. 103
4. L’Universo in una forchetta: il “singolare universale” ........................................ 107
5. Quanta sofferenza per giungere a una resa! ......................................................... 113
6. Dal mostruoso al miracoloso passando per un significato ................................... 118
7. Un bisogno di capire che la scienza non riempiva............................................... 123
8. Uno “stranimento” risvegliante............................................................................ 129
9. Desiderare il nulla ................................................................................................ 132
10. Esistenza: un “luogo” senza via d’uscita ........................................................... 135
11. Quando la via filosofica non basta ..................................................................... 140
12. Deve esserci qualcos'altro sotto questa vita!...................................................... 147
13. Il senso dell'assurdo............................................................................................ 151
14. Perché esisto e non si dà il nulla? ...................................................................... 156
15. Un sottile sorriso di bellezza nella sofferenza ................................................... 161
TESTI CITATI....................................................................................................... 165
NOTE....................................................................................................................... 180
Tutti hanno motivo di dolore, ma più di tutti colui che sa e sente che egli è.
Tutti gli altri dolori sono, a paragone di questo, come giochi a paragone di
cose serie. Perché sperimenta seriamente il dolore chi sa e sente non solo ciò
che è, ma che egli è. E chiunque non abbia mai sentito questo dolore può in
verità addolorarsi perché non ha mai sentito il dolore perfetto.
(Anonimo inglese del Trecento, La nube della non conoscenza)
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Premessa
Il seguente lavoro, seppur in gran parte apparentemente teorico, è in realtà frutto di un
lungo percorso di esperienza meditativa accompagnata da approfondimenti di carattere
filosofico, che un gruppo di persone sta da anni portando avanti all’interno
dell’Associazione culturale ASIA, sotto la guida del maestro Franco Bertossa. A lui si
deve l’esistenza dell’Associazione stessa che si è costituita attorno a una sua profonda
esperienza interiore che da anni egli indaga sia alla luce del pensiero orientale che di
quello occidentale, al fine di trovare i mezzi per trasmettere la consapevolezza
esistenziale che da essa può scaturire.
Si tratta di un’esperienza del tutto nota all’interno della cultura orientale, ma che in
Occidente, seppur spontaneamente accada – avendo a che fare con il puro e semplice
fatto di esistere e di essere coscienti – non ha ancora trovato le categorie culturali
all’interno delle quali essere inserita e apprezzata; accade così che, frequentemente, chi
l’ha vissuta si ritrovi solo e spaesato, senza avere la possibilità di comprendere appieno il
significato di ciò che gli è successo, oppure cerchi di farlo attraverso le tradizionali
categorie psicologiche che in questo caso non risultano idonee, perché il contenuto di tale
esperienza non è di natura psicologica ma filosofica.
Allo stesso modo il senso di malessere e di insoddisfazione che si va diffondendo nel
mondo occidentale viene solitamente interpretato attraverso letture di carattere
psicologico, sociologico, o sempre più frequentemente fisiologico, ma molto
difficilmente in senso filosofico-esistenziale. Heidegger ha ripetutamente parlato di oblio
dell’essere, e questo, a nostro avviso, trova il suo più evidente segno nel fatto che lo stato
di turbamento e di estraniazione che può derivare dal puro e semplice fatto d’essere, non
viene quasi mai adeguatamente compreso, seppur si sia appena concluso un secolo che lo
ha magnificamente portato alla luce attraverso tutte le sue forme espressive.
L'originario significato della meditazione
Il nucleo filosofico contenuto nelle pagine che seguono è da attribuirsi a Franco Bertossa,
che chi scrive frequenta da anni attraverso numerose lezioni e seminari, e spera di aver
inteso nel più fedele modo possibile.
Il filo principale del discorso riguarda il cosiddetto “disagio giovanile”, anche se le
tematiche affrontate sono di natura universale: questo perché, all’interno
dell’Associazione, si nutre una particolare attenzione nei confronti di tutte le
problematiche legate al mondo dei giovani, per far in modo che essi possano, passando
attraverso le loro attuali categorie culturali, entrare in contatto con la meditazione; è
nostra convinzione, infatti, che tale pratica, unita a un’indagine di carattere filosofico
tipicamente occidentale, possa rispondere alle loro domande ed essere idonea ad
affrontare il loro disagio. D’altra parte, se si intende far crescere e apprezzare questa
antica disciplina in Occidente, questo non può avvenire che a partire dagli attuali bisogni
dell’uomo occidentale, per non correre il rischio che rimanga solamente un fenomeno
“esotico”, del tutto estraneo al terreno culturale in cui si cerca di impiantarlo. A questo
scopo, chi più delle nuove generazioni è in grado di indicarci quali sono le conseguenze
delle attuali linee di pensiero del mondo occidentale e le problematiche ad esse connesse?
Peraltro, ciò che sostanzialmente ci interessa, non è diffondere la meditazione come
attività fine a se stessa, ma proporla nei suoi più originari significati di ricerca
esistenziale, e questo non può prescindere dall’analizzare in maniera approfondita le
modalità attraverso le quali tale domanda si sta esprimendo. Modalità che, a nostro
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avviso, sono principalmente da rintracciarsi nel sempre più dilagante malessere. Si tratta
inoltre di mettere in evidenza come punti di vista differenti, sviluppatisi in altre culture,
possano mostrare inaspettate soluzioni a problematiche che potrebbero sembrare
inaffrontabili, magari grazie a un piccolo e impensabile cambiamento di prospettiva.
Il “soggettivo universale”
Sin dai suoi esordi, la cultura occidentale, forse unica al mondo, si è sviluppata intorno a
quelle specifiche e straordinarie modalità conoscitive che sono il concetto e la logica:
queste la hanno portata, da una parte, ad avere un’eccezionale capacità teoretica e
analitica attraverso la quale approfondire svariati aspetti dello scibile umano (compresi
quelli legati al conoscere stesso e all’esistenza); dall’altra, a un incredibile sviluppo delle
discipline scientifiche e delle loro capacità di trasformare il mondo attraverso la tecnica.
Proprio i numerosi successi della scienza e della tecnica hanno fatto in modo che questo
nostro peculiare modo di conoscere finisse con l’essere considerato non uno dei possibili
modi attraverso i quali relazionarsi con il mondo e l’esistenza, bensì l’unico vero modo,
al punto di ritenere incompleti – e forse addirittura inferiori – tutti gli altri. Si può infatti
affermare che nella nostra cultura sia acquisita la convinzione che, se qualcosa di vero
esiste, questo lo sia dal punto di vista scientifico, nel senso di logicamente dimostrabile e
oggettivamente sperimentabile; ciò porta a una particolare concezione di verità che a noi
sembra l’unica accettabile, ma che in realtà è solo uno dei possibili modi di intendere la
stessa, seppur determini potentissimi e spettacolari risultati nelle sue applicazioni
pratiche. Non cogliere questo costituisce un limite, poiché ci impedisce di valorizzare
altri aspetti dell’esperienza umana, come per esempio la fruizione estetica che, pur non
essendo basata su concatenazioni logiche, può comunque rivelarci qualcosa di vero.
Esistono infatti verità che non si dimostrano ma si mostrano, ci appaiono cioè senza
necessitare ragionamenti o concatenazioni di pensieri. Tale è, per esempio, l’evidenza del
nostro esserci.
A nostro avviso l’approccio culturale che sin dall’antichità ha caratterizzato e continua a
caratterizzare l’Occidente, seppur estremamente affascinante e accattivante sotto
molteplici punti di vista, presenta alcune inequivocabili lacune: la più importante è da
riferirsi al fatto che, sia il grande affidamento alle argomentazioni filosofiche, sia la
grande fiducia nel metodo sperimentale scientifico – che per sua natura analizza il mondo
dal punto di vista oggettivo – hanno a poco a poco eliminato l’esperienza in prima
persona, alla quale non è più dato alcun valore veritativo. L’osservazione e l’analisi del
proprio panorama interiore, inteso come ciò che ciascuno di noi sperimenta di se stesso,
non sono attualmente ritenuti sufficientemente rilevanti da poter esprimere verità
filosofiche universali; la cultura occidentale ha in qualche modo dimenticato
l’importanza dell’esperienza di Io, la conoscenza del quale è attualmente affidata alle
neuroscienze e a discipline affini, che lo hanno ridotto a un “ammasso” di materia molto
ben organizzata. Ciò che io provo nel sentirmi io e i significati associati a questo sentire,
sembrano non avere grande importanza, e quando si manifestano in forme patologiche, o
quantomeno disturbanti, vengono “curati” attraverso sostanze chimiche che trattano la
materia di cui si presume essere fatto Io.
La disciplina occidentale che si occupa in maniera più approfondita del panorama
interiore è la psicanalisi, che analizza il vissuto e le caratteristiche personali e inconsce di
un individuo. Ciò però non ha niente a che fare con quello che intendiamo quando
parliamo di indagine in prima persona, poiché questa è da riferirsi alla coscienza intesa
non come facoltà morale o come psiche, ma come ciò che ci rende senzienti, pensanti e
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autocoscienti, nonché in grado di cogliere i significati ad essa stessa connessi: si occupa
cioè di “ciò” – Tat in sanscrito – che era presente al momento della nostra nascita e lo
sarà al momento della nostra morte indipendentemente dalle modificazioni fisiche e
caratteriali che avremo subito nel corso della nostra vita. L’indagine in prima persona
non prende in considerazione i contenuti psichici personali, ma la struttura stessa
dell’esperienza cosciente, che sotto questo punto di vista può essere definita “soggettiva
universale”. Per fare due esempi: in tutto il mondo le persone sono in grado di formulare
domande indipendentemente dalla lingua parlata e quasi tutti – fanno eccezione i
giapponesi che per indicarsi si toccano la punta del naso con il dito indice – dicono “io”
indicando una zona vicina al cuore nel centro del petto. L’analisi in prima persona
analizza questo tipo di strutture chiedendosi, e a questo punto il percorso diventa anche
filosofico: «che cos'è una domanda al di là del suo contenuto?», «che cosa significa
quella sensazione che provo e che mi fa dire "io"?». La domanda che sta monte di tutte le
domande e che anima questo tipo di ricerca è: «Chi sono io?».
Il problema non è da poco e, anzi, è di grandissimo rilievo nell’analisi del disagio poiché
io nasco, io muoio, io soffro e, per quanto mi riguarda, se io fossi nulla (ovviamente la
frase è assurda dal punto di vista logico, ma non per questo non significativa) nient’altro
esisterebbe: nell’essere ne va di me. Questo specifico modo di affrontare la sofferenza è
la proposta che ci viene dall’Oriente ed implica un sostanziale ribaltamento di prospettiva
rispetto al nostro, poiché il dolore viene affrontato non dalle sue presunte cause
oggettive, ma partendo da colui che soffre.
Un’analisi come quella di cui stiamo parlando in realtà è stata sviluppata in Occidente
all’inizio del secolo scorso grazie alla disciplina fenomenologica messa a punto da
Husserl; a essa si sono ispirati alcuni tra i più grandi pensatori del Novecento tra i quali
risaltano Heidegger e Sartre, ma, proprio per via della nostra sviluppata propensione alla
teorizzazione, questa è stata ben presto trasformata in un oggetto di analisi teorica più che
in una pratica da approfondire. Sotto questo punto di vista l’Oriente ha molto da
insegnarci, poiché già da diversi millenni ha sviluppato una cultura basata sull’analisi di
sé stessi producendo precisissime e profondissime osservazioni che lo hanno portato a
visioni del mondo completamente differenti dalle nostre, con le quali, a nostro avviso,
vale sicuramente la pena di confrontarsi.
Imperturbabile felicità?
L’approccio scientifico-tecnico che caratterizza la cultura occidentale si occupa, peraltro
non senza provocare problemi che potrebbero avere gravi conseguenze planetarie, del
nostro modo di collocarci nel mondo, cercando di risolvere gli svariati problemi pratici
che questo comporta, ma ha ben poco da dirci in merito alla nostra relazione con il fatto
di essere al mondo. Siamo sicuri che risolvendo ipoteticamente tutti i problemi pratici
che ci assillano e dando soddisfazione a tutti i nostri desideri, che oltretutto sembrano
avere la caratteristica di aumentare in maniera incolmabile, proveremmo un senso di
compiutezza, di imperturbabile felicità? O ancora qualcosa in noi proverebbe un senso di
mancanza, di inspiegabile insoddisfazione, magari di vuoto?
Il malessere dilagante per ora non sembra dare ragione alla tecnica, ciò nonostante ancora
si cerca di affidarle la soluzione di tale malessere. E se fosse sbagliato l’approccio? Se
fosse proprio una visione scientifica totalizzante a impedirci di comprendere ciò di cui
abbiamo veramente bisogno? Se la soluzione venisse da un cambiamento di prospettiva?
Dal sopraggiungere di nuove visioni che finora non abbiamo preso in considerazione?
Spesso, quando ci si identifica totalmente con una particolare visione, è difficile
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coglierne i limiti: proprio per questo ci sembra che l’incontro con altre culture, per alcuni
aspetti antitetiche alla nostra, possa avere in sé il potere di aprire nuovi orizzonti, ed
eventualmente dare il via a nuovi percorsi filosofici.
Le pagine seguenti mostrano la proposta culturale di ASIA e sono arricchite nella
seconda parte da diverse testimonianze di persone, appartenenti a diverse fasce d'età, che
non avevano trovato soluzione altrove al loro problema. Sono il frutto del tentativo di
creare l’incontro con una cultura che ha la potenzialità di dare nuovo respiro alla nostra.
Cultura che, per essere compresa, necessita di essere tradotta non solo dal punto di vista
linguistico, ma anche dei significati, tendendo presente il tipo di mente che li ha prodotti
e il tipo di mente che li dovrebbe accogliere.
Riportiamo una delle esperienze presenti nella seconda parte del presente lavoro
M. S., studente di filosofia, 22 anni
15. Un sottile sorriso di bellezza nella sofferenza
È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti.
E anche l'anima mia è una zampillante fontana.
È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti.
E anche l'anima mia è il canto di un amante.
Qualcosa di insaziato, insaziabile è in me; e vuol farsi sentire.
Una brama è in me; anch'essa parla il linguaggio dell'amore.
Luce io sono: ah, fossi io notte!
Ma questa è la mia solitudine,
che io sia recinto di luce.
(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra)
Fin da bambino ho sempre sofferto di forti malinconie, soprattutto dopo la separazione
dei miei genitori. Crescendo, cominciai a trovare felicità in alcune sensazioni misteriose
aventi a che fare con la poesia e l’abbandono alla vita. Ricordo momenti in cui, sdraiato
al buio, mi lasciavo trasportare dal destino e mi sentivo dissolvere nell’Assoluto,
diventare il Tutto, essere in compagnia del Tutto: la notte e il mattino diventavano le mie
stesse dita e la vita mia si trasformava in un poema sublime dove anche nella più dura
sofferenza si celava un sorriso di più profonda bellezza. Ci fu un periodo in cui, per
riuscire ad abbandonarmi maggiormente, fumavo e bevevo quasi tutte le sere, tornando a
casa ubriaco e vomitando in bagno prima di andare a dormire. L’alcool mi dava quella
sensazione di dissolvenza e di dimenticanza che allora vedevo coincidere con
l’abbandono alla realtà, ovvero con quei momenti dove mi ponevo innanzi al presente
senza più aspettative di vita e senza pretese di felicità e dove ignoravo quel che sarebbe
accaduto istante per istante. Il rapporto che andava formandosi con la mia sofferenza era
doppio: da un lato di attrazione e di bellezza in quanto in essa scorgevo il traghetto verso
l’ignoto, verso l’abbandono a un presente sconosciuto, mentre dall’altro sorgeva il
bisogno di fuga nella dissolvenza e nell’oblio, la quale fuga, ottenuta attraverso l’alcool e
il fumo, diventava come un breve soffio sulla ferita sempre aperta.
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Quello stesso bruciore malinconico, a parte quei rari momenti di abbandono descritti
poco innanzi, generava in me una gran rabbia verso il mondo: volevo cambiarlo con il
solo pensiero, spostare le montagne con un solo grido, mutare per sempre le leggi fisiche
che governano gli eventi, ribaltare le idee degli uomini e rovesciare tutti i giudizi di
valore sulla vita...
Questa rabbia in verità era una forza vitale molto profonda, che mi dava l’energia e la
voglia di rimettermi in gioco completamente, di prepararmi a vedere le cose sotto punti di
vista sconosciuti e inaspettati: era il desiderio di non arrendersi nemmeno di fronte a ciò
che con la logica sembra essere senza via di uscita.
Quando però la via d’uscita emergeva in quelle piccole gocce di abbandono, la sofferenza
mutava il proprio aspetto abituale di semplice sofferenza senza senso: era dolore e gioia
all’unisono, una bellezza così intensa da diventare passione dolorosa, passione o estasi
lacerante, il valore poetico più grande nel più grande dolore, un dolore arcano innanzi a
qualcosa di sublime, di incommensurabile; sebbene non sapevo ancora dirmi cosa fosse...
I miei genitori hanno sempre avuto pensieri divergenti, mio padre iniziò a interessarsi
all’antroposofia, mia madre alla meditazione. Inizialmente mi sentii più corrisposto nella
via che seguiva mio padre, riuscivo in un certo senso a capirla per come lui me ne
parlava; mia madre invece non mi disse mai niente di sé e della sua pratica, sapevo solo
che aveva un maestro presso il quale divenne insegnante.
Quando il maestro e mia madre parlavano sembrava facessero discorsi a vuoto, senza un
significato reale. Ogni tanto sentivo parlare di “illuminazione”, ma non sapevo
assolutamente di cosa si trattasse. Un giorno il maestro a tavola mi chiese se sapevo cosa
fosse il nulla, e io con tono saccente gli risposi: «Certo! Apro una cesta e dentro non c’è
nulla!». Allora lui ribatté: «Bene! Esatto! ...Però c’è la cesta!». Subito dopo lo sentii
parlare con altre persone, allo stesso tavolo di ciò che per lui è fonte di un continuo
stupore. Questa discussione mi tornò in mente solo dopo anni, quando mi accadde
qualcosa di molto importante, un’esperienza che rivoluzionò completamente la mia vita e
le mie idee, una verità per la quale tutti quei discorsi a vuoto si riempirono del loro
autentico significato...
Devo ringraziare i miei genitori per avermi saputo trasmettere dei valori, per avermi
sempre fatto capire che la vita è un mistero più grande delle nostre conoscenze abituali,
un mistero da interrogare e su cui è possibile cominciare una ricerca di Verità.
Nell’agosto del 1999 un evento molto particolare segnò l’inizio di un nuovo modo di
esperire la realtà: era pomeriggio, e mi trovavo nella casa dove abitavo insieme a mia
madre. Ero in camera da letto insieme a un amico il quale praticava già da un anno con lo
stesso maestro di mia madre. Devo molto a questo amico per avermi aiutato in momenti
davvero difficili e per essermi stato vicino quando tutte le altre persone mi denigravano.
Stavamo parlando della mia sofferenza, quando ad un certo momento, mentre gli stavo
esponendo la volontà che avevo di cambiare interiormente e l’incapacità di farlo,
specialmente nei confronti del bere e del fumare, egli mi interruppe indicando una scala
aperta che si trovava al centro della stanza e disse: «Massi, non devi fare molto, basta che
ti fermi un attimo e guardi la scala, vedrai che dopo un po’ comincerà a parlarti!».
Per un istante, dopo che mi disse ciò, “vidi” la scala! In quel momento non sapevo dirmi
cosa avessi visto in quella semplice scala da muratore, tranne che “la vidi” come se fosse
la prima volta. Accadde che per un istante quella scala mi “abbagliò” e subito dopo
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avvertii un senso di nitidezza interiore come se una sorgente di verità m’avesse ripulito
dal malessere precedente e, senza sapere come, riconobbi subito l’autenticità e la
saggezza di quella indicazione: la scala stava “parlando” al di là di tutte le parole. Ciò
che accadde in quel momento fu la prima scintilla di quella che un mese dopo divenne
un’esplosione immensa...
Nell’ottobre dello stesso anno mi trovavo al mare a Lido Adriano e stavo camminando
lungo una strada del paese quando ad un certo punto udii la voce di un bambino
provenire dal balcone di una casa; stava sicuramente giocando quando improvvisamente
prese a vociare: «Si può sapere come va a finire questa storia?!».
Ecco, quella esclamazione penetrò dentro il mio cuore come una lama, avvertii dentro di
me, da qualche parte, la voce di un fanciullo che litiga con il destino, poiché era
esattamente ciò che mi stavo chiedendo: «Ma come andrà mai a finire questa storia?!».
Tale domanda si trasformò in un enigma esaltante, capace di procurarmi altre piccole
gocce di quella poesia più grande della sofferenza stessa...
Per tutto il giorno rimasi in uno stato sospeso di incapacitazione malinconica, pensavo
alla mia vita, al mio futuro, mi rendevo conto che non potevo sapere nulla di come
sarebbero andate le cose, nemmeno a distanza di un minuto, e questo in un certo senso mi
faceva stare bene. Quando mi ponevo quella bellissima domanda tanto enigmatica,
provavo incapacitazione perché vedevo che un finale della “storia”, ovvero una qualsiasi
soluzione risolutiva alla mia vita e alla mia sofferenza, non poteva esistere in quanto
sarebbe stato come voler trovare la fine di una storia che è infinita. Inoltre sentivo le
conclusioni sulla vita essere arbitrarie, essere tutte scatole di latta, anche se non ero
capace di dirmi il perché; d’altronde non mi ponevo molte domande filosofiche, cercavo
piuttosto delle risposte nell’ambito delle sensazioni, come l’abbandonarmi all’istante
presente e scrivere poesie ispirandomi a quella sofferenza estatica nella solitudine
notturna.
Da un lato dunque vivevo tale domanda come irrisolta di fronte all’eternità dell’esistenza,
dall’altro la vivevo veramente nell’aspettativa e nel bisogno profondo di una risposta
finale, ovvero sentivo che la mia sofferenza doveva trovare uno sfocio completamente
diverso da quelli che già conoscevo.
Una domenica dello stesso mese, nella casa dei miei nonni sempre a Lido Adriano, mi
sdraiai sul letto a scrivere poesie. Era uno di quei momenti in cui soffrivo di fortissima
malinconia, ma quella sera mi prese più forte del solito, talmente forte che sentii
l’esigenza immediata di scrivere. In quell’istante mi sentii travolto e guidato da una
gigantesca e travolgente forza grazie alla quale iniziai a descrivere le sensazioni pure e
semplici nel presente di quel profondo malessere...
Inizialmente mi attraversò un dolce sapore, più dolce del miele, che subito cominciò a
intensificarsi fino a trasformarsi in un bruciore fortissimo nel petto. Il mio cuore prese a
sussultare insieme a una sensazione stridente, simile a quando si ascolta una nota stonata,
solo che era mille volte più intensa. Improvvisamente vidi le cose attorno a me diventare
completamente ignote, compreso me stesso che le stavo guardando. Osservai innanzitutto
la penna nella mia mano mostrarsi come un oggetto quasi orrido, tanto che non riuscii
nemmeno più a tenerla in mano, poi vidi le pareti della mia stanza come non le avevo mai
viste: più miracolose di un qualsiasi miracolo, così assurde da apparire accecanti,
abbaglianti di mistero. Infine mi alzai in piedi: era come se d’incanto fossi atterrato su un
pianeta completamente sconosciuto; avrei voluto volare da quanto era stridente il contatto
con il suolo, non riuscivo quasi a reggerlo, e bruciava il mio cuore di un assurdo
indescrivibile. Ogni cosa intorno a me pareva riempirsi di luce abbagliante: scintille di
brace ardente, scintille che da sempre erano presenti a gridare la propria presenza
assurda. Ovunque posavo gli occhi trovavo solo l’urlo silenzioso della stessa cosa:
l’esistenza, assurdamente presente e inconoscibile, il fatto che le cose sono e non nonsono,
poiché il nulla non si dà.
Questa è la fonte di quel continuo stupore di cui parlava il maestro di mia madre: lo
stupore per il fatto che noi stessi e tutto ciò che ci circonda esista inspiegabilmente,
giacché se il motivo ci fosse a sua volta dovrebbe star esistendo insieme a tutto il resto...
Da quel momento in poi smisi di soffrire e capii che quell’esperienza costituiva la vera
fine della storia, la fine del dolore, la risposta al nostro sentire che sempre è insoddisfatto
e insofferente...
Queste sono le parole che scrissi quella sera:
Immobile e silenzioso
Ascolto le grida dei muri...