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Parola d’ordine: flessibilità

di Andrea Bertaglio - 18/09/2013

Fonte: greenme.it




 

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Ci si deve stupire se in una società basata sul continuo consumo di merci e una loro sempre più rapida sostituzione, anche le relazioni umane sono soggette alle stesse dinamiche? Non possiamo negare che il diffondersi dei modelli di consumo hanno ormai abbracciato ogni aspetto dell’esistenza, né che negli ultimi decenni una invadente mercificazione dei processi della vita ci ha portati a prediligere quei rapporti umani che hanno per noi una sorta di riscontro economico finale. 

E allora, ha ancora senso stare a chiedersi come siano possibili un aumento esponenziale dei divorzi, una diffusione senza precedenti della sensazione di solitudine, un individualismo disarmante, l’incapacità di comunicare o qualunque altro fenomeno di questo tipo (con i conseguenti abusi di droghe, alcool o psicofarmaci)? 

Oggi la parola d’ordine è “flessibilità”. Bisogna essere o sentirsi pronti al costante cambiamento, alla costante novità, ed è assolutamente lecito annoiarsi appena i jinglepubblicitari, i rumori e le lucine a cui siamo abituati tendono anche solo ad affievolirsi. Ogni situazione è temporanea, dal lavoro alle amicizie, ogni novità è pronta dalla nascita ad essere sostituita. E soprattutto, se non ci si guadagna niente (e questo è anche comprensibile, oggi più che mai), meglio lasciar perdere. 

Sempre di più, sempre più nuovo, sempre diverso, sempre alla ricerca di un nuovo desiderio subito da rinnovare: la vera dipendenza della mia generazione, il suo dovere, la sua gabbia. Tutti aperti al cambiamento, ma solo a quello di pelle. Tutti pronti a cambiarsi d’abito più volte al giorno, seppur in molti casi incapaci di cambiare una singola abitudine. Badiamo al look, al cool, al new. Basta che sulla confezione di un prodotto ci sia scritto “nuovo” e lo compriamo d’istinto, ma fuori dai muri dei centri commerciali non siamo in grado di guardare al mondo con altri occhi. 

Usiamo e gettiamo i rapporti umani in base ai nostri comodi, senza però renderci conto che, così facendo, usiamo e gettiamo noi stessi. Stiamo a badare a quale automobile si adatta maggiormente all’immagine che vogliamo dare di noi, a quale colore di scarpe o di pantaloni potrebbe esprimere al meglio la nostra identità (spesso, in assenza di un Dio o di un credo politico, l’unico modo per sentire di averne una). 

Curiamo i dettagli del nostro aspetto (in certi casi coprendoci di ridicolo), perché “i dettagli sono tutto”, come consigliano (a migliaia di lettori) le riviste specializzate nella costruzione di un proprio stile. Ma questa sindrome dell’identità che si fa e si disfa continuamente ad ogni cambio di stagione (autunno-inverno, primavera-estate) ha gradualmente ma inesorabilmente assunto il controllo anche sui rapporti e i legami interpersonali.

Pensiamo alle amicizie, magari a quelle su facebook. Che cosa c’è di più superficiale di persone che non si vedono da decenni, che non si salutano nemmeno se si incontrano per strada, o che addirittura nemmeno si conoscono di persona, ma che si definiscono “amiche” (da esporre bellamente in bacheca per far vedere al mondo quanti se ne hanno)? Quanta solitudine c’è dietro questa fiera del narcisismo? Forse troppa. Soprattutto se si pensa al fatto che con un “click” si può avviare o interrompere una “amicizia”, o che la si può richiedere senza poi prendersi nemmeno la briga di rispondere a una domanda del tipo «Oh quanto tempo! Come stai?». 

E anche nel caso in cui si riuscisse a mantenere in contatto (cosa bellissima), perché farlo se, dopo dieci o vent’anni che non ci si vede, con tutte le cose che si avrebbero da raccontare, il messaggio che arriva è ad esempio «Quale personaggio dell’”Era glaciale” sei?». Dietro questi rapporti umani, se così li si può chiamare, c’è il nulla. C’è il tentativo di credere e di far credere di non essere soli. Effetto collaterale di una generazione sacrificata al dio consumo. E alla dea apparenza.