La situazione siriana e la “La quarta guerra mondiale”
di Diego Fusaro - 20/09/2013
Fonte: eidoteca
- Gentile Diego Fusaro, per quanto riguarda l’attuale situazione in Siria, tu sei stato uno dei pochi che, coraggiosamente, hai parlato di un’ “opera di demonizzazione”. In che senso?
L’ho detto e l’ho anche scritto in tempi non sospetti, nel mio lavoro Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (2012). Armi chimiche, armi di distruzione di massa, violazione dei diritti umani: queste accuse – nello scenario post-1989 – sono immancabilmente la copertura mediatica che prepara ideologicamente l’opinione pubblica alla necessità del bombardamento, sempre in nome dei diritti umani e della democrazia (la solita foglia di fico per occultare la natura imperialistica delle aggressioni statunitensi). L’apparato dell’industria culturale si è già mobilitato, complici il clero giornalistico e il main stream mediatico: e l’ha fatto diffamando in ogni maniera lo Stato siriano, in modo da porre in essere, a livello di opinione pubblica, le condizioni per il necessario bombardamento umanitario. Non è certo un caso che Assad sia stato presentato come il nuovo Hitler, in modo da legittimare il “modello Hiroshima”, cioè il bombardamento come “male necessario”.
Molte tue riflessioni si ispirano, per poi prendere una strada autonoma, al pensiero del filosofo contemporaneo Costanzo Preve. Preve ha scritto un importante saggio, intitolato “La quarta guerra mondiale”, in cui delinea, in modo molto preciso, la così detta avanzata degli Stati Uniti quale potenza economica e politica. Perché questo titolo?
Con il crollo della struttura diarchica dell’universo (Berlino, 9.11.1989), si è aperta una nuova fase di conflitti, tutti diversi e, insieme, interni a quella che Preve ha qualificato come “quarta guerra mondiale”. Essa, successiva alla terza (la “Guerra fredda”), è di ordine geopolitico e culturale ed è condotta dagli USA contro the rest of the world, contro tutti i popoli e le nazioni che non siano disposti a sottomettersi al suo dominio. L’atto genetico della presente quarta guerra mondiale deve essere rintracciato nell’implosione della forza politica che, per quasi cinquant’anni, aveva reso possibile il congelamento dei conflitti, pur con l’eccezione di alcuni rilevanti punti “caldi” (dalla Corea al Vietnam). Dissoltosi quello che, con il lessico della teologia politica, potremmo definire il “potere frenante” (katechon) comunista, la scena mondiale si è contraddistinta per la riesplosione virulenta dei conflitti imperialistici: sconfitta l’Unione Sovietica, gli USA aspirano alla conquista del mondo intero. Il modello, peraltro, è sempre lo stesso (ed è sorprendente come il potere ottundente della manipolazione organizzata riesca a renderlo invisibile): è la solita commedia – che farebbe ridere, se non facesse piangere! – per cui c’è sempre un nuovo Hitler (Saddam 1991, Milosevic 1999, Gheddafi 2006, Assad 2013!), quindi deve esserci una nuova Hiroshima.
Cosa lega “La quarta guerra mondiale” con la situazione odierna in Siria?
Pur con tutti i suoi limiti interni (che non mi sogno certo di negare o anche solo di ridimensionare), la Siria è uno Stato che resiste all’impero americano: quest’ultimo, non a caso, l’ha da tempo inserita nelle sue “liste di proscrizione” globali, bollandola come rogue State (ossia negandole, di fatto, il diritto stesso di esistere come Stato sovrano). Né va dimenticato che la Siria è la più stretta alleata dell’Iran, il vero nemico degli USA in quell’area del mondo…
La lotta al capitalismo è uno dei tuoi temi forti. Cosa direbbe oggi Marx e in che cosa, secondo te, abbiamo sbagliato?
Marx, oggi, si coprirebbe gli occhi per non vedere gli orrori della mercificazione universale e del precariato, dell’imperialismo umanitario e dell’Europa (il nobile nome che siamo soliti attribuire al progetto criminale eurocratico, in cui con la violenza economica si ottiene ciò che un tempo era guadagnato tramite i carri armati). L’errore principale – cifra dell’odierna condizione neoliberale – consiste nel pensare che l’odierno fanatismo dell’economia (propongo di chiamare così il capitalismo) sia un destino intrascendibile, un fato ineluttabile. Occorre, invece, tornare a rioccupare il futuro con progetti di cambiamento, che mettano in discussione i dogmi della teologia neoliberale, primo tra tutti il suo comandamento fondamentale: “non avrai altra società all’infuori di questa!”.
In che modo la filosofia può aiutare in questo grave momento di crisi epocale?
In molti modi, direi: a patto che non si riduca, essa stessa, ad apologia dell’esistente, smarrendo il proprio pathos antiadattivo e il proprio “spirito di scissione”, come lo chiamava Gramsci. A debita distanza dalle mode filosofiche, che la riducono a chiacchiera d’intrattenimento, a sterile logomachia e a serenata per il potere, occorre riscoprire la passione progettuale della filosofia come critica radicale dell’esistente e come perseguimento di un’ulteriortà nobilitante, più entusiasmante della miseria oggi dominante su tutto il giro d’orizzonte. Ci vuole molto coraggio per coltivare la filosofia nel tempo in cui tutti calcolano e nessuno più pensa.
Intervista a cura di Andrea Pollastri