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Il diritto negato alla tradizione. In morte delle culture locali e di Pier Paolo Pasolini

di Gian Maria Bavestrello - 21/10/2013

Fonte: heimat.altervista


Gerard Dou, La Preghiera della FilatriceDopo quello che abbiamo definito il falso mito del diritto alla cultura, forse suscitando l’orrore di qualcuno, ci occupiamo dell’autentico mito di un diritto negato, un diritto che può avere diversi nomi ma che qui definiremo, semplicemente, diritto alla tradizione.

Hic et nunc il termine tradizione viene assunto nella sua pura semplicità che lo rimanda, direttamente, al patrimonio simbolico e culturale trasmesso di generazione in generazione. L’Italia è un Paese di tradizioni interrotte, di culture locali che in forza di una serie di con-cause hanno cessato di essere trasmesse di Padre in Figlio, di Madre in Figlia. I tratti comuni di queste culture erano l’oralità e il dialetto (lingue sì, ma non codificate e dunque legate al vitalismo delle comunutà parlanti), e tutte manifestavano sia lo scopo di produrre la massima autonomia del singolo nella sfera produttiva,  sia la qualità che, curiosamente ma nemmeno troppo, Alan W. Watts assegna al Taoismo,  l’antico sistema metafisico, etico e infine religioso della Cina, nel suo celebre lavoro “Il Tao. La via dell’acqua che scorre”: “L’antica filosofia del Tao segue in modo abile ed intelligente il corso, la corrente e le venature dei fenomeni naturali, considerando la vita umana come un’integrale caratteristica del processo del mondo”.  Diversa, quindi, dalla scienza occidentale che “ha posto l’accento sull’atteggiamento di oggettività – un freddo, calcolatore e distaccato atteggiamento per mezzo del quale appare che i fenomeni naturali, incluso l’organismo umano, non sono altro che meccanismi”.

Le tradizioni interrotte d’Italia erano culture in cui la sapienza si scambiava con la saggezza, in un gioco caleidoscopico di empirismo, produzione fiabesca, pragmatismo, originalità. Erano, anche, confini difficilmente superabili dal Potere, persino da quello religioso che doveva, sovente, scendere a patti con le tradizioni pre-esistenti e con le credenze ataviche delle comunità.  Erano veri e propri anticorpi sociali alle pretese di “dominio” che le istituzioni del tempo coltivavano nei confronti dei propri sottoposti, emblemi di un’alterità che tracciava una demarcazione netta tra chi esercitava il potere e chi poteva ribellarvisi.

Perché e come queste tradizioni sono state interrotte e rescisse? Chi o cosa minacciavano concretamente?

La loro eliminazione era naturaliter funzionale all’affermazione dello Stato nazionale, di quella moderna unità linguistica e storica che si affermò – ancorché incompiutamente – attraverso la scuola, la guerra e, infine, attraverso la televisione, lo strumento di comunicazione, manipolazione e persuasione più potente che sia mai apparso sulla scena della storia.

Il 9 dicembre 1973, dalle colonne del Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini lanciava uno storico monito dal carattere profetico: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata”. L’articolo prosegue: “Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo”.

La soppressione delle culture popolari era anche un atavico obiettivo di coloro che professavano l’affermazione definitiva di una nuova fede, quella nella scienza. Oggi sappiamo, o dovremmo sapere, che nessuna verità scientifica è inconfutabile, che nulla di quanto è scientifico può non essere superato. Ciononostante, attribuiamo alla scienza un valore dogmatico. Ciononostante, abbiamo elevato la scienza a nuova religione, con i suoi riti, i suoi sacerdoti e i suoi anatemi, pagando questo scotto con la perdita di bio-diversità culturale, la disumanizzazione del lavoro, l’iper-medicalizzazione, il costante tentativo di superamento dell’ultima etica possibile, l’etica della vita o bio-etica.

Attraverso il mito della sapere scientifico, passate le co-scienze per la “spada” della televisione ,  siamo giunti a una nuova ortodossia del pensiero che ci avvolge da ogni lato, offrendoci risposte ma risparmiandoci domande: un nuovo totalitarismo a cui le tradizioni locali avrebbero contrapposto un anarco-liberismo del pensiero, basato sulla trasmissione “selvatica” di ciò che agli invidui spetta loro non in virtù di un inconsistente diritto sociale alla redistribuzione del reddito ma di un diritto naturale alla trasmissione di simboli – mai davvero assimilati alla cultura ufficiale, nemmeno da quella religiosa – e al loro recepimento.

Il processo di nazionalizzazione e costruzione della nazione, giustificato da un presunto “riscatto” delle masse dall’ignoranza da cui sarebbero state afflitte, si manifesta oggi come un processo di giustificazione dello Stato e dei processi persuasivi di potere, manipolazione e controllo sulle coscienze. Quanto poco efficace sia questo processo nel creare uomini liberi, lo testimonia l’analfabetismo di ritorno a cui la maggior parte della popolazione,  dopo essere stata privata della sua iniziazione al sapere locale, viene condannata. Ma siamo sicuri che si tratti davvero di analfabetismo di ritorno, o forse l’unico alfabetismo che interessa alle istituzioni scolastiche è quello di instillare, nelle anime giovani, niente più che “Miti”, mere credenze e principi prodotti sotto l’egida della certezza scientifica e certificati dal complesso militare-industriale?

Può una società massificata, in cui il sapere e la cultura delle masse non sono argini all’esercizio del potere ma sue dirette emanazioni, essere davvero una società di uomini liberi?