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Se questa è una democrazia

di Gian Maria Bavestrello - 04/12/2013

Fonte: heimat

Da tempo Il prof. Tullio De Mauro è molto chiaro.  I dati sull’analfabetismo di ritorno, fondati su ricerche internazionali, certificano che il 71 per cento della popolazione italiana non è in grado di comprendere un testo di media difficoltà. L’ assoluta maggioranza degli italiani, tirando le somme, non appare in grado di vivere in una società complessa, con conseguenze epocali sul piano politico.

Se in una democrazia la sovranità appartiene al popolo, questi deve essere in grado di esercitarla attraverso una partecipazione qualificata alla vita politica, partecipazione non solo al voto ma anche alla formazione del consenso e dell’agenda istituzionale. Questo non accade né potrebbe accadere. Gli italiani, o  almeno maggioranza di essi, subiscono la politica, quando non la imbarbariscono tramutandola in una ripetizione di “mantra” senza spessore e prospettiva. In questo scenario la domanda sulla tenuta della democrazia appare tanto ineluttabile quanto il dovere di registrarne i valori vitali.

Anche perché l’analfabetismo di ritorno non è che una delle linee di frattura nel rapporto – sempre più fragile, precario e litigioso – fra democrazia e realtà. Alcune di queste linee sono strutturali alla storia del nostro Paese, altre stanno emergendo in questo ultimo periodo. Tra le prime: l’assenza di una cultura liberale che da un lato ponga gli interessi dello Stato in posizione preminente a quelli dei partiti (e delle lobbies che li sostengono), e che dall’altro veda nel cittadino il terminale della politica e non un suo strumento; questa stessa assenza conduce a vedere nelle forme più crude della libertà d’espressione, oggi individuate nel pensiero fobico (omofobico, xenofobico etc.), l’occasione di una reazione altrettanto fobica da parte delle istituzioni, che si sentono legittimate a mazzolare gli sciagurati con quella clava chiamata “reato d’opinione”. Un tic antico, questo, che accomuna la nostra democrazia a sistemi di segno opposto e che rivela come la democrazia, per la classe politica italiana, dovrebbe  assomigliare più a un regime con i propri sacrosanti tabù che a un sistema di governo neutro il cui valore aggiunto risiede proprio nella rinuncia all’idea di potere come regime.

 

Come non sottolineare, quindi, la scarsa indipendenza reciproca tra i poteri, che genera situazioni di conflittualità endemica: la mancanza di sufficiente autonomia da parte del potere esecutivo rispetto al Parlamento, i vasi apertamente comunicanti tra politica e magistratura, l’assenza di un vero pluralismo nell’informazione, la permanenza di una cultura corporativa che crea e sollecita barriere d’accesso all’esercizio dell’informazione, oggi sempre più alzate contro la libertà d’espressione su web.

Più recente è invece la trasformazione  della democrazia in un sistema chiamato a rispondere e a interpretare non i desideri dei cittadini ma dei mercati, a tranquillizzare a ogni piè sospinto quegli attori dell’universo finanziario, notoriamente umorali, instabili, nevrotici, tra cui si camuffano abilmente speculatori pronti ad approfittare di ogni varco di credibilità (e sono tanti) lasciato aperto dalla politica insieme alla voragine di un debito pubblico contratto senza consenso.  Recente è anche la crisi di rappresentanza di una politica costruita su partiti: chiamati ad essere i principali “collettori” di interessi e valori diffusi, essi agiscono in modo auto-referenziale, navigando tra l’apatia e l’indignazione popolare. Questa crisi è tanto più grave quanto più una Repubblica si vuole parlamentare e pretende di giustificare la propria democrazia, agli occhi del mondo, con un dibattito interno alle istituzioni; un dibattuto che dovrebbe essere “specchio” del Paese e delle sue aspirazioni. Ed è questa stessa crisi dei partiti, per inciso, a impedire anche il rinnovamento della classe politica, che oggi avviene non attraverso una “scuola” ma per via cooptatativa o, nel migliore dei casi, per investitura mediatica.

Ritornando ai problemi strutturali, non sfugge nemmeno la debolezza delle forme di partecipazione diretta, che in Italia sono costituzionalmente limitate al referendum abrogativo con quorum:  le rare occasioni in cui incontrano l’entusiasmo popolare come in caso del dibattito sull’acqua pubblica, incassano poi il fastidio della classe dirigente, che si rifiuta di trarne le conseguenze in termini di nuove leggi consone alla volontà democratica.

Proseguiamo con un ulteriore dato inaggirabile:  l’Italia non è una nazione.  La frattura tra Stato e Nazione è consustanziale all’Italia, un dato che affonda nella celebre espressione di Klemens von Metternich che la voleva una semplice “espressione geografica”. A distanza di quasi 200 anni, il beffardo austriaco ha ancora ragione da vendere: nonostante una crisi devastante e un’indignazione giunta alle stelle, gli italiani non sono riusciti ad organizzare un solo vero movimento di piazza, spontaneo, capace di portare tra le vie il tricolore. Non sono stati capaci di riappropriarsi dei propri simboli e della propria storia, di urlare ai palazzi “Noi siamo la nazione”. Inutile sperare che questo accada: come nei decenni precedenti solo i partiti sapevano aggregare e accendere l’entusiasmo delle folle in nome degli interessi di classe, oggi – in piena era post-ideologica – solo interessi sindacali , di categoria o di territorio,  in breve solo interessi particolari e limitati,  sanno suscitare un parziale e mirato desiderio di ribellione.  Può una democrazia  priva di popolo auto-cosciente, chiedo, sfuggire al destino di democrazia plebea, senza anti-corpi e senza difese, in balia di una classe politica ferina?

Deve essere allora detto con grande chiarezza che in Italia non ha alcun senso parlare di democrazia, se con democrazia intendiamo una forma di governo costruita sulla partecipazione consapevole e fiduciosa del cittadino in un quadro di diritti e doveri, di “pesi” e “contrappesi” che siano garanzia di rispondenza delle decisioni al sentire della maggioranza e di spazi d’agibilità per le minoranze.  Sorprende, pertanto, che nessuno parli di “crisi della democrazia”, preferendo limitare la parola “crisi” a un destino di recessione e impoverimento che prima o poi conoscerà la parola fine.

La crisi economica è solo l’effetto di una crisi di più vasta portata, che investe le istituzioni, la società civile e i gangli culturali di un sistema i cui ingranaggi sembrano compromessi definitivamente. Non parlarne o parlarne solo in relazione a un singolo uomo, Silvio Berlusconi, anch’egli figlio di questo contesto e nulla più, non aiuta. Anche usare l’espressione “crisi della politica” è limitativo, perché non da la misura di un problema che investe le fondamenta stesse dello Stato e richiede un pensiero radicale, coraggioso e senza pregiudizi di cui nessuno, a partire dagli intellettuali, sembra capace.

Portare il pensiero al di fuori dei miti che lo hanno ingessato -  il mito della Resistenza, il mito dell’uguaglianza, il mito della scuola (e della spesa) pubblica, il mito dello Stato nazionale parto del Risorgimento, la democrazia stessa come mito  – significa fare esperienza di una “spaesatezza” che terrorizza un’intellighenzia abituata a preferire le risposte alle domande,  l’immobile “sostare” in una radura asfittica ma dai contorni rassicuranti che l’oscuro peregrinare tra i propri demoni in cerca di un “Altrove” da scoprire, ri-scoprire o forse costruire. Un altrove che potrebbe non essere il migliore dei mondi possibili, che potrebbe “rivoluzionare” molte delle nostre attuali certezze, che potrebbe demistificare, dietro la spinta del realismo politico, molti di quelli che oggi chiamiamo “diritti”, ma almeno un mondo dove la parola “futuro” cessi di risuonare come un incubo kafkiano.