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Bioregione versus megacity

di Alberto Magnaghi - 15/12/2013

Fonte: comune-info

Come resistere alle megacity del capitalismo? Con un controesodo, “un ‘ritorno al territorio’ come bene comune (alla terra, alla montagna, alla urbanità della città, ai sistemi socioeconomici locali) per disseppellire luoghi, ritrovare la misura umana delle città e degli insediamenti – scrive Alberto Magnaghi, docente alla facoltà di architettura di Firenze – Il che significa ricostruire relazioni sinergiche fra insediamento umano e ambiente; aiutare la crescita di «coscienza di luogo», ovvero la capacità della cittadinanza attiva di sviluppare, a partire da vertenze specifiche, saperi e forme di autogoverno per la cura dei luoghi, in primis dei fattori riproduttivi della vita; promuovere nuovi stili conviviali e sobri dell’abitare e del produrre; valorizzare le forme in atto di mobilitazione sociale, le reti civiche e le forme di autogestione dei beni comuni territoriali e ambientali, per produrre ricchezza durevole in ogni luogo del mondo attraverso una conversione ecologica e territorialista dell’economia e la costruzione di reti solidali per una ‘globalizzazione dal basso’».

 


L’urbanizzazione del mondo è irreversibile? Ma innanzitutto, perché mai fermarla? L’aria della città non rende liberi? Forse un tempo, quando ci si liberava dal feudo costruendo città e cittadinanza o quando, in seguito, ci si liberava dalla fatica dei campi e dalla precarietà del raccolto per andare a cercare un salario certo in fabbrica. Ma oggi la città, come terra promessa è, per la maggioranza degli abitanti della terra, solo un miraggio. Il più grande esodo della storia dell’umanità è duplice: verso l’iperspazio telematico, promessa di democrazia immateriale, ma anche assoggettamento al dominio delle reti globali, e verso le megacities e megaregions di decine di milioni di abitanti del Sud e dell’Est del mondo. Nel 2050, secondo l’Onu, su 9 miliardi di abitanti, 6,4 saranno urbanizzati. Questo percorso è iniziato con la crisi della città fabbrica fordista che aveva concentrato nelle cittadelle produttive del nord del mondo i flussi di forza lavoro dalle periferie regionali e globali, costruendo grandi aree e conurbazioni metropolitane al servizio del sistema produttivo massificato fordista.

Con la crisi di questo sistema dopo il grande ciclo di lotte operaie (1968-70) e la crisi petrolifera (1973) si avvia un doppio esodo: il primo regionale, che con il decentramento produttivo e la molecolarizzazione della grande fabbrica, costruisce il territorio della «città diffusa», che pervade distruttivamente le campagne e «urbanizza» vasti territori regionali; un processo che procede tutt’ora con edificazioni d’interesse esclusivo del capitale finanziario; il secondo più radicale che sposta dal nord al sud-est del mondo il ciclo produttivo globale provocando l’inurbamento forzato di milioni di contadini.

I protagonisti di questo megaesodo planetario non arrivano più in città. Arrivano in smisurate e sconfinate periferie, slums, favelas, urbanizzazioni illegali, frutto esponenziale e terminale dei processi di deterritorializzazione già avvenuti (ma con proporzioni e tempi diversi) nelle periferie della città-fabbrica occidentale: rottura delle relazioni culturali e ambientali con i luoghi e con la terra, perdita dei legami sociali, dissoluzione dello spazio pubblico, condizioni abitative decontestualizzate e omologate, crescita di nuove povertà. Questo «regno del posturbano» (e del postrurale) si è costruito, nella civiltà delle macchine, con la rottura delle relazioni co-evolutive fra insediamento umano, natura e lavoro che ha caratterizzato, nel bene e nel male, le civilizzazioni precedenti.

Il percorso di «deterritorializzazione senza ritorno» che si è avviato con la recinzione dei commons, procede, nel tempo del grande esodo, con la privatizzazione e la mercificazione progressiva dei beni comuni naturali (la Terra, innanzitutto, e poi l’acqua, l’aria, le fonti energetiche naturali, le selve, i fiumi, i laghi, i mari e cosi via), e dei beni comuni territoriali (città e infrastrutture storiche, sistemi agroforestali, paesaggi, opere idrauliche, bonifiche, opifici, impianti energetici).

Autogestioni locali

Questa deterritorializzazione ha trasformato progressivamente gli abitanti (che ancora nella città fabbrica esprimono la forza collettiva per rivendicare nel territorio condizioni di vita adeguate) in consumatori individuali e clienti del mercato e i luoghi in siti occupati da funzioni che rispondono a reti globali. L’urbanizzazione del pianeta che compie questo processo è dunque catastrofica per la mutazione antropologica che produce con la fine della città e della cittadinanza, oltre che ecocatastrofica per gli effetti sul clima, sul consumo di suolo fertile, sugli ecosistemi, provocati dalla dimensione, velocità e forma dei processi di inurbamento. Si compie così un percorso, analizzato da molti osservatori scientifici, da una parte verso una condizione urbana globale (ma non di urbanità) come destino esclusivo dell’umanità sul pianeta, dall’altra, «fuori le mura», verso l’abbandono e l’inselvatichimento di molti spazi aperti, resi inospitali per la vita dell’uomo da processi di degrado, desertificazione, alluvioni; e verso lo sfruttamento commerciale della natura fertile residua.

Se questa urbanizzazione globale non è più la terra promessa, vanno allora ricercate forme di controesodo: accrescendo la resistenza (in via di crescita) dei luoghi periferici e marginali al loro definitivo tramonto e colonizzazione e favorendo il loro ripopolamento con nuovi agricoltori, alleati con cittadini consapevoli, per la costruzione di una nuova civilizzazione urbana e rurale.

Il controesodo è un «ritorno al territorio» come bene comune (alla terra, alla montagna, alla urbanità della città, ai sistemi socioeconomici locali) per disseppellire luoghi, ritrovare la misura umana delle città e degli insediamenti. Il che significa ricostruire relazioni sinergiche fra insediamento umano e ambiente; aiutare la crescita di «coscienza di luogo», ovvero la capacità della cittadinanza attiva di sviluppare, a partire da vertenze specifiche, saperi e forme di autogoverno per la cura dei luoghi, in primis dei fattori riproduttivi della vita; promuovere nuovi stili conviviali e sobri dell’abitare e del produrre; valorizzare le forme in atto di mobilitazione sociale, le reti civiche e le forme di autogestione dei beni comuni territoriali e ambientali, per produrre ricchezza durevole in ogni luogo del mondo attraverso una conversione ecologica e territorialista dell’economia e la costruzione di reti solidali per una «globalizzazione dal basso».

Lo strumento concettuale e operativo che propongo, insieme a molti ricercatori della Società dei territorialisti, per avviare questo «ritorno al territorio» è la bioregione urbana, declinazione territorialista del concetto storico di bioregione: un modo di ridisegnare, in controtendenza, le relazioni virtuose fra insediamento umano, ambiente e storia che, similmente alla costruzione di una casa, individui e metta in opera gli «elementi costruttivi» di un progetto di territorio che produca l’autosostenibilità degli insediamenti umani.

Eccentricità a confronto

Questi elementi costruttivi sono, in sintesi: le culture e i saperi locali contestuali e esperti che si mobilitano per riattivare l’ars aedificandi dei mondi di vita delle comunità locali; gli equilibri idrogeomorfologici e la qualità delle reti ecologiche come precondizioni dell’insediamento umano e della sua capacità autorigenerativa; la decostruzione delle urbanizzazioni contemporanee centro-periferiche e la ricostruzione di centralità urbane policentriche e dei loro spazi pubblici (città di villaggi, reti di città in equilibrio ambientale con il loro territorio rurale); lo sviluppo di sistemi produttivi locali orientati alla messa in valore dei beni patrimoniali per la produzione di ricchezza durevole; la valorizzazione integrata delle risorse energetiche locali in coerenza con il patrimonio ambientale, territoriale e paesaggistico, per l’autoriproduzione della bioregione; i ruoli multifunzionali degli spazi agroforestali (già presenti in molte esperienze di neoruralità) per la riqualificazione delle relazioni città-campagna per la produzione di servizi ecosistemici e la riduzione della impronta ecologica; le istituzioni di democrazia partecipativa, le forme e le esperienze di gestione sociale dei beni comuni territoriali per l’autogoverno della bioregione.

Ognuno di questi «elementi costruttivi» si appoggia su energie sociali (comportamenti, movimenti, comitati, reti) che vanno esprimendo nuove forme del conflitto che si è desituato, almeno nelle regioni del nord del mondo, con la complessificazione crescente dei rapporti sociali di produzione, dalla centralità della contraddizione fra capitale e lavoro alla opposizione fra eterodirezione e autogoverno delle comunità locali, come già scrivevo nel 1981: «Due eccentricità si fronteggiano sul nuovo territorio metropolitano: le aree socioeconomiche in cui si disarticola il territorio della produzione, in quanto terminali informatizzati del nuovo ciclo di accumulazione e la formazione di nuovi bisogni di autodeterminazione della qualità della vita, emergenti in modo articolato e specifico nelle singole comunità socioeconomiche».

Il progetto di bioregione consolidandosi nel tempo in relazione alla evoluzione dalla coscienza di classe alla coscienza di luogo, fa riferimento a esperienze di ricerca-azione e di progettualità sociale del territorio in corso in alcune regioni europee dove l’urbanizzazione diffusa ha già raggiunto livelli difficilmente superabili; ma può nel contempo indicare strade per il contenimento del grande esodo verso megacity, contrapponendogli la visione di un pianeta brulicante di bioregioni in rete, per una globalizzazione dal basso fondata in ogni luogo sulla gestione collettiva del bene comune territorio.

La Società dei Territorialisti e il sistema vivente dei «luoghi»

La Società dei Territorialisti e delle Territorialiste è nata per iniziativa di un Comitato di garanti di diverse discipline di molte università italiane, per perseguire i seguenti obiettivi: a) sviluppare il dibattito scientifico per la fondazione di un corpus unitario, multisciplinare delle arti e scienze del territorio di indirizzo territorialista, che assuma la valorizzazione dei luoghi come base fondativa della conoscenza e dell’azione territoriale; b) promuovere indirizzi per le politiche e gli strumenti di governo del territorio a partire da questo corpus; c) indirizzare il dibattito sulla formazione di scuole, dipartimenti, dottorati, master di Scienze del territorio nelle università italiane; d) promuovere eventuali strutture di carattere culturale e scientifico al di fuori dell’Università; e) sviluppare relazioni internazionali mirate a estendere e confrontare i temi della Società.

Soprattutto, vi si favorisce un approccio che ha posto al centro dell’attenzione disciplinare il territorio come bene comune nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile. Si critica, invece, l’idea di una fatalità della deterritorializzazione e despazializzazione. L’approccio della Società interpreta il territorio, appunto, come un sistema vivente ad alta complessità che è prodotto dall’incontro fra eventi culturali e natura, composto da luoghi (o regioni) dotati di una propria storia, struttura e carattere. Ribadisce dunque il legame interattivo delle società umane con la terra (nella sua entità geologica, topografica, ecologica, vegetale e animale).