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Tecnica, natura, occidente: un conflitto dentro il conflitto?

di Gian Mattia Panena - 31/07/2006

 

 

Prometeo il duplice

          La civiltà occidentale é, tra tutte quelle che abitano il pianeta, la sola ad aver scatenato una vera e propria trasformazione del mondo, al di fuori di quegli schemi e di quei ritmi che le società tradizionali hanno sempre praticato. Il rapporto uomo natura che a grandi linee ha sempre visto il prevalere di quest’ultima, come quell’orizzonte nel quale la tecnica umana veniva riassorbita, conosce durante la storia dell’occidente un mutamento significativo: la proporzione si inverte ed é la natura a divenire si picciol cosa all’interno della città dell’uomo[1]. La storia di questo processo ha cause assai antiche, le cui origini trovano le proprie radici in quell’atteggiamento che Bachelard definisce «il complesso di Prometeo»[2]: attitudine tipicamente occidentale che spinge sempre al superamento di ogni limite con cui ci si viene a confrontare. Questa tendenza generale della tradizione occidentale, ha significato, dal punto di vista prettamente tecnico, la sostituzione del mondo naturale come orizzonte d’esperienza e l’imporsi, a questo fine, di un mondo tecnico e tecnologico da cui la vita si diparte, grazie al quale si svolge e nel quale termina. La sintassi tecnica, quindi, ha sostituito quella naturale: non c’é alcun topos che sia stato risparmiato da questo processo, sia esso il corpo dell’uomo, lo spazio, gli strati più nascosti della materia.

          Il mito greco delinea il quadro entro cui il rapporto tensivo tra uomo e natura si risolve, nel racconto prometeico. Tale racconto che vede come attori, uomini dei e come trait d’union il titano[3], dimostra che per gli antichi e non solo per i greci, la pulsione di adattamento allo spazio circostante, é sempre sentita come conflittuale[4]; Ciò che il mito rivela, in maniera molto moderna se vogliamo, e’ la condizione non solo di esistenza ma di ek-sistenza del singolo: il racconto indica infatti il passaggio da una sfera amniotica, incosciente, nella quale versava l’uomo prima del dono igneo da parte del titano. Il contatto col fuoco[5] viene a rappresentare il passaggio all’autocoscienza, alla comprensione del sé altrimenti impossibile, l’accesso ad un sapere differenziante[6] che segna il definitivo distacco dalla maternità uroborica, e il raggiungimento di una diversa condizione[7]: l’uomo é gettato al di fuori della partecipazione con la natura e in questa sua gettatezza (Geworfenheit) egli incontra anche la sua finitezza temporale, la mortalità[8]. Prima del dono di Prometeo, infatti, l’uomo abbisognava dell’aiuto della divinità per soddisfare le proprie esigenze di vita; egli era totalmente dipendente  e tale rapporto non era niente di più di quello che intercorre tra una madre ed un figlio piccolo, ancora ben lontano dall’autosufficienza.

          Il fuoco che Prometeo dona all’uomo rappresenta quindi il veicolo simbolico della sua emancipazione e del raggiungimento di una nuova e superiore  condizione, o meglio, dell’approdo alla dimensione umana, attraverso il distacco da quella animale.

          L’uomo é corredato di tecnica ora[9]: con essa si apre l’orizzonte del distacco da Zeus ma anche quello della propria mortalità[10], della propria finitezza. La natura diviene ostile e matrigna l’uomo può, rispetto al dio, vedere le cose nella loro duplicità innanzitutto, e quindi nella loro differenza relativa. Ciò apre la possibilità di dominare la realtà una volta differenziata nelle sue parti[11], di rendere operativa la tecnica, in primis, come processo di selezione oggettuale. All’uomo, inoltre é dato non solo di esistere, come accennavamo prima, ma di ek-sistere:  tutti gli enti esistono, le cose gli animali e noi medesimi; l’uomo, in più é da sempre aperto originariamente alla comprensione del mondo e alla manifestazione dell’essere.

          In questo modo egli oltrepassa la totalità uroborica e viene a rapportarsi verso il mondo inteso come un tu, proprio perché la perdita della condizione aurea ed amniotica lo pone di contro al mondo, nella direzione attiva della possibilità. 

          La ragione che si instaura sulla base della consapevolezza delle differenze porta all’uomo la facoltà di poter scegliere e quindi di agire: questo ci racconta il mito, questo simbolizza Prometeo[12]. Ciò non deve però indurci a considerare il rapporto tra uomo e natura, cioè tra tecnica e natura come sottoposto al volere della pura libertà umana: la natura é ciò che si ricompone al di là del nostro agire. Per il mito essa é sottoposta non tanto al volere di Zeus, quanto a quello della Necessità (Ananke) e della Giustizia (Dike): a queste due entità tutti sono sottoposti, persino gli dei. Tali forze tracciano il limite, il perimetro entro il quale sia le azioni umane che quelle divine sono contenute e fanno sì che qualsiasi tentativo di sopraffazione sia destinato a naufragare contro le leggi inviolabili del cosmo[13]. La tecnica umana ha, quindi, una propria misura e la vicenda del titano, attraverso anche e soprattutto il supplizio che patisce, insegna che la volontà di dominare la natura[14] si ricompone, in ogni caso, all’interno di quest’ultima.

La volontà di potenza che si esprime in Prometeo viene punita sulla montagna sacra, il Caucaso[15]: l’aquila rode il fegato al titano ogni giorno, dopo che esso si é riformato. Anche se la tradizione ci informa che la vicenda avrà un «lieto fine»[16], ciò che ci preme sottolineare é che la sua figura risulta ad uno sguardo più attento, ambigua: egli, pur appartenendo alla stirpe dei Titani non esita a mettersi dalla parte di Zeus, determinandone la vittoria; d’altra parte non esita a tradire quello per donare il fuoco ed emancipare l’uomo.

          La duplicità prometeica riflette anche la duplicità della tecnica stessa: essa è strumento di emancipazione ma é un’insidia allo stesso tempo, sia per l’uomo che per gli dei. Per la tragedia, ad esempio, l’uomo non é un essere tra gli altri: la sua natura viene percepita come la più inquietante (to deinotaton), perché essa si rivela come l’indole della creatura che esercita la violenza in seno all’essente. Una volta gettato nel mondo egli deve ritagliarsi il proprio spazio in un mondo differenziato in cui e’ costretto ad aggirarsi[17]. Egli supplisce alla carenza istintuale che ha, rispetto alla perfezione e alla compiutezza dell’animale, col trovare da sé la sua strada.

          Sempre per la tragedia egli é pantoporos aporos, cioè capace di percorrere tutte le vie ma senza averne una precisa: l’uomo é quindi de-viato dal corso della natura.

          In questa sua solitudine risiede anche la sua tragica grandezza, cioè l’essere aperto alla progettualità come apertura al mondo e alla temporalità, alla morte ed alla libertà.

          Pantoporos aporos: in questo ossimoro Sofocle racchiude la tremenda condizione dell’unica creatura che ek-siste al di fuori della compiutezza della natura, poiché l’agire umano tende a lottare contro il nulla ed é destinato ad approdare infine ad esso; il nulla che qui si intende é il nulla della morte, orizzonte ultimo e predestinato di ogni vita.[18] L’atto di sfida agli dei che Prometeo compie e’un atto duplice: da un lato esso é un’azione filantropica perché egli sceglie di amare l’uomo, avversando gli dei: dall’altro egli ricrea l’uomo, lo riplasma relegandolo nella solitudine della propria volontà.

          Quest’ultima é, però, orientata dalla scelta che l’uomo é costretto a mettere in atto nella mancanza di un’istintualità compiuta: l’uomo elegge dei fini, degli scopi verso i quali indirizzare la propria tecnica: é per questo che quest’ultima non fa che spostare l’accento della schiavitù dagli dei a se stessa.

          L’illusione che Prometeo consegna alla modernità é quella di «sciogliere l’azione umana dai vincoli posti dalla Necessità, che regge l’ordine cosmico»[19]. Gli strumenti risultano incapaci di eleggere valori ultimi, perciò la tecnica deve essere governata , se si vuole, da qualcosa di ancora più tecnico, per evitare che ciò che libera divenga a sua volta ciò che imprigiona.

 

 

Temporalità della tecnica.

          Per l’uomo arcaico esistono due temporalità: il tempo profano, quello quotidiano che non ha nessun valore dal punto di vista religioso e quello sacro che ha una valenza ontologicamente piena. Il rito, nella costante ripetizione dell’illud tempus, opera la riattuazione del tempo sacro, riproposizione ontologicamente identica di un evento accaduto all’origine del mondo.

Il rito permette all’uomo un’apertura permanente sul tempo religioso[20], grazie al quale non solo l’evento originario e’ di nuovo vivificato, ma anche rende possibile annullare il tempo profano, storico: tutto questo distingue in maniera assoluta l’uomo arcaico da quello moderno. Per il primo il tempo profano rappresenta, nel suo scandirsi un allontanamento dalla purezza dell’origine: il tempo ha una struttura circolare che rende possibile recuperare e ripetere i gesti fondanti e cosmologici degli dei. La natura, attraverso i suoi ritmi, garantisce la ciclicità del tempo, laddove ogni primavera é importante non tanto perché con essa, la rigenerazione manifesti questa o quella forza, ma per il fatto che con essa  venga replicato l’atto primo della cosmogonia.

          Il tempo arcaico é quindi temporalità eterogenea, profana e sacra: la prima appare come attraversata da «incisioni»[21] nelle quali la seconda può irrompere e vivificare. Inoltre, secondo questa prospettiva, la forma del sacro va estesa anche allo spazio oltre che al tempo: come abbiamo accennato in precedenza é dal Centro sacro che ha inizio e si irradia la creazione; il mondo é quindi tutto ciò che é contenuto all’interno  della circonferenza che si costruisce intorno al Centro[22].

          Allo stesso modo in cui esistono innumerevoli centri sui quali l’uomo può edificare luoghi sacri, garantendo il punto di comunicazione tra i vari livelli della realtà, così esistono durante l’anno feste e riti che garantiscono la soddisfazione di questa esigenza.  Il rapporto col sacro si realizza anche nella possibilità di riprodurre le azioni religiose: l’edificazione di una casa, la cura di un campo assumono un connotato religioso, tanto che queste mansioni si basano sull’imitazione di gestualità divine. L’attività umana partecipando alla tradizione ed al sacro può accedere alla vera realtà permettendo al mondo di rigenerarsi[23]: in questo senso l’uomo arcaico guarda al mito come a quella tradizione paradigmatica che, descrivendo le gesta di uomini e dei, garantisce quella storia sacra a cui fare riferimento come modello per le azioni umane. Non solo, esso fornisce anche la giustificazione grazie alla quale le cose sono così e non in altro modo e localizza la posizione dell’uomo all’interno del cosmo evitando estraniazione ed inadeguatezza e donandogli un orizzonte di senso a cui fare riferimento.

          Per quanto riguarda il racconto Prometeico ci imbattiamo in un ulteriore duplicità, cioè in quella che potrebbe definirsi una «stratificazione del tempo»: Prometeo infatti cela un segreto a Zeus: il regno di quest’ultimo dovrà cedere il passo ad un altro potere: la potenza più efficace della tecnica avrà la meglio sull’arbitrio divino basato sulla forza. Inoltre il titano sa bene che sarà questo  rendere vano il potere di Zeus cioè la nuova temporalità che dalla tecnica scaturirà; la progettualità insita nella scelta di orientare i propri scopi, dare senso alla finitezza della vita, alla fine avrà il sopravvento.

           L’uomo vivendo al di fuori del tempo mitico dove il tempo ciclico ritorna su di se stesso, si trova ad abitare la temporalità storica che nelle società arcaiche era gestita come si é visto sopra, ma che attraverso la civiltà occidentale diverrà vera e propria ansia verso il futuro.

          Il tempo della storia è il tempo profano in cui è l’uomo a dettare attraverso la scelta l’orizzonte ultimo da raggiungere; non più il tempo naturale in cui «il fine coincide con la fine»[24] del proprio ritmo, ma la proiezione nel futuro dell’intenzionalità del progetto. In apparente contrasto tra loro questi due aspetti nel pensiero antico coabitano proprio perché la coesione di sacro/profano  viene garantita  dalla Necessità che tutto governa e che rende la tecnica rispetto ad essa «di gran lunga più debole»[25]. Il divario tra tecnica e ripetizione dell’uguale é puramente potenziale all’interno del pensiero antico: l’enorme forza della tecnica come oggi la conosciamo è, qui, ben lungi dal poter deflagrare.

          Per questo bisognerà attendere una concezione diversa del mondo per creare l’humus adatto a questa esplosione.

          Il grande mutamento avviene quando alla visione del mondo greca, in occidente, viene a sovrapporsi il pensiero giudaico cristiano; la visione del mondo introdotta dalla Bibbia e sviluppata in seguito dal cristianesimo e quindi dall’occidente stesso, ha due caratteristiche fondamentali: la volontà di Dio e la storia. Il kosmos greco è un’unità immutabile ed increata, destinata ad esistere per sempre: a questa weltanschauung la fede biblica sovrappone l’idea di un mondo creato per atto volontaristico dalla divinità. La natura a sua volta non è più il luogo dove l’uomo attende il dischiudersi della veritá intesa come dis-velamento bensì è il luogo deputato al dominio dell’uomo, al quale Dio stesso affida la possibilità di redenzione dal peccato originale. Adamo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, diviene il protagonista nel mondo: la nuova temporalità esplode: la storia ora non é solo il negativo del sacro ma è soprattutto il percorso tra l’inizio (creatio ex nihilo) ed una fine (eschaton) dei tempi, momento nel quale si compirà il progetto divino.

          Si passa quindi da una cosmologia nella quale l’uomo riconosceva il proprio ruolo particolare e limitato ad un’antropologia nella quale la natura è sottomessa ai fini del progetto divino, declinato secondo la sintassi umana.

Inoltre il mondo diviene il locus ove si realizza il decadimento rispetto alla condizione originaria del paradiso[26]: l’uomo deve espiare il proprio peccatum, la rottura del patto con Dio[27].

          In questo modo la natura non può che essere impiegata all’interno di quest’opera: perciò risulta subordinata alla storia, alla temporalità del progetto di Dio; se prima era la polis a modellarsi in virtù delle leggi cosmiche, ora è la polis a dettare il ritmo alla natura in base alle proprie esigenze storiche.

          L’irruzione del futuro comporta la liberazione del titano dai vincoli olimpici e la possibilità per la volontà di potenza che egli incarna, di realizzarsi: Prometeo é pronto a diventare Faust[28].

          In ultima analisi va notato che l’idea di storia si lega con l’immagine di un Dio trascendente il mondo: egli non appartiene al mondo, ne è al di fuori pur reggendone le fila. La posizione divina nei confronti della sua creatura è di natura causale: il contrario del kosmos greco dove le presenze divine erano immanenti: ciò comporta inevitabilmente che la terra sia vissuta all’interno di un rapporto di causa/effetto perdendo il suo statuto di autosufficienza[29].

 

Nichilismo della tecnica.

          La tecnica moderna si differenzia da quella antica per il fatto di assumere un carattere totalizzante: essa diviene l’orizzonte di esperienza all’interno del quale si determinano le nostre scelte ed il nostro modo di essere-nel-mondo; ciò significa rendersi conto del fatto che la tecnica non è valutabile solo in chiave strumentale, come protesi del soggetto, ma per quanto determini essa stessa, in modo autopoietico, la totale riscrittura del reale[30].

          La tecnica moderna è innanzitutto figlia del nichilismo occidentale, i cui germi potrebbero essere addirittura rintracciati già nel pensiero platonico: ne è figlia perché per la tradizione occidentale gli enti, o più volgarmente le cose, tra le quali anche l’uomo, inteso come animal, hanno non tanto valore in sé quanto relativi ad un processo di pro-duzione, sia esso il progetto divino, sia essa la trasformazione tecnica del mondo.  Questo perché l’ente é pensato sin da Platone come inserito nel divenire, legato quindi ad un movimento di apparizione e scomparsa, legato ad una pura condizione di possibilità. In questo modo esso, per la metafisica occidentale, necessita sempre di una «forza», sia essa un Dio, l’uomo, la tecnica che possano garantire questa alternanza tra scomparsa e apparizione delle cose nel loro divenire. Le cose, in sé quindi sono, per la metafisica, niente (nihil). La volontà di potenza risiede nel fatto di credere fermamente che questa o quella forza si faccia garante di questo processo, e che il divenire appaia come il campo di battaglia sul quale gli enti vengono pro-dotti o distrutti: in fine dei conti ciò significa che ciò che é può, indifferentemente, anche non essere. In questo panorama il demiurgo, quale esso sia domina liberamente la realtà, la plasma secondo il proprio volere[31].

          Nel divenire avviene che l’essere si determini, secondo l’elaborazione occidentale, come una proprietà che può essere persa o acquisita in questo fluire di determinazioni che viene a nascondere l’essere stesso: nel pensiero premetafisico non si assiste a tale movimento per il fatto che manca il senso dell’esplicitazione dell’essere; il bisogno di connotare l’essere linguisticamente secondo il «che cosa esso sia» è un bisogno che risale in concreto a Platone: il linguaggio pre-metafisico avverte la totale ambiguità di fondo che caratterizza l’essere e il suo mistero e, pertanto, ne salvaguarda la dimensione spiccatamente simbolica[32]. D’altro canto si deve sottolineare il fatto che all’interno della sfera mitica quindi non si porta alla luce il senso della «verità dell’essere» ma neppure il senso dell’oblio di quest’ultimo, come avverrà nel linguaggio filosofico. Come accennavamo prima è la dimensione della possibilità che caratterizza gli enti quindi, dopo che l’occidente inizia in maniera sistematica ad interrogarsi su di loro;  in quest’interrogazione, inoltre, è contenuta una sentenza: la dipendenza degli enti dalla forza-guida che regge il loro essere e morire, la loro nullità di fondo. Se secondo la celebre tesi heideggeriana, il massimo grado di smarrimento avviene proprio nel momento in cui l’essere dell’ente è pensato come semplice-presenza, ciò avviene in concomitanza con il fatto che la verità sia vissuta come «potenza da inventare e produrre ogni ordine[33]». Se per Platone la poiesis è innanzitutto una prerogativa divina, caratteristica del demiurgo, come non rilevare che in epoca moderna, attraverso anche la metafisica cristiana, tale potere passa nelle mani dell’uomo, e quindi in quello della scienza e della tecnica?

          La modernità, infatti, porta a compimento questo processo attraverso il ruolo che il soggetto viene ad avere a partire dal pensiero cartesiano.

          Innanzitutto attraverso la riscrittura matematico-geometrica del mondo che caratterizza la scienza moderna, avviene il passaggio da un mondo chiuso ad un universo infinito: tale mutamento determina la perdita della antica visione della natura, la quale si era perpetrata, anche se in modo differente, all’interno del pensiero medioevale, laddove la doctrina cercava, attraverso il dualismo fede/ragione, di comprendere i fini nascosti dietro ai fenomeni naturali e attraverso di essi di arrivare a Dio. Con il pensiero moderno, infatti, la scienza diviene una vera e propria teologia autonoma nel tentativo di realizzare il motto baconiano scientia est potentia : l’accento si sposta dal trascendente all’immanente ed é il mondo il luogo dove il soggetto fonda il suo sapere scientifico e la sua forza; l’escatologia ed il progetto divino spogliati dalla loro matrice trascendente rimangono come orizzonti di fondo del sapere scientifico in chiave, però, del tutto autopoietica.

          Inoltre vediamo come in ambito moderno il mondo o meglio l’essere dell’ente venga percepito, e questo grazie a Cartesio, come una rappresentazione del soggetto[34]. Grazie alla metafisica cartesiana il soggetto si pone come l’irrinunciabile punto di partenza per la comprensione del mondo stesso. Il mondo non é nulla senza un soggetto conoscente, il quale rappresenta il mondo portandolo-dinanzi-a-sè, attraverso la fissità della propria rappresentazione. Questa operazione avviene secondo i criteri di una veristá intesa come certezza ed infallibilità della rappresentazione: l’ego cogito è il baluardo contro cui ogni dubbio metafisico viene ad infrangersi: il mondo si costituisce quindi come immagine, certa, chiara e sicura: l’uomo é il centro di riferimento dell’ente come tale. La rappresentazione avviene all’interno dell’anima dell’uomo e il mondo, il corpo stesso vengono ad essere inglobati nella coscienza. In tale modo la realtà é sottoposta ad un costante processo di oggettivazione: essa è pensata, in primo luogo, come disponibilità oggettuale.

          La scienza cartesiana, inoltre, produce una nuova antropologia: il cogito contiene in sé le idee matematiche, vero e proprio dono divino, le quali rendono possibile la conoscenza del piano divino: tutto questo avviene nell’io, inteso come pensiero e volontà. Il costituirsi del mondo come immagine, determina la fissa fruibilità della rappresentazione soggettiva e va di pari passo con l’idea di una tecnica che può disporre a proprio piacimento della natura, in quanto essa è oggetto della rappresentazione. In questo modo il pensiero moderno libera Prometeo dalle catene della necessità, o così sembra volere e poter fare; l’uomo diviene il crocevia di tutti i possibili rapporti e da questo punto di fuga si dispiega la pianificazione ed il controllo del reale: la parola della scienza che per un attimo aveva coabitato con la parola divina nel pensiero di Galileo, è destinata a compiere il proprio cammino.

 

La tecnica moderna: il rovesciamento del conflitto.

          Ribadiamo ora che la tecnica premoderna agiva nei confronti di una natura intesa come limite ed orizzonte di esperienza invalicabile: entrambi i modi di agire sia quello antico sia quello moderno hanno in comune, però, il fatto di essere poiesis; portano alla luce ciò che altrimenti non sarebbe. La natura é poiesis nel senso più alto, secondo Heidegger, perché ha in sé il principio del proprio dispiegarsi: al contrario la techne trova questo principio in altro, ovvero é pro-vocazione. La mano umana agisce come ciò che porta al di fuori il nascosto della natura, trasformandola. In questo la tecnica è sempre un «disporre»(Be-stand), e la natura é, sia in antico che nel moderno, concepita come fondo disponibile. Ecco, però, la differenza: in antico la tecnica richiedeva alla natura qualcosa che poteva essere prodotto in virtù di un accudire attendente: le energie naturali venivano utilizzate con accorgimenti tecnici parziali che rispettavano i ritmi stessi della physis. La provocazione della tecnica moderna agisce in modo tale a che il reale renda il proprio potenziale energetico nell’ordine della impiegabilità: l’accento si sposta, quindi, dall’orizzonte dell’essere, cioè dall’orizzonte della natura che si dispone sempre così come é, a quello dell’avere, nel senso che l’uomo accumula energia per poterne disporre secondo i propri piani.

          La terra diviene, perciò, il luogo della disponibilità energetica in una prospettiva del tutto spersonalizzante, ridotta ad un puro e semplice serbatoio di energia: la realtà appare quindi come un fondo (Bestand) al quale l’uomo è appellato ad attingere[35]; l’oggettuazione della natura è segno che l’uomo la percepisce come serbatoio di accumulazione e utilizzando un approccio tecnico di «secondo grado» non solo provoca ma accumula disponibilità costante.[36]

          La trasformazione tecnica del mondo esce quindi dalla condizione puramente strumentale, per abbracciare un’intensità che ne rende l’affermarsi come una vera e propria manifestazione di morfologia naturale. Se ci rivolgiamo ad un autore come Jünger possiamo focalizzare la nostra attenzione sul momento cruciale in cui la trasformazione tecnica del mondo occidentale esplode.

          Innanzitutto il discorso jüngeriano mette in luce la trasformazione socio-culturale che avviene in concomitanza con la prima guerra mondiale: in questo momento storico preciso esplodono tutte le contraddizioni del Progresso, inteso come la «grande religione popolare del XIX secolo [37]», nel senso che il lato «dionisiaco» di questo processo esce veemente allo scoperto.

L’attività bellica così come veniva concepita fino ad allora, muta: la guerra delle monarchie o degli eserciti europei, infatti, aveva il carattere della mobilitazione parziale; venivano, cioè, messe in gioco solo determinate risorse umane e finanziarie e la mobilitazione si modellava, in genere, sulla natura stessa della monarchia.

          Ora succede qualcosa di diverso e per la prima volta: «l’immagine stessa della guerra come azione armata finisce per sfociare in quella, ben più ampia di un gigantesco processo lavorativo[38]». L’arco temporale che prepara la guerra ha i tratti, invece, della mobilitazione totale, perché non c’é neanche

 

 «un movimento, fosse anche quello di una lavoratrice a domicilio dietro la sua macchina da cucire, che non possieda almeno indirettamente un significato bellico». [39]

 

          Lo sforzo mobilitativo ha il preciso scopo di fare affluire questo processo nell’evento bellico, ma, al contrario di ciò che avveniva nel caso di mobilitazione parziale, la portata di tale mobilitazione diviene ora una caratteristica permanente della società.

          La guerra sta alla mobilitazione totale come la lente sta all’oggetto osservato: vediamo come questo fenomeno continui, quindi, in tempo di pace e finisca col permeare l’occidente:

 

»…e’sufficiente osservare lo spettacolo della nostra vita nel suo esuberante dispiegarsi e nella sua disciplina implacabile, con le sue aree produttive fumanti e scintillanti di luci, con la fisica e metafisica del suo traffico, i suoi motori, aeroplani e metropoli brulicanti di gente, per intuire con un senso di sgomento e di ebbrezza che qui non c’è un solo atomo che non sia al lavoro e che questo processo delirante é,in profondità,il nostro destino[…] «la Mobilitazione totale non è una misura da eseguire, ma qualcosa che si compie da sé, essa é in guerra come in pace l’espressione di una legge inesorabile a cui ci consegna l’età della masse e delle macchine. Succede che ogni singola vita tenda sempre di più alla condizione del Lavoratore e che alle guerre dei cavalieri, dei re, dei cittadini, succedano le guerre dei Lavoratori.»[40].

 

          Questo enorme processo lavorativo vede la tecnica divenire il vero ed unico habitus della società moderna; sintomo evidente é l’adesione delle masse alla prima guerra mondiale in modo tanto profondo da essere un definito da Jünger «un fenomeno di natura cultuale»: la guerra ci aiuta a vedere come il richiamo originario del Fondo (Bestand) si riveli in tutta la sua forza. Tale fenomeno rivela i tratti della figura del Lavoratore, la quale viene a pervadere le società occidentali e le indirizza verso un assetto uniforme e transnazionale:

 

»la tecnica è la nostra uniforme. Siamo d’altra parte troppo coinvolti nel processo per poterlo abbracciare in tutta la sua ampiezza. Ma se ci allontaniamo anche di poco, se ad esempio ritorniamo da un viaggio in un paese solo sfiorato dalla tecnica, risulterà ancora più chiaro in che misura noi vi facciamo ricorso. E tanto più in quanto il carattere di comfort della nostra tecnica tende a confondersi in un modo crescente con un carattere di potenza pura». [41]

 

          Mobilitazione totale è sinonimo di battaglia globale: questo processo risiede nella tecnica, ma allo stesso tempo la supera, divenendo spirituale ed ideologico. La forma allora si manifesta attraverso l’opera del Lavoratore e nella sua più spiccata attitudine, cioè l’essere-al-lavoro: tale attività, bel lungi dal riassumersi nella banale contrapposizione lavoro/ozio, e’ invece vera e propria condizione ontologico-esistenziale di un nuovo typus umano.

          Il lavoro, che non va confuso in questa sede con il concetto generico di «occupazione», svela la sua radice metafisica agendo come vera e propria messa in forma della realtà; dal momento che determinate forze elementari hanno fatto irruzione nella storia in modo così preponderante (fuoco, metallo, minerali, elettricità) trasformando il reale in un vero e proprio campo di battaglia, un immenso «paesaggio da officina», ecco che essere-al-lavoro é l’attitudine dell’Operaio ad avere a che fare con queste forze che il pensiero borghese si illudeva di dominare come puri e semplici instrumenta.

          Il lavoro diviene quindi una categoria dell’essere in atto: da un lato è un’istanza metafisica che si risolve nella Figura, dall’altro è opera del singolo individuo, il quale riproduce i termini generali applicandosi al singolo e specifico oggetto (carattere totale e carattere speciale dell’essere-al-lavoro).

          Il Lavoratore appare, in quest’ottica come il Guerriero che svestito dei suoi panni militari e del loro carattere di eccezionalità contingente alla guerra, assume le fattezze dell’ homo tecnologicus , costruttore-manovratore, sempre di più uomo macchina.