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Cambiare il mondo con un vasetto di yogurt (atti del convegno)

di fare verde - 01/08/2006

 

Cambiare il mondo con un vasetto di yogurt

 

 

Il 23 aprile, nel corso dell’Assemblea Nazionale di Fare Verde, si è tenuto a Norcia un interessante dibattito sul tema della decrescita, dal titolo “Cambiare il mondo con un vasetto di yogurt”.

Relatori: Giannozzo Pucci, curatore de L’ecologist italiano; Maurizio Pallante, scrittore, autore tra gli altri de “Ricchezza Ecologica”, “Un futuro senza luce” e del più recente “La decrescita felice”; Michele Boato, dell’’Eco Istituto del Veneto e direttore della rivista Gaia, Eduardo Zarelli,  saggista ed editore dell’Arianna Editrice, Giancarlo Terzano, della nostra redazione di xFare+Verde. Moderatore è stato il giornalista Alessandro Bedini.

Ne riportiamo gli interventi in questo dossier speciale.

FABRIZIO VINCENTI: Organizzando questo dibattito, ci siamo prefissi di andare ad affrontare una tematica molto ricca di contenuti per chi ha a cuore le sorti ambientali. Troppo spesso, direi quasi sempre, sentiamo parlare di ambiente in termini di sviluppo sostenibile; Fare Verde sin dalla sua nascita, venti anni fa, sin dai primi documenti, dal documento intitolato “Ecologia, una questione di civiltà”, ha sempre portato le questioni ambientali non solo sul piano tecnologico, ovvero sulla capacità della tecnologia di riuscire a risolvere i problemi che via via si andavano profilando in questo modello di sviluppo, ma sempre, sin dall’inizio, ha cercato di mettere in discussione le coordinate che stanno alla base del modello di sviluppo e lo sviluppo in sé per sé.
Queste tematiche ovviamente non sono patrimonio nostro, tutt’altro, fortunatamente sono patrimonio di moltissime persone, anche se tutto sommato si tratta, anche nel panorama ambientalista, di una componente minoritaria rispetto al trend generale di quello che è il panorama ambientalista italiano, più orientato verso lo sviluppo sostenibile: due termini che sono tra sé contraddittori, ma su questo argomento ci sarà modo di entrare meglio nel dettaglio da parte dei relatori
Il dibattito di oggi oltre ad essere particolarmente importante per la presenza degli ospiti che abbiamo, è anche importante all’interno dell’associazione, perché abbiamo redatto un documento che fa un po’ il punto della situazione sugli orientamenti dell’associazione in termini di visione dell’ambientalismo, dell’economia, dei modelli di sviluppo, …. di quello che sostanzialmente ogni giorno è occasione di dibattito nella nostra vita quotidiana – ad es. il problema energetico, o i rifiuti e via dicendo.
Cioè a tutte quelle contraddizioni che stanno emergendo in un modello di sviluppo, che pare non essere di fatto messo in discussione, almeno dalle grandi entità. Siamo reduci dalle elezioni politiche e credo non ci sia stato nessun candidato - a prescindere davvero dalle appartenenze politiche e partitiche - che abbia messo in discussione, ad esempio, l’importanza del prodotto interno lordo. C’e una sorta di appiattimento sul modello di sviluppo che deve magari essere corretto, deve essere leggermente sterzato ma che non si mette in discussione su quelli che sono i principi fondamentali. Alcuni autori parlano di un treno che va in una certa direzione, segnata, tutt’al più si può discutere se la velocità deve essere aumentata o diminuita o se c’è da fare qualche fermata in più, ma l’intenzione di marcia è unica.
Noi, nel nostro piccolo, abbiamo sempre cercato di non sostenere questa visione dello sviluppo, e oggi è un momento importante per fare il focus di quelli che sono i principi cardine che ispirano la nostra associazione ambientalista.

ALESSANDRO BEDINI:
Qui siamo a Norcia dove è nato San Benedetto, e partirei appunto da un episodio che riguarda Norcia e San Benedetto. Benedetto, che è nato alla fine del V secolo, ad un certo punto se va a Roma a studiare e dopo un po’ di tempo scappa da Roma, perché corrotta e degradata sia dal punto di vista spirituale sia dal punto di vista culturale ed economico. Non voglio fare il parallelo con Roma in questo senso, però quando Benedetto si ritira a Subiaco non si ritira per disimpegnarsi ma per impegnarsi in un altro modo a riflettere e incidere sulla realtà che aveva rifiutato quando era a Roma
Se un parallelismo mi è lecito farlo, credo che puntare a una radicale inversione di tendenza e quindi ad una decrescita sia un po’ rapportabile a quello che fece, tanti secoli fa, San Benedetto.
Tornando alle questioni vere e proprie, Serge Latouche, che come sappiamo è un po’ il nume tutelare di questa idea originale della decrescita, delinea quali sono gli indirizzi ma nello stesso tempo anche i limiti di questa idea. Lo leggo testualmente, Latouche: “intendiamoci bene: la decrescita è una necessità non un ideale in sé, e non può certo essere l’unico obiettivo di una società del dopo sviluppo, o di un altro mondo possibile. Si tratta di fare di necessità virtù e di concepire la decrescita per le società del nord come un fine che ha i suoi vantaggi mentre questo obiettivo non è all’ordine del giorno per le società del sud perché pur essendo influenzate dall’ideologia della crescita non sono società della crescita in senso proprio”.
In questo passaggio, Latouche dice cose fondamentali, non può essere l’unico obiettivo nelle società dello sviluppo e non può esaurire quello che è un altro mondo possibile. È un punto di partenza, è un fare di necessità virtù, e precisa anche un’altra cosa: non c’è peggior cosa di una società della crescita senza crescita. Vuol dire che se di fronte a una società della crescita si cerca di diminuire semplicemente i “fattori di crescita” questo comporta un disastro. Latouche fa degli esempi e dice che questo non permetterebbe più di finanziare i servizi sociali, gli ospedali, la scuola, … creerebbe un grossissimo danno.
La questione è diversa: occorre invece cambiare prospettiva, invertire il senso di marcia e cominciare a ragionare in altri termini partendo, per esempio, dalla questione di come i cittadini partecipano realisticamente, attraverso forme democratiche, alla cosa pubblica, quindi alle scelte della cosa pubblica. Qui si introduce il tema della democrazia, che tipo di democrazia è più adatta in un sistema di decrescita e soprattutto in una società della sobrietà in cui si riducono determinati standard di consumo, si riducono determinati bisogni indotti e provocati.
Alcuni studiosi pongono delle differenziazioni. Democrazia organica versus democrazia liberale e rappresentativa. Non è una questione di lana caprina, ricordo che negli anni ’80 questo dibattito si era sviluppato in maniera molto interessante, questa distinzione era partita da alcuni intellettuali “di sinistra”, come Massimo Cacciari, Marramao, che indicavano la democrazia liberale come una democrazia procedurale o apparente in quando non in grado di porre al centro della questione istituzionale la possibilità di creare più partecipazione alla cosa pubblica. La democrazia liberale porta a una sorta di afatia che viene risvegliata bruscamente, come abbiamo visto anche di recente, nelle tornate elettorali, ma è una democrazia che non valorizza le comunità, mentre invece una società della decrescita si pone la valorizzazione delle diversità quindi delle comunità prima ancora della società. In un convegno recente Latouche dice che la grandezza ideale di una città non deve superare i 100.000 abitanti, perché una dimensione di 100.000 abitanti in qualche modo permetterebbe di partecipare in maniera più diretta alle questioni pubbliche.
Quindi comunità versus società, e utilitarismo posto come unico punto di riferimento delle società progressiste e in via di crescita. Teoria utilitarista che – questo è un altro dei punti che vorrei mettere all’attenzione dei nostri ospiti -, è trasversale, perché riguarda tanto la cosiddetta destra quanto la cosiddetta sinistra. Io premetto che non credo a queste due categorie, ma qui il discorso sarebbe lungo, però sta di fatto che l’utilitarismo e il consumismo sono trasversali. Se noi abbiamo ascoltato i politici durante la campagna elettorale abbiamo notato che si è concentrato tutto sul PIL, sulla riduzione del cuneo fiscale, tasse, e così via. Nessuno ha parlato della necessità di un recupero della sovranità e noi non siamo in una condizione di sovranità nel nostro paese, per varie ragioni, di carattere internazionale e anche di carattere interno. Se la comunità paese e le comunità che la compongono non si riappropria della sovranità io credo che non si vada da nessuna parte.
Ora passerei la parola ai relatori, per declinare, ciascuno secondo le proprie sensibilità, il tema decrescita

MAURIZIO PALLANTE: Mi è piaciuto il riferimento a San Benedetto perché in uno dei miei libri precedenti, “Ricchezza ecologica”, l’ultimo capitolo si intitola “I monasteri del Terzo Millennio” e cerca di recuperare il discorso benedettino dell’ora et labora e di economie il più possibile autosufficienti e con le filiere corte, dove cercavo di esplorarne le potenzialità di futuro rispetto alla situazione attuale.
Questo riferimento ai monasteri del Terzo millennio mi consente di fare una precisazione sulla parola comunità, che è stata utilizzata adesso, perché la differenza tra comunità e società non è una questione di dimensioni ma una questione di qualità. Intendo dire: la società è un gruppo persone che sono legate tra di loro da scambi di carattere commerciale e che hanno definito un sistema di regole e di leggi con cui codificano questi rapporti fondamentalmente commerciali.
Il termine comunità è una parola con un significato più profondo (noi non siamo più abituati a capire il significato profondo). E’ composta da due parti in latino, cum e numus, Cum significa con, naturalmente, e numus significa dono. La comunità è quindi un gruppo di persone che sono legate tra loro da scambi non mercantili fondati sul dono e la reciprocità. 
Gli scambi non mercantili, il dono e la reciprocità assolutamente non hanno niente a che fare con il dono e il regalo della società consumista mercantile ma sono delle forme di scambio non mediate dal denaro, che hanno costituito la forza di tutte le società pre-industriali, perché hanno consentito di sopperire alle esigenze materiali ma anche spirituali delle persone, prescindendo dal fatto che tutto si vende e tutto si compra.
La cosa importante, riallacciandomi a Latouche e agli studiosi del MAUSS, del Movimento Antiutilitarista delle Scienze Sociali, è che a partire dagli studi di Marcell Mauss si è visto come in tutte le epoche storiche, in tutte le zone del mondo, le economie non mercantili che hanno sostanziato la vita di molti gruppi umani hanno rispettato dappertutto delle regole che non sono scritte da nessuna parte ma che da tutte le parti si ritrovano definite. E queste regole sono: l’obbligo di donare, l’obbligo di ricevere, e l’obbligo di restituire più di quello che si è ricevuto. In questa maniera lo scambio diventa fattore di coesione sociale, mentre l’economia mercantile distrugge questo tipo di coesione sociale; con l’economia mercantile c’è questo passaggio dalla comunità alla società.
Detto questo, e dimostrando la mia deferenza massima verso Latouche, mi permetto di dissentire su alcune frasi che sono state dette, tipo: “La decrescita è una necessità di questa società, non un ideale in sé”. Per me è un ideale in sé, non una triste necessità, ed anche per i popoli del Terzo Mondo, l’obbiettivo della decrescita è l’unica strada possibile per uscire dalla povertà.
Cosa voglio dire? Ho la sensazione che quando si parla di decrescita, noi ancora non abbiamo le idee molto chiare, inevitabilmente visto che il modello della crescita è il modello che governa la società industriale da tre secoli a questa parte. Quindi ha formato un paradigma culturale e quello che stiamo facendo o tentando di fare, con piccoli tentativi, è cambiare questo paradigma culturale, che è un’operazione molto difficile.
Anche il discorso destra e sinistra, credo vada superato, ma io vorrei capire in che modo possa essere superato. Ho la sensazione che la destra e la sinistra, in tutte le loro varianti, in tutte le loro sfumature, siano due varianti dello stesso modello industrialista, entrambe perseguono la crescita come obiettivo. La differenza è sull’uso dei frutti di questa crescita, sul modo di distribuire. Questo vale per il capitalismo ed il socialismo, in tutte le forme e sfumature. Per entrambi l’obbiettivo è far crescere la torta il più possibile, perché se la torta è grande ce n’è di più per tutti. Lo scontro è su come si dividono le fette della torta. L’ideologia liberale, in tutte le sue varianti, ritiene che la divisione delle fette della torta debba privilegiare coloro che detengono i mezzi di produzione, perché in questo modo le risorse vengono allocate nel modo migliore possibile dal punto di vista della crescita stessa. Cioè di tutta la torta, se la distribuzione delle fette rimane nelle mani di chi gestisce i mezzi di distribuzione, una parte sostanziale andrà al reinvestimento e una parte minore andrà ai consumi. Se la parte maggiore va agli investimenti, la torta crescerà di più.
In tutte le varianti dell’ideologia socialista si dice: no, le parti della torta vanno fatte in maniera più equa, e se sono fatte in maniera più equa ce ne è di più per i consumi e di meno per gli investimenti. Per cui viene fuori che l’economia più giusta è l’economia che cresce di meno, e l’economia che cresce di più è più ingiusta.
La storia ha dimostrato che l’economia che perseguiva almeno formalmente gli ideali di maggiore eguaglianza è stata sconfitta dall’economia liberale capitalista, perché ha avuto la capacità di accumulare capitale in una maniera maggiore per far crescere di più la torta, per cui anche le fette più piccole della torta più grande erano più grandi delle fette più eque ma più piccole del modello socialista.
Questo secondo me è quello su cui dovremmo riflettere. Nel momento in cui entrambi i modelli       ritengono che la crescita sia l’obbiettivo in sé, dire invece che questo non è l’obbiettivo significa porre un ideale, non ripiegare.
L’elemento su cui occorre riflettere è capire bene cosa è la decrescita e secondo me questo non si è capito bene. Perché si pensa che la crescita, e questa è l’ideologia di tre secoli, sia la crescita dei beni che un sistema economico produttivo mette a disposizione della popolazione. Non è così: la crescita, il PIL non misura i beni, misura le merci, cioè quegli oggetti e quei servizi che vengono scambiati per denaro, mentre oggetti e servizi che non vengono scambiati per denaro non fanno crescere il Prodotto Interno Lordo.
Il concetto di merce è un concetto completamente diverso dal concetto di bene. Se mi faccio i pomodori nel mio orto famigliare, questo è un bene, ma faccio diminuire il PIL, perché non li vado a comprare e perciò non fanno merce. Da questo punto di vista per me è un ideale coltivare i pomodori piuttosto che comperarli. L’obiettivo non è dare i soldi alle persone perché possano comprare i pomodori; l’obiettivo è che le persone possano mettere i pomodori in tavola, è il bene, non la merce; la mia produzione non fa crescere il PIL, lo fa diminuire, ma per me è un ideale. Non è una triste necessità, non è un ripiego.
Viceversa ci sono una serie di merci che non sono dei beni, l’esempio che faccio sempre è che se faccio un percorso in automobile consumo una certa quantità di benzina, cioè faccio crescere il PIL, se per fare lo stesso percorso trovo delle code o degli intasamenti, consumo più merce-benzina, faccio crescere ancor di più il PIL,… allora perché vi incazzate quando siete in coda? State facendo il vostro benessere, ed anche il mio, che vivo in un paesino isolato sulle montagne!
Se diminuisce il consumo della merce, per me quindi è un ideale, non è un ripiego.
Ciò che dobbiamo perseguire è un’economia che da una parte si fonda sulla sobrietà, e la sobrietà è un valore. Se invece si pensa che sia un ripiego vuol dire che lo spreco è un valore, e la sobrietà una rinuncia. Io non ho la tv, ma non dico che ho rinunciato alla televisione, io ho fatto una scelta diversa. La sobrietà a mio vedere è un valore, che vuol dire trattare con rispetto le risorse del mondo. Significa avere un’impronta ecologica più bassa possibile, significa riscoprire le virtù che avevano i nostri nonni, con cui andavano avanti. Invece la società della crescita ha trasformato la sobrietà in taccagneria, in qualcosa da disprezzare. Da questo punto di vista, se io penso cha la sobrietà sia taccagneria è chiaro che la decrescita non sia un ideale ma un ripiego, se invece penso che la sobrietà sia una virtù io sto facendo una scelta in positivo.
Il secondo elemento è quello dell’autoproduzione dei beni, Più beni io autoproduco, meno merci devo comprare, più beni autoproduco più ho dei prodotti e dei servizi di qualità.
Dicono che se non cresce l’economia dobbiamo avere meno servizi sociali. Bene, io sono contento se abbiamo meno servizi sociali. Sembrano cose paradossali, ma penso bisogna rifletterci con molta franchezza. Porto l’esempio della morte dei miei nonni e dei miei genitori. La morte dei miei nonni è avvenuta all’interno di un’economia conviviale, con il dono del tempo e della disponibilità di tutta la famiglia, ed è stata una morte dolce, ed è costata niente, non ha fatto crescere il PIL.
La morte dei miei genitori, che è avvenuta in ospedale, è costata molto, non è stata gestita in maniera conviviale. Mia madre è stata strappata dalla sua camera, dal suo letto, dal panorama che vedeva dalla finestra di casa. Mio padre peggio ancora, ed ha fatto crescere di più il PIL, perché ha passato il suo ultimo mese di vita in ospedale, in una camera sterile. Noi lo vedevamo attraverso un vetro, aveva decine di monitor e lucette intorno, e non potevamo prendergli la mano per fargli sentire il calore del nostro corpo. Io questi servizi non li voglio, e se dovremmo lavorare di meno e avere meno ricchezza, meno denaro, non importa. Questo ci consentirà di riscoprire l’importanza di tutte le cose che possiamo fare in virtù del dono.
Due concetti ancora, e chiudo. Come si misura la ricchezza? Noi siamo abituati a pensare, anche nelle associazioni ambientaliste e di volontariato, che la ricchezza si misuri con il denaro. Si dice che uno è povero se ha un reddito inferiore a 2 dollari al giorno. Ora, se io ho un reddito di 2 dollari al giorno e vivo a Milano sono povero, ma se vivo in campagna dove mi produco molto di quello di cui ho bisogno e scambio sulla base della reciprocità e per quello che non riesco a fare con le altre persone, i due dollari mi servono per entrare nel mondo mercantile, per comprare quello che mi resta da comprare oltre ciò che non riesco a produrre.
Questa non è la misura della ricchezza, la misura della ricchezza sulla base del denaro è una cosa che rientra perfettamente nella logica della società della crescita. I popoli poveri non sono poveri perché hanno un tot reddito al giorno, ma perché per seguire il modello della crescita vanno a distruggere un’economia di autoproduzione, una ricchezza biologica per fare un solo prodotto e venderlo sul mercato per avere i soldi per comperare le cose che mancano. L’uscita dalla povertà per i popoli poveri è nel meccanismo della decrescita; se entrano nel meccanismo della crescita diventeranno sempre più poveri.
Ultimo concetto è il discorso, che si riallaccia al discorso destra-sinistra, di progresso-conservazione. Io ho una storia di persona di sinistra, non la rinnego, la vanto e credo che l’esigenza di equità che c’era nella scelta di sinistra che io ho fatto sia molto importante. Però sono conservatore e reazionario, non sono progressista e rifiuto di esserlo.
Perché il concetto di progresso è quello che sta sfasciando il mondo. Il concetto di progresso si ricollega al concetto di innovazione e all’idea che tutto quello che è nuovo è meglio di ciò che è vecchio. Per cui vecchio è diventata un’accusa, da cui il giovanilismo, la novità, il valore dell’innovazione …
Ma il valore dell’innovazione è quello che riempie le discariche, è quello che fa i rifiuti. Perché il nuovo ha due aspetti: l’innovazione del processo e l’innovazione del prodotto. La prima rinnova le tecnologie per produrre sempre più in tempi sempre più brevi, la seconda è quella che costringe le persone a cambiare continuamente le cose perché sono vecchie, perché c’è già qualcosa di più nuovo che le ha superate. Personalmente ritengo che tutte le cose vecchie, che hanno una storia e che hanno vissuto con gli uomini abbiano un valore molto importante. Non cambierei il centro storico di Norcia con il centro storico di Torino, da nessun punto di vista.
Uno degli argomenti di cui mi occupo è, ad esempio, quello dell’energia. Vi porto solo un esempio, ho fatto venire nel paesino dove abito il direttore dell’Istituto case passive, case con tecnologie avanzate che non hanno bisogno di impianto di riscaldamento e che con 20 gradi sotto zero all’esterno hanno una temperatura interna di venti gradi. Gli abbiamo chiesto come si fanno le case passive e nella sua stessa relazione, al termine della relazione, c’era una nota su come si realizzava l’edilizia tradizionale nel Monferrato. Erano la stessa cosa, le case passive si limitano ad implementare, a dare numeri matematici, a quello che i nostri vecchi facevano istintivamente. Un esempio: io abito in una cascina, la facciata a Sud ha finestre molto grandi e numerose, la facciata a Nord ha finestre piccole e poche, servono solo a far passare la luce.
Le case passive ci dicono che la facciata Sud deve avere aperture dal 40 al 60 percento, quella a nord del 10%. I vecchi non avevano questi numeri, ma facevano le stesse cose.
Allora, io dico che c’è più potenzialità di futuro in questa sapienza del passato che abbiamo disprezzato in nome della modernità, del progresso e dell’innovazione, e impossibilità di futuro nell’edilizia che c’è stata e che oggi ci porta ad avere consumi energetici mostruosi.
Una società della decrescita deve riflettere anche sul concetto di innovazione/progresso e conservazione, per capire quale delle due ha più possibilità di futuro.

MICHELE BOATO: Non ho preparato un intervento organico, ho riportato soltanto delle impressioni …
In questi mesi abbiamo assistito allo scontro, abbiano passato ore per vedere chi era più bravo tra Prodi e Berlusconi; in realtà facevamo fatica a distinguere, vedevamo che uno era più a modo, l’altro meno, ma, almeno secondo me e gli amici con cui ho parlato, nessuno di questi due ha detto nulla di particolare.
Il messaggio forte di Prodi era “dobbiamo rimettere in moto l’economia” e su questo cercava di incalzare dicendo “voi avete fermato l’economia, siete a zero” ecc ecc
L’altro messaggio era “dobbiamo rivedere i conti”. Questo messaggio forse diceva di più, perché nel consumismo, nel produttivismo, c’è anche questa tendenza di dire “sprechiamo, consumiamo, tanto chi se ne frega”; e qui c’è qualche elemento che faceva pensare ancora di più al nostro vivere quotidiano e al fatto che non eravamo proprio soddisfatti di quella pubblicità che ci dice “grazie, grazie, grazie, stai consumando, grazie”. Non era questa la cosa che ci piaceva di più.
Poi, però, alla fine, sappiamo qual è la proposta che Prodi faceva per rimettere a posto l’economia, perché è venuto a Venezia e ha detto “il Mose si deve fare”, a Torino la Tav bisogna farla, solo il ponte di Messina, poverini i siciliani, solo loro non devono averlo…. alla fine era tutto chiarissimo.
Anche per quanto riguarda il Mose, è venuto a Padova, e ha detto “il Mose si deve completare”. Anzi, era arrabbiatissimo con Berlusconi e con il nostro Galian, perché il passante non si era ancora fatto. Era proprio un pensiero unico, sembrava di essere nel racconto di Orwell 1984, non si capiva più da che parte stare.
E anche se sembra un pettegolezzo pseudo-politico, in realtà poi la gente parla moltissimo di questo, almeno a casa mia, a Venezia, Mestre. Si vedeva che il sentire quotidiano, quel qualunquismo buttato a mare come una bestemmia, il giorno dopo era unanime, tutti dicevano le stesse cose: “tanto non cambia nulla” oppure “vabbè, abbiamo capito, c’è meno interesse privato” (anche lì, poi, l’interesse privato non sono solo le televisioni, ci sono interessi anche nelle opere pubbliche. Noi, ad esempio, a Venezia abbiamo un Assessore che ci deve difendere dalle antenne della telefonia mobile e abbiamo scoperto appena dopo le elezioni che era stato dirigente per 5 anni di Omnitel e Vodafone e abbiamo capito perché non ci stava difendendo dall’antenna selvaggia e allora abbiamo detto vai via).
E quindi ci siamo trovati di fronte a questo dipinto mostruoso dai cui cerchiamo di uscirne con escamotage nel senso che noi abbiamo un dirigente dei DS amico di Fassino e sta convincendo Fassino che il Mose non è il caso di farlo, poi abbiamo un sindaco, Cacciari, amico di Rutelli e sta convincendo Rutelli che il Mose è il caso di non farlo, e forse assieme convinceranno Prodi.
Tutto questo è fatto all’interno di una disperazione politica, è con la disperazione che ci si muove, non con i progetti, con le utopie con i sogni o con la partecipazione comunitaria.
Quando venne Prodi a Vicenza a fare la Fabbrica del Programma, qualche mese fa, era permesso a 27 persone di dire la loro. Io, non so per grazia di chi, ero uno di questi 27, e dei 27 soltanto io ho parlato del Mose, che è il problema principale; neanche gli altri rappresentanti dei verdi ufficiali, Casson, il Preside di Architettura, l’intellighenzia progressista e ambientalista di Venezia hanno avuto il coraggio di nominarlo il Mose, perché si sapeva che era una bestemmia. Hai voglia a cambiare le cose, se non si vede neanche l’elemento più sfacciato!
Passiamo invece alla nostra vita quotidiana. Io ho conosciuto Paolo Colli nell’87 quando ero appena stato eletto deputato e arriva questo e mi dice “facciamo un dibattito sui rifiuti a Roma con Fare Verde?” io ho detto certo che lo facciamo.
“Ma sai chi è Fare Verde?” mi pare di si, è un gruppo ambientalista di destra, per me va bene, ma qual è l’ipotesi? “L’ipotesi è la raccolta differenziata” e l’abbiamo fatto. Per poco non mi sbattevano fuori dal gruppo parlamentare. Il giorno dopo il mio collega che mi ospitava a casa sua mi ha detto “guarda ti lascio passare questa, ma se fai la seconda non vieni più a dormire a casa mia”. E ho capito da li che c’era una strada da fare enorme nel mondo dell’ambientalismo perché si poteva parlare di qualsiasi cosa ma non mettere in discussione lo sviluppo sostenibile e perciò il progressismo ...
La seconda bestemmia, l’abbiamo fatta quando Giannozzo mi ha chiesto di fare un dibattito che si chiamava “Sviluppo basta. A tutto c’è un limite”. “Sviluppo basta? Ma siete impazziti?” è stata la reazione. Abbiamo fatto un numero speciale del nostro giornale, ma li è stata tutta un’altra cosa, lì c’è stata l’eresia di Alex Langer, è venuto anche Wolfgang Sachs e altri, ma l’establishment ambientalista ha detto “questi sono fuori di testa”
E invece ora si vede che quella è la strada da seguire, però la strada è veramente in salita, aldilà che sia felice o non felice, comunque è faticosa. Adesso la bestemmia è dire decrescita. Dire decrescita in una discussione che non sia tra pochi intimi, fra adepti di una setta quasi clandestina, è dire una  bestemmia. Tu non puoi andare in un dibattito pubblico, che sia Casa della Libertà o Ulivo e dire: “il nostro programma è la decrescita”. “Ma che sei scemo? La decrescita? E tutti i disoccupati che ci sono?”
E quindi io penso che sia un lavoro che o va alle radici delle motivazioni, cioè fa il cammino che ha fatto adesso Maurizio Pallante, con l’esempio del pomodoro, oppure poi c’è il corto circuito, quando la questione diventa economia, filosofia, politica, religione (forse la religione ha qualche problema in più, … ma neanche tanto, perché conosco un sacco di preti e quei pochi che parlano di queste cose non ne parlano nelle prediche ma se le tengono per i seminari avanzati).
E quindi ho la sensazione che ci sia una strada difficilissima da fare, chiunque di voi abbia a che fare con ragazzi di 15 anni sa benissimo che è un tema dove non ti ascoltano. Mettere in discussione le marche, per esempio, per loro sono le prediche della zia vecchia che hanno lasciato su in montagna, e che non vanno neppure più a salutare …
Poi, se fai in un altro modo, magari gli fai fare la strada in bicicletta oppure fai la gita scolastica nei conventi anziché negli alberghi, allora lì succede il miracolo, gli piace … Ma è un miracolo, devi costruire le cose, farle toccare con mano, far vedere quanto è assolutamente più soddisfacente fare una cosa a minor impatto ambientale piuttosto che un’altra …
Porto questi esempi di vita quotidiana con il massimo dell’ottimismo ma anche con il massimo del pessimismo. L’ottimismo, come diceva Gramsci, è quello della volontà, il pessimismo è quello della ragione.
Anche se voglio segnalare alcuni messaggi positivi che ci sono.
Il più grande è il popolo dei ciclisti, nelle città del Nord. Io vedo che Mestre, una delle città più orrende d’Italia, cambia faccia proprio grazie al popolo dei ciclisti, che obbliga le amministrazioni a pedonalizzare, a mettere più verde, a fare piste ciclabili, a cambiare la faccia delle città dal basso, e in questo vedo elementi di democrazia sostanziale. Anche se questi non hanno il partito dei ciclisti, non votano, però è il popolo che dice la sua, la dice con forza: polemiche sui giornali, persino facendo il critical mass senza sapere di farlo, mettendosi lì in mezzo alla strada e bloccando le auto …
L’altra cosa che dal basso sta succedendo nella mia regione riguarda i rifiuti, dove i comuni, almeno dalle mie parti, fanno contentissimi la raccolta differenziata porta a porta e arrivano a fare la gara tra di loro a chi arriva all’80 per cento. E questa è una soddisfazione per uno come me, che proponeva questa strada già nel ’93, di fronte all’emergenza rifiuti e al fatto che volevano fare 10 inceneritori (sono poi riusciti a farne 3, di cui uno è fermo). Ora c’è la gara tra i consorzi, sono al 60-70 percento, e vogliono arriva all’80, e questo è il momento di ottimismo, siccome i rifiuti sono stati al centro della mia attività ecologista, la soddisfazione è tantissima.
E si fa decrescita, perché questo è decrescita. Tu metti la tariffa e la gente fa meno rifiuti per pagare meno, perché con la tariffa paga solo sui rifiuti che non vanno a raccolta differenziata, questo è decrescita … e poi il compostaggio domestico, con cui vai fuori del mercato, anche del mercato del riciclo, ti fai il compost in casa, è decrescita completa. Sono due esempi che, mettendo insieme l’etica personale e l’etica politica, cioè senza contraddizione con le cose che si dicono e che si cerca di fare personalmente, mostrano che forse ce la facciamo …
Ahimé , non vado molto più in là, perché sul solare mi fermo subito, per il solare è un disastro
Eppure il mio ottimismo mi dice che in Italia, nel giro di due anni, i pannelli solari termici e la bioedilizia esploderanno. Invito chiunque faccia e vuol fare ambientalismo a puntare tutto su questo terreno perché è un terreno che sta emergendo perché il petrolio va alle stelle e perché la bolletta del gas è la maledizione di tutte le famiglie.
Il mio ottimismo mi dice di puntare su questo, poi essendo un ruspante mi metto a fare i corsi per idraulici, per i pannelli solari, perché so che questi limiti bloccano anche le migliori intenzioni
Poi, vi invito a fare le feste del baratto, i mercatini dello scambio, e le banche del tempo, in cui hai un circuito di tante persone, uno ti accompagna senza dover prendere il taxi, l’altro accompagna il bambino a scuola, un terzo guarda le piante quando si va in vacanza, … tutte cose che sembrano banali invece sono fondamentali, per aumentare la socialità, e così via … questa è decrescita
 
EDUARDO ZARELLI - Prima di raggiungervi in sala, mi sono concesso una gratificante passeggiata mattutina per le avvolgenti stradine di Norcia. Forse inconsciamente, sui passi del misticicismo di San Benedetto, sicuramente con la corona dei monti Sibillini come riferimento spaziale, direi geofilosofico, e tra i silenzi sonnacchiosi del borgo, mi è venuto spontaneo appuntarmi alcune “parole chiave” da elaborare durante il mio intervento: diversità, pluralità, ciclicità/stagionalità, territorialità/localismo. Mi sembrano quattro punti che si richiamano vicendevolmente e che possano fare da “pietra angolare”, dal punto di vista politico-sociale ed economico, della riflessione sulla “decrescita”.
Maurizio Pallante è stato assai esplicito nel suo intervento, addirittura non ha nascosto il suo sentimento “reazionario” nei confronti del concetto stesso dello “sviluppo”. Nel suo ultimo libro La decrescita felice, emerge chiaramente l’invito a invertire la rotta, intraprendere il “percorso del salmone”, tornare a un equilibrio con sé stessi a costo dell’impopolarità e dell’anticonformismo, anche contro l’apparente evidenza storica e fattuale. Questo mi ha riportato alla memoria le parole sferzanti del relatore alla mia tesi di Laurea sulle ragioni del comunitarismo e del localismo, poi divenuto un libro intitolato Un mondo di differenze: «…Lei postula utopie-retroattive!». Io non mi vergognai in quella sede di ciò che avevo scritto, io avevo effettuato solo una comparazione col passato, ma il mio interesse era e rimane realistico, attuale, legato alla bontà antropologica della dimensione comunitaria del vivente e quindi della cultura umana. In tal senso, ai miei occhi, la tematica della “decrescita” non si pone in termini di “reazione” o “progresso” ma di rivoluzione conservatrice. Un ossimoro ardito quanto le idee capaci di smuovere le convinzioni e i pregiudizi profondamente radicati e diffusi sul destino della nostra società del “benessere”.
Dal latino revolvere, rivoluzione significa nel suo etimo latino “ritorno al principio”, a imitare la dinamica eclittica, ciclica e reversibile di ogni manifestazione naturale. Nell’attuale società economicistica della crescita illimitata, dell’utilitarismo individualistico, c’è ben poco da conservare. Ecco allora che bisogna cambiare, “rivoluzionare”, ma per tornare agli equilibri dinamici profondi del vivente, “conservativi”, ricomponendo la dolorosa scissione tra cultura e natura divaricata dal prometeismo industriale. Ogni individuo ed ogni popolo, hanno scoperto il mondo circostante a poco a poco. Questo significa che il modo di comportarsi, individuale e collettivo nei confronti degli “altri” e del mondo procede antropologicamente per cerchi concentrici. Mentre la globalizzazione (il mondo visto come un tutt’uno suddiviso in parti) è un prodotto della modernità e degli strumenti scientifici, il localismo è il normale modo di vedere dell’uomo: vista limitata, sensi limitati, possibilità di spostamento limitata, possibilità di conoscenza limitata. Si può dire che il localismo è il modo di pensare ecologico per eccellenza, dato che lega l’uomo alla natura, al territorio, e non ad una sua visione “costruita”, pensata, virtuale, artificiale. Il legame con un territorio dato rende uomini e popoli consapevoli del concetto di limite.
I termini della discussione intorno alla globalizzazione agiscono sul perno del superamento della stessa modernità. La mondializzazione, fenomeno eminentemente tecnologico e finanziario, rende insufficienti gli Stati. Per dirla con Alain de Benoist (in Oltre il moderno), troppo piccoli per il respiro internazionale dei tempi, troppo grandi per i problemi reali della gente. Se le ideologie della modernità avevano spiegato e piegato universalisticamente il locale, all’oggi, in controtendenza, si torna a guardare l’universale da prospettive locali, minimalistiche, ma a misura d’uomo e quindi di natura. D’altronde l’insicurezza cresce con l’incertezza del progresso, la sua protervia ripropone il “limite” come argine alla “volontà di potenza” industriale, che con la cibernetica e le biotecnologie arriva a manipolare le stesse interazioni, che sono all’origine della coerenza olistica del vivente.
Una consapevolezza ecologica profonda riconosce la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni e il fatto che, come esseri umani e sociali dipendiamo e, contemporaneamente, incidiamo sui processi ciclici della natura. La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l’impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Cadendo il velario delle pseudoconcretezze utilitaristiche e sensistiche, indispensabili allo sviluppo materiale, si rende possibile un’etica comunitaria cosmogonica, laica (qualità della vita) e religiosa (sacralità dell’esistenza) ad un tempo, che ri-anima il mondo.
Pallante cita direttamente nel titolo del suo libro sulla decrescita la “felicità”. È importante in effetti approfondire la riflessione sulla felicità perché è un perno psicologico fondante della società dei consumi, che ha una grande presa su tutti, anche per noi che la stiamo criticando, nei nostri stili di vita. Inoltre è importante parlare di felicità perché la tematica della decrescita viene facilmente associata ad un pauperismo regressivo e punitivo, moralistico. In realtà, anche in questo caso, c’è un voluto fraintendimento operato dalla cultura sensistica dominante in merito al concetto di felicità, che altera i termini della discussione sulla critica allo sviluppo industriale.
Ebbene, chiunque abbia praticato le pagine della filosofia in età adolescenziale sa bene che la forza di Platone consiste nella capacità di trasmettere concetti teoretici complessi, con immagini mitico-simboliche di grande efficacia. La posizione platonica soppianta il “sensismo” relativista di un Aristippo, distinguendo i “veri" dai "falsi" piaceri. Platone, da un punto di vista generale, opera una specie di riforma della nozione del piacere, che, con altri risvolti, è oggi richiamata dallo psicologo junghiano James Hillman evocando il “bello” scomparso. La sua riforma implica il fatto che la nozione di piacere risiede comunque nella socializzazione; il bello costituisce qualcosa di oggettivo, connaturato al vero e al bene, e allora è proprio stabilendo una stretta connessione, che esiste tra il piacere e il bello, che Platone riesce ad uscire in qualche modo da quella prigione edonistica, che Aristippo aveva teorizzato.
Tutto il discorso platonico si articola sulla base della distinzione tra piaceri veri e piaceri falsi: i piaceri veri sono quelli connessi con la vista e con l'udito, e sono stabili: secondo Platone, infatti, i piaceri sensibili non presentano, al contrario, questa stabilità, soprattutto se sono connessi al bisogno e al desiderio. Platone critica l’intendere la vita unicamente come un continuo fluire, come dimensione del movimento, implicita – secondo Aristippo – nella nozione di piacere e, a questo proposito, adopera una metafora, affermando che una vita pensata in questo modo è appunto simile alla vita del caradrio, uccello mitologico cui si attribuiva la caratteristica di mangiare e di evacuare continuamente; una vita di piaceri sensibili, quindi, per Platone è una vita in cui tutto si dissolve nel continuo fluire, in cui non c'è niente di stabile, mentre il piacere vero deve essere stabile in sé.
È a questo punto, solitamente, che lo studente comprende come la filosofia sia nel suo fondamento una scuola di saggezza, come l’esistenza quotidiana nella nostra società sia così simile ad un’imponente voliera di caradri e come l’unica possibilità di uscire, vivi o morti, da questa “cattività” edonistica stia nella libertà interiore, ovvero nel governo di sé. In effetti, altro carattere fondamentale, che rende il piacere vero, è la misura. Naturalmente, Platone fa molti esempi di piaceri veri: una vita piacevole è in qualche modo una vita, che richiede una conoscenza contemplativa, quindi non connessa a un’inabilitante sete di sapere, che implica in qualche modo uno stato di bisogno. L’uomo libero contribuisce alla manifestazione dell’essere nelle forme e nelle pratiche sociali in connessione con l'esperienza filosofica del bello.
La “voliera dei caradri” è quel mito utopico progressista, che catalizza la società dei consumi, di cui il recente libro di Carlo Gambescia - Il migliore dei mondi possibili – smonta i meccanismi sociali, economici e psicologici, più reconditi. Oggi la società dei consumi è ritenuta dai più un modello di libertà e di felicità, cioè portatrice dello “sviluppo”: la si vorrebbe ovunque e chiunque vi si oppone va redento alla verità secolarizzata del “paradiso” in terra. In realtà, sappiamo bene che è una ridotta percentuale dell’umanità a vivere di consumismo, ma la minoranza occidentale che lo pratica, nell’irresponsabilità più devastante per gli equilibri naturali e di giustizia sociale, detiene la potenza tecnologica, scientifica e militare per imporre alla maggioranza i propri interessi particolari, giustificandoli come “missione” della storia universale.
Il compito primo di una cultura della decrescita consiste nello sposare la sobrietà degli stili di vita ad una felicità cercata nella virtù, nella misura, nella civiltà in controtendenza alla dissoluzione della cultura nell’egoismo dell’individualismo, che fa della felicità una diritto a discapito dei doveri dell’uomo nei confronti della natura di cui è parte.
Ogni forma di mentalità rinvia a una struttura socioculturale dei bisogni e dei desideri umani; il modo, quindi, di intendere la “felicità” è di particolare rilevanza, per comprendere come produrre e soddisfare fini e bisogni. Semplificando e riprendendo le due forme di felicità richiamate in precedenza, ci ritroviamo con la dicotomia tra felicità-virtù e felicità-piacere. La prima è propria delle società ideazionali, con valori trascendenti e spirito di servizio sovrapersonale, mentre la seconda è caratteristica delle società sensistiche, informate da modelli materialistici o da valori individualistici e utilitaristici. Si intuisce come una società ispirata eudemonisticamente ad una felicità-virtù ridurrà i bisogni materiali, la complessità organizzativa e quindi la tensione psicologica, decisionale del singolo; all’opposto, una società edonistica, sposando una felicità-piacere, proietterà i bisogni nell’artificio e nell’illimitatezza del mitico “caradrio” platonico, fino al punto da “patologizzare” l’indecisione individuale nell’ansia abulimica o anoressica del consumismo. Noi oggi viviamo in una esplosione pulsionale dell’individuo eterodiretta dalla società dei consumi  che rappresenta comportamenti impropri come scopo di una apparente felicità e che invece ci portano alla perdita della felicità perché quest’ultima si raggiunge nella compiutezza interiore, è un senso del limite, è la capacità di controllo, è nella creatività, nell’arte, nell’essere. La classicità greca ci ha tramandato il concetto di kalos kai agathos, bello/bene/vero quale cifra della civiltà delle polis, piccole comunità autarchiche, rette da governi autonomi. Oggi significa sociologicamente la necessità della “riduzione di scala”. La mancanza di senso dell’edonismo ingenera una eterogenesi dei fini. L’Io del disincanto naufraga nella superficialità e rende più chiaro all’orizzonte che solo la profondità del Sé e la conseguente risacralizzazione dell’esistente segnano il destino dell’Essere. La libertà interiore è autodominio, forma, verità, semplicità, bellezza. La giustizia sociale è indipendenza politica, partecipazione comunitaria, sobrietà. La civiltà è senso del limite, dominio del temporale cedendo lo spazio alla natura.
In termini economici, la “riduzione di scala” si declina con l’autosviluppo. Maurizio Pallante è stato molto onesto poc’anzi. Ci ha ricordato come da “uomo di sinistra” con l’approccio alla “decresita” ha rimesso in discussione le stesse teorie redistributive su cui ha basato per molti anni la sua sete di giustizia sociale e conseguente critica al modello liberal-capitalista. Questo è un punto fondamentale per comprendere la definitiva inutilizzabilità dei concetti di “destra” e “sinistra” per contribuire al mutamento politico e sociale richiesto da un mutamento rivoluzionario degli stili di vita e della società consumistica. Più si consuma, più si produce e l’utilità sociale generale non è che la somma algebrica dei singoli egoismi individuali; in questo passaggio da un’economia della produzione a un’economia dei consumi, non vi è differenza di sostanza sociale tra profitto individuale e redistribuzione sociale. Quando J.M. Keynes vorrà socializzare i profitti, declinerà i consumi di massa come principale volano per la domanda complessiva, teorizzando che «il consumo è l’unico scopo e fine di tutta l’attività economica». Da qui, la necessità sistemica di riprodurre artificialmente all’infinito la “scarsità economica”, attraverso bisogni illimitati e una conseguente psicologia incontinente dei desideri, di cui il liberalismo si fa garante istituzionale e ideologia sintetica della modernità realizzata, da “destra”, come da “sinistra”, in un sempre più palese gioco di potere.
Autosviluppo significa quindi  modificare radicalmente la prospettiva su un diverso paradigma, che si poggi sulla “riduzione di scala” dei modi di produzione – a partire dalle corporation transnazionali – e sul “decentramento” della produzione alimentare, dei trasporti e dell’approvvigionamento energetico. Riduzione di scala e decentramento si realizzano solvendo la tecnocrazia amministrativa in partecipazione decisionale vincolata alla sussidiarietà. Caratteristica antieconomica degli apparati è di autosostenersi, a discapito dell’efficienza e dell’ambiente sociale e naturale in cui gli stessi operano: una dissipazione entropica analoga alle modalità di una tecnologia meccanicistica, che deve lasciare il posto a “tecnologie appropriate” e a una scienza del vivente in grado di coniugare conoscenza ed equilibri biologici nella coerenza elettrodinamica quantistica della natura. Solo una scienza riorientata da questa consapevolezza potrà sostenere le scelte etico-pratiche di una società olistica, sobria, autoregolata al minimo dei bisogni e dei consumi, in armonia con la ciclicità, stagionalità della natura.
In ultimo voglio dire quale implicazione politica emerge da questa riflessione disordinata, ma credo costruttiva, sulla decrescita. Lo “sviluppismo” industriale è parallelo al fallimento di una democrazia che attraverso il parlamentarismo liberale è diventata esclusivamente rappresentativa e non rappresenta più nessuno, tranne gli interessi oligarchici. Paul Valéry diceva acutamente che la politica risiede nell’arte di impedire alla gente di aver parte nelle faccende che la riguardano. La sovranità democratica non è la sovranità statuale, ma la sovranità popolare. La politica è oggi chiamata a rinascere partendo dalla base. Ciò implica la necessità di ricostituire la dimensione politica del sociale. La politica che parte dalla base implica la sovranità condivisa, la partecipazione, il principio di sussidiarietà, l’osmosi dei corpi intermedi e la sostanzialità delle libertà fondamentali, nell’equilibrio fra la deliberazione e la decisione. Tutto ciò è a dimensione locale. Il controllo democratico partecipativo del potere corrisponde comunitariamente ad un territorio condiviso dove, tra i singoli, i rapporti sono regolati da forme generali di giustizia distributiva ispirate al dono e alla reciprocità e, in ultima analisi, la sobrietà dello stile di vita rafforza la coesione del legame sociale.
Diversità e pluralità delle identità comunitarie contrastano l’unilateralismo, garantiscono l’esistenza delle culture e la convivenza dei Popoli contro la mercificazione e l’omogeneizzazione totalitaria dell’umanità.

GIANCARLO TERZANO: Io partirei dalla necessità della decrescita, ricollegandomi a quella seconda parte della frase di Latouche, non perché non concordi con Pallante sul valore ideale in sé della scelta, fondata su motivi etici e culturali, a favore della sobrietà, ma per rimarcare, appunto, le ragioni per cui tale scelta, aldilà della spontanea adesione di qualcuno, si rende necessaria all’intera società.
Lo faccio in veste di rappresentante di un’associazione ambientalista, che ovviamente non può non partire dal dato della situazione ambientale. E il dato ineludibile è quello dell’insostenibilità ambientale della società dei consumi e del modello di sviluppo, dell’insostenibilità di una crescita indefinita della produzione e del consumo.
L’insostenibilità è un dato oggettivo: basta fare solo qualche esempio, come la situazione dell’acqua: nel mese scorso è stata celebrata la giornata mondiale dell’acqua, e ci hanno ribadito che il 50% dei maggiori fiumi del mondo faticano ad arrivare al mare, arrivano come rigagnoli o addirittura si bloccano prima. Oppure, un altro dato fondamentale, quello dei cambiamenti climatici: abbiamo una ridda di previsione, ma concordano tutte sul riscaldamento del pianeta (uso questa espressione, molto più forte di quella di cambiamenti climatici, che sembra Bush e la sua Amministrazione siano riusciti a far passare proprio per rendere meno evidente il problema),  previsioni che riguardano anche l’Italia, dove la temperatura negli ultimi due secoli è già aumentata di 1,7 gradi e soprattutto negli ultimi 50 anni c’è stato questo aumento. Previsioni per altro che vengono fatte non da “ambientalisti catastrofisti” ma vengono effettuate da organizzazioni internazionali, l’ONU, e vengono confermate dagli organismo governativi di paesi, ad esempio gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, che più possono esser considerati i capisaldi di questo modello capitalista consumista.
E quindi il dato da cui bisogna partire è quello dell’insostenibilità di questo modello di sviluppo, insostenibilità che è espressa dal concetto di impronta ecologica che ci dice che siamo già oltre quell’impronta che questo pianeta può tollerare. Se poi dovessimo davvero ragionare in termini di diffusione di questo modello di crescita ai cosiddetti paesi in via di sviluppo, del Terzo e Quarto mondo, se dovessimo pensare davvero che anche la Cina, come gli Stati Uniti, avrà 3 auto ogni 4 persone, capiamo che siamo davvero di fronte all’insostenibilità di questo modello.
Voglio partire da questo dato perché è un dato concreto, che può e deve convincere anche coloro che potrebbero vedere nella società della sobrietà una scelta non condivisibile. Sono consapevole, però, anche che si tratta di un’ottica limitata: il nostro approccio con la natura non può essere condizionato da quella visione strumentale della natura, di cui parlava Zarelli, secondo cui la natura va difesa perché e finché ci serve, ma deve essere invece legato alla concezione del bello e del bene, ad una concezione estetica, alla concezione della sacralità (penso che la natura sia uno dei primi canali attraverso i quali si può sentire l’esistenza del sacro).
Quindi, mi muoverei su due indicazioni per promuovere una decrescita: da un lato, ragionare sulla limitatezza delle risorse, sull’insostenibilità di questo modello di sviluppo; dall’altro, far valere la validità culturale di una società più sobria, una società che sappia vivere con meno e una società che sappia anche vivere in maniera meno artificiale. 
Uno dei guasti maggiori di questa società dei consumi è infatti quello di farci vivere in una maniera altamente artificiale. Abbiamo riempito le nostre case e la nostra esistenza di una serie di beni – beni molto spesso di cui potevamo benissimo fare a meno prima e che poi, da superflui, inutili o neanche pensati, diventano necessari – ed abbiamo reso artificiale la nostra esistenza. Da qui un meccanismo che ci allontana ancora di più dal concepire la natura, dal pensare che noi viviamo in sintonia con essa, e il pensare che questa sia sostituibile; un meccanismo che produce dei guasti sulla natura ma anche sulla cultura stessa, perché l’uomo diventa sempre più dipendente da tutta una serie di beni artificiali e rinuncia ad esercitare quelle virtù anche di forza, sacrificio, adattamento, senza le quali si fatica ad andare avanti - Konrad Lorenz parlava di un “rammollimento generale” -. Questo spiega anche il ricorso al Prozac di fronte ai primi casi di depressione, l’abuso degli psicofarmaci, la depressione, che è la malattia tipica di questa modernità.
Il recupero di una concezione culturale della società della sobrietà, per tornare ad un tema iniziale proposto da Bedini, quello appunto di diverse forme di partecipazione della politica, secondo me rappresenta anche la possibilità di dar vita ad una nuova forma di cittadinanza. Noi in effetti, soprattutto negli ultimi decenni, quelli del famoso riflusso, siamo abituati a considerare la politica come qualcosa di molto distante e molto limitato. E’ il discorso della rappresentatività: noi andiamo a votare - tra l’altro per liste che sono molto simili, tanto è vero che non abbiamo sentito alcuna differenza in termini di produttivismo e di decrescita -, andiamo a votare delegando al politico le nostre scelte.
Intanto, anche dal punto di vista ambientale, questo è un comportamento che molto spesso deresponsabilizza: pensiamo che i problemi ambientali possano essere risolti attraverso una buona amministrazione, delle leggi particolari, ma non ci rendiamo conto che il primo comportamento da assumere è quello della rivoluzione su noi stessi, assumere cioè noi per primi comportamenti diversi. In questo senso pensiamo molto spesso anche di conciliare la questione ambientale con il proseguire su questo tipo di vita consumistica, confidiamo davvero che la scienza o la tecnologia, il politico o l’amministratore di turno, si inventeranno quella soluzione che ci consenta di non modificare questo tipo di vita, anzi di andare tranquillamente avanti in questa direzione.
In realtà, dobbiamo recuperare la consapevolezza di dover esercitare i cambiamenti prima su noi stessi, e in questo senso recuperare uno stile di vita che nell’essere più sobrio è anche più responsabile di partecipare ad una comunità di destino. Uno dei guasti dell’attuale politica è stato quello di ridurre tutto ad una forma di rappresentanza, l’idea prioritaria all’interno di una società di tipo liberale è proprio questa: si vota, c’è chi ti rappresenta, dopodichè tu puoi pensare a svolgere le tue attività ordinarie, di tipo privato. Invece, un diverso tipo di cultura, implica anche il dare alle proprie azioni una dimensione per dire pubblica, secondo una concezione del bene pubblico: io non mi occupo solo di ciò fa comodo a me stesso, che fa bene a me stesso, ma consapevolmente vivo nell’ottica del bene comune, di ciò che è bene per me stesso, ma fa bene anche alla mia comunità, fa bene alle generazioni future e fa bene, in una concezione non antropocentrica, anche alle altre specie del pianeta, a tutta la società dei viventi.
E’ questa una forma diversa di partecipazione, per una democrazia realmente partecipativa, non più fondata soltanto sul voto e sulla delega, ma vissuta in prima persona. In questo senso – qui faccio, con una caduta di stile, il “piazzista” di Fare Verde – il metodo scelto, quello del volontariato, è probabilmente espressione di una partecipazione diversa alla vita pubblica, in una concezione completamente diversa, fondata, nell’ambito di una visione comunitaria, non sulla mercificazione, cioè io faccio ciò che mi è retribuito, ma fondata sul dono e sul legame comunitario. Dove, nel volontariato ambientale, il legame comunitario è esteso non soltanto agli altre uomini ma anche alle altre forme di vita, in un legame olistico che ci lega all’intero cosmo.

GIANNOZZO PUCCI : Riprendo un discorso che è stata affrontato in maniera diversa però da tutti, che è quella sulla destra e la sinistra. In realtà, come diceva bene Maurizio Pallante, la destra e la sinistra sono unite nel far stare tutto l’Occidente a destra, tutte e due si fondano sul principio del progresso e della ricchezza e al massimo si dividono sul distribuire più o meno equamente nei nostri paesi i profitti che ne derivano. La nostra destra sostiene che quando la banda Bassotti fa un colpo, i profitti vadano tutti al capobanda, la nostra sinistra vuole che siano suddivisi equamente fra tutti i membri della banda, ma nessuna delle due contesta la banda. La società occidentale moderna, la nostra, è rappresentata bene come metafora dall’immagine delle navi del re Leopoldo del Belgio che arrivavano ai primi del ‘900 nel porto di Anversa cariche di gomma africana e ripartivano cariche di soldati. In Congo il furto della gomma costò in pochi anni 10 milioni di morti, il doppio della Shoà.
Nessuno – e questa sarebbe davvero la sinistra dell’Occidente che non c’è - propone la società di Gandhi, cioè la distribuzione della produzione, la diffusione del modo di produzione artigianale e la limitazione delle dimensioni e delle forme tecnologiche a quelle che possano essere organizzate e gestite da qualunque comunità territoriale anche senza laurea e forse senza nemmeno alfabetizzazione in ogni parte del mondo.
Questo è il primo punto su cui si prova quanto sia a destra tutto l’Occidente e paradossalmente proprio le vittorie sindacali nella conquista di maggiori diritti per i lavoratori del mondo industriale ha fatto da motore per portare più a destra l’intera società industriale, cioè renderla più profondamente sfruttatrice del resto del mondo e della natura.
Il concetto di decrescita postula invece un’inversione totale di rotta, l’opposto della crescita, la domanda è dove andare, quando smetteremo di decrescere, dopo la droga della crescita e dello sviluppo delle forze di produzione?
Quando avremo raggiunto una società stabile in rapporto simbiotico fra la comunità umana e la comunità di tutti gli esseri nel cosmo? Quali caratteristiche ha questo tipo di società?
In questo processo io vedo nella politica istituzionale italiana oggi dei gravi limiti.
Un limite è nella cultura diffusa fra tutti noi. Poi un limite dovuto al tipo di democrazia di cui siamo spettatori ma non attori, per cui mi sembra di aver sprecato tantissimo tempo nella politica, sul piano dei risultati, infatti mentre con immensa fatica si riusciva a tappare malamente una falla se ne creavano altre dieci.
Il limite della cultura comune è proprio la sua malattia scientifica e materialista. Noi ragioniamo secondo una logica che spesso è mutuata dalle stesse ideologie superate dalla storia, ma di cui siamo culturalmente figli, di cui utilizziamo i cascami ancora oggi. Sono intrise, queste ideologie, della logica scientifica, cioè ci portano a ragionare secondo una serie di sillogismi, ipotesi di causa/effetto, per cui ci inducono a comportamenti logici teoricamente ma che tengono conto di una parte minuscola del cielo e della terra umana. L’interpretazione scientifica, spesso meccanicista, ci raffredda il cuore, e impone una serie di doveri apparentemente solo tecnici che espellono dal nostro impegno e panorama i doveri più alti, le opere di misericordia.
Si tratta essenzialmente di una concezione materialista della natura e delle cose, che distingue sempre struttura e sovrastruttura, va a cercare la vera struttura, per cui ad esempio nella fisica la realtà vera sarebbero le particelle elementari. Giustamente Paul Feyerabend si domandava se sono più veri gli dei omerici o le particelle elementari. La fisica  va a cercare quello che c’è dentro, rompendo anche il giocattolo per penetrarlo perché secondo lei quello che c’è dentro è più vero di quello che c’è fuori.
Quando Copernico scopre che non è il sole che gira attorno alla terra ma è la terra che gira intorno al sole e quando questo diventa cultura diffusa, ciò che vediamo coi nostri occhi perde di significato. E quindi perde significato la nostra capacità di dare un’interpretazione simbolico-morale a quello che abbiamo intorno, perché ciò che conta è invece l’interpretazione materiale, i cui sacerdoti sono gli esperti, non i semplici uomini.
L’analisi delle classi fatta da Marx è superficiale e fuorviante, funzionale al progresso del capitalismo. Le vere classi della società occidentale moderna nascono con la definizione di Galileo, secondo cui l’astronomia è competenza solo di chi se ne intende, cioè degli astronomi. Gli esperti e i loro servi (proletariato compreso) sono la vera classe borghese, gli uomini semplici, anche analfabeti, coloro a cui le cosmologie tradizionali in tutti i popoli davano un’interpretazione moralmente valida e comprensibile dell’universo, sono la classe rivoluzionaria che la classe degli esperti ha il compito di distruggere sotto la bandiera della civilizzazione.
Questo è un punto essenziale della nostra società che trova la sua apoteosi nella nostra cultura politica nella quale inserisce un limite invalicabile e funzionale al potere delle divinità moderniste, le multinazionali.
Mettiamo infatti che qualcuno di noi venga eletto, alcuni da una parte (nel centrosinistra) alcuni dall’altra (nel centrodestra), visto che i problemi sono trasversali e i due schieramenti incollati insieme piuttosto precariamente … però, che possibilità ci sono, di realizzare le straordinarie trasformazioni che sarebbero necessarie in ogni campo? Pensiamo alla riduzione ed eliminazione dei rifiuti, alle trasformazioni dei tessuti urbani, alla demolizione di edifici assurdi e disumani e alla loro sostituzione, alla rinascita delle campagne e del mondo contadino per piccole aziende con un’economia di sussistenza, alla distruzione del sistema industriale centralizzato e alla riduzione delle dimensioni di tutte le industrie, alla rinascita dei dazi  e delle protezioni economiche per i più deboli di più alta qualità, alla abolizione del consumismo e al ripristino del rispetto dei limiti naturali per legge, alla lotta contro i supermercati e alla rinascita della rete dei piccoli commerci, alla drastica riduzione del traffico privato a combustione interna e al rilancio del trasporto pubblico, alla riduzione di oltre il 50% del traffico aereo, al rifiuto della globalizzazione: una rivoluzione quale mai si è vista nella storia, e che il marxismo non ha mai nemmeno sognato. Quali possibilità ci sono, non dico di realizzarla, ma almeno di favorirla attraverso gli strumenti che ci da la politica attualmente?  Mi sembrano quasi nulle. Infatti ti trovi di fronte a una società che nella sua maggioranza assoluta, rappresentata dalle lobby delle grandi aziende che influiscono anche senza corruzione specifica ma solo con la loro aureola di potere su tutti i partiti, ti chiede esattamente il contrario di quello che sarebbe necessario.
Ecco perché la politica deve essere considerata oggi né più né meno di come i partigiani consideravano i comandi dell’esercito tedesco di occupazione durante la resistenza e gli eventuali eletti ai diversi livelli devono collegarsi ai comportamenti nuovi, alle realtà comunitarie rivoluzionarie presenti nella società per estenderle e rafforzarle, senza questo la politica serve solo a far crescere la società consumista, cioè la destra.
Veniamo al punto che mi preme di più nella costruzione del movimento gandhiano, cioè della vera sinistra, per usare un vecchio termine. Mettiamo che si faccia un e