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Siamo schiavi del tempo della produzione

di Federico Campagna - 04/05/2014




La pubblicazione della top ten delle canzoni usate durante gli interrogatori a Guantanamo Bay è di pochi giorni fa. Per settimane i prigionieri sottoposti all’enhanced interrogation program vengono bombardati con loop di We Are The Champions dei Queen, The Real Slim Shady di Eminem, ma anche I Love You , la sigla del programma per bambini Barney and Friends . Il tutto sotto la luce perenne dei fari, per privarli del sonno il più a lungo possibile. Bastano a volte un paio di giorni di questo regime, osserva il sergente Mark Hadsell, per distruggere la volontà dell’interrogato.
Nel suo ultimo libro 24/7 , Jonathan Crary entra in queste stanzette di tortura dopo un breve viaggio immaginario tra uccelli migratori insonni, soldati rifocillati a anfetamine e piani spaziali di illuminazione eterna del pianeta. Crary, professore di Modern Art and Theory alla Columbia University, è alla ricerca del sonno perduto, in un sistema globale sempre più 24/7 — attivo 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Il confine tra giorno e notte si è andato erodendo sin dai tempi della rivoluzione industriale. Le luci notturne delle fabbriche dipinte da Joseph Wright nel 1782 annunciavano già lo sfaldamento della separazione tra sonno e veglia, a favore dell’espansione delle ore di produzione e consumo. Sempre più l’attività si fa continua, poiché solo nel suo stato di veglia l’uomo è capace di aggiungere valore al sistema di produzione in cui è immerso. Non appena si addormenta, osserva Crary, l’uomo diventa di colpo fragile e inutile, sordo a qualunque richiesta. È così che le ore di sonno si sono ridotte in poche generazioni da una media di dieci alle sei e mezzo attuali. Un riposo, del resto, sempre più frammentato e inquieto. L’obbligo di connessione perenne, il flusso di email, messaggi e telefonate a ogni ora, agiscono sul sonno come i loop di Guantanamo e i fari accesi delle sue celle. Con la differenza, nota Crary, che la coercizione in questo caso non proviene tanto dal di fuori, quanto da noi stessi.
La servitù volontaria si esprime oggi come accettazione della fine del tempo biologico, a favore del tempo infinito e inorganico della produzione 24/7. Via via che il lavoro si fa più flessibile, il moto perpetuo dei macchinari e degli indici di borsa si introduce nella vita dei singoli. Come possiamo dormire, mentre la concorrenza a Tokyo e Los Angeles è in piena attività? La dissoluzione del limite tra notte e giorno non agisce però solo a favore dello stato di veglia. Dopo poche ore di sonno inquieto, spesso sotto l’effetto di sonniferi, ci si sveglia storditi. Sui treni del mattino diretti verso gli uffici, legioni di sonnambuli entrano alla luce del giorno in uno stato di semi-coscienza. Il tempo si dipana come un flusso omogeneo, che ci avvolge e ci consegna docili ai nostri precisi compiti di produzione e consumo. Del resto, conclude Crary, proprio a questo serve la dissoluzione del sonno: a rendere ogni attimo di vita disponibile al lavoro, per quanto mal fatto. Fino a che, si intende, ogni energia si esaurisce, ogni informazione disponibile viene estratta, e il soggetto così svuotato diventa un’entità di nessun valore, pronta per il macero sociale.
Dopo decenni di neoliberismo sfrenato, l’analisi di questo nuovo sistema di sfruttamento sta assumendo un ruolo di primo piano soprattutto nel mondo anglosassone. È qui che la salute mentale sta emergendo come il campo di una battaglia decisiva tra la possibilità di una felicità individuale e collettiva e la rassegnazione a un destino da uomo-macchina. Nonostante i ritmi e le aspettative della produzione ininterrotta devastino l’equilibrio della nostra psiche, scrive il teorico Mark Fisher su «The Occupied Times», la responsabilità per il «management della sofferenza» viene oggi sempre più addossata ai singoli individui. Secondo lo yuppismo melanconico dei nostri giorni la malattia mentale è colpa del singolo «perdente», che se ne deve assumere il carico e la terapia con l’aiuto di droghe più o meno legali. Panico, ansia e depressione diventano problemi sociali solo quando intaccano le capacità produttive del singolo, mentre le terapie mirano a ripristinare la funzionalità produttiva del paziente piuttosto che affrontare le cause della sua sofferenza. Non è del resto possibile, nota Fisher, risolvere il problema solo da un punto di vista medico. Gli antidepressivi e i sonniferi non possono che simulare uno stato di salute, mentre gli imperativi della competizione e della connessione 24/7 continuano a minare alle fondamenta ogni possibilità di autentica guarigione.
In controtendenza rispetto all’idea che la salute mentale sia un problema da sbrigarsi pudicamente in casa propria, autori come Jonathan Crary e Mark Fisher vedono la politica come il vero terreno su cui sia possibile produrre dei cambiamenti sostanziali. Una precisa politica sociale ed economica ha trasformato il tempo biologico in un flusso produttivo ininterrotto. E solo una diversa politica potrà invertire questa tendenza, privilegiando le necessità dell’uomo inteso come organismo biologico e psichico prima che come unità economica. La ragione, senza sonno, genera mostri.