Una prospettiva meridionalista per l’Italia
di Lorenzo Centini - 28/07/2014
Fonte: millennivm
Chi scrive qusto articolo non ha alcuna formazione specifica in economia, non è capace di discettare riguardo a grafici, curve di sviluppo o proiezioni varie. Parimenti ha avuto l’occasione di visitare, in questi mesi, Napoli, cuore del rinovellante mito della “Borbonia Felix” e Roma, che dello “Stupendo Morbo meridionale” è la protesi burocratica.
In questi anni di crisi in cui nemmeno più i topi hanno voglia di ballare, i Capitani hanno cominciato ad abbandonare la nave. E se il separatismo leghista, abusato nel decennio appena passato, è tornato in versione “barricata e Coldiretti” in Veneto, i mille e uno personalismi regionalistici al Sud di Roma si sono federati, per spinta atavica, mettendo su in 5-6 anni una critica strutturata di questo sistema unitario e Post-fordista, in palese crisi.
Non è interessante in questa sede indagare i reconditi motivi per cui il Sud sta rifiutando l’Italia. Alle risposte più ovvie (un secolare atteggiamento paternalistico, lo sfruttamendo delle masse del Sud per foraggiare l’Industria del Nord) se ne potrebbero aggiungere altri, più esotici e stuzzicanti (riscoperta di un identità Mediterranea, sviluppo di una diversa etica della produzione), ma il quadro rimarrebbe variegato e inconcludente, non aiutato dalla mancanza di studi speculari a quelli che, invece, si sono sprecati per capire la deviazione Padana (non ultimo un meritorio lavoro di Marco Tarchi, Professore di Scienze Politiche all’Università di Firenze).
Trovo che sia molto più utile impegnarsi in un esperimento mentale. Invece di rifiutare a prescindere le punzecchiature neoborboniche, sarebbe interessante capire fin dove queste sono fantascienza territoriale e dove, magari, comincia il rilancio intellettuale di un paese alla deriva.
Fino ad oggi l’atteggiamento del nucleo produttivo Italiano, che rimane sostanzialmente accquattato nel Triangolo Industriale di Giolitti, verso il Sud Italia ha spaziato da un rigido calvinismo macroeconomico (“Italia uguale Sud uguale disastro. Finché c’è il Sud nell’Italia il disastro è quotidiano. Senza il Sud si sta benissimo e non avremmo avuto questa crisi” Mario Borghezio) ad uno straparlare dell’anima del Sud senza soldo prestare. In mezzo c’è stata la strategia della Prima Repubblica, quasi omeopatica, nella convinzione che una pioggia di denaro prestato senza progetto avrebbe, per forza di cose, attecchito e fatto miracoli.
Il minimo comune denominatore è stato l’unilateralismo di questi tentativi. Da sempre si applica al Sud Italia un paradigma produttivo che è proprio del Nord Italia, fatto di piccola Industria a carattere fordista. Questo modo di pensare è forse proprio dei produttivisti “sociali”, quelli che avrebbero voluto industrializzare l’Italia in punta di IRI, e che credevano nella cieca obbedienza, anche dell’economia, al principio dei Vasi Comunicanti.
E’ da questo fallimento che viene fuori il nuovo paradigma per il Sud: valorizzare il territorio. Un dogma che si sostituisce ad un altro. Perché è vero che il Sud è un’eccezione che non conferma proprio nessuna regola (ed è questa la sua forza), ma non si può fare di questa eccezione una regola. Il modello delle aziende agricole specializzate, della sinergia tra turismo, agricoltura e specialità locali, delle avanguardie nelle fonti di energia rinnovabili, si è rivelato virtuoso ma “cicalesco”, buono per essere ciliegina, e non torta esso stesso. Non ha creato ricchezza popolare: è vero che un casermone di cemento armato fuori Sofia è molto più brutto di un bed and brekfast tra le campagne del Salento, però uno da lavoro a centinaia di operai, l’altro crea una famiglia di “microfondisti” in un mare di disoccupazione.
Purtroppo, in media stat virtus. E allora il modello di sviluppo per il Sud si rivela essere quello di una piccola industria ad alto tasso di innovazione con un alta produttività. Senza perdere di vista l’intuizione di Salvemini, quella che se il Meridione avrà da rinascere, sarà per mano dell’agricoltura.
Ma qui l’intuizione si fa sistematica. Se fino agli albori del nuovo millennio era possibile distinguere tra una netta “Questione Meridionale” e una più generica “Questione industriale italiana”, ad oggi, questa distinzione è ardua e pretestuosa. Non solo perché non esiste più un Italia che va e una che non va, ma anche perché la ripolarizzazione del Capitalismo Usuraio europeo, situato nell’area N-EURO, uniforma nella “divisione del Lavoro a livello internazionale” (leggi europeo: cit. Adam Smith) l’Italia nella stessa condizione di Cenerentola d’Europa. La temuta scissione in due capitalismi opposti è avvenuta, ma il Nord Italia (la macroarea alpina, nei deliri di qualcuno) non è entrato nel Club di quelli che contano. Esso quindi si trova ad essere un autoeletto capitalismo virtuoso, ma nessuno è più disposto a riconoscergli questo titolo.
Come diceva Stendhal, “Non è l’Italia che ha cambiato la piazza del Sud, ma è la piazza del Sud che ha cambiato l’Italia”. Anche in economia, la “Questione meridionale” è diventata la “Questione Italiana”, nella solita annotazione geografica che siamo sempre la “Terronia” di qualcuno.
A questo punto riflettere sulla Questione Meridionale è, con piglio concentrico, riflettere sull’Italia tout court. Che è esattamente quel che tenterò di fare. Con una tesi: un’Italia più Borbonica è un’Italia migliore.
Industrialismo e sostenibilità
Spesso, nell’area socialista nazionale, ci si lamenta che il problema italiano è una galoppante deindustrializzazione. Ovviamente non avere più segmenti produttivi che permettano al paese di recitare un ruolo propositivo in ambito internazionale è un punto nodale. Ma appaltare questa deindustrializzazione ad agenti esogeni ed evitare di parlare di quanto questa sia frutto di un più grande fenomeno interno al Capitalismo mondiale, è fuorviante. Giova ricordare che già Smith aveva capito dove sarebbe andato a parare un capitalismo che, per forza di cose, non poteva accontentarsi se non del Mondo come arena di coltura. Nel riposizionamento mondiale le vie sono due: o si tenta di rimanere abbarbicati al “Secondario Mondiale”, mettendoci però in competizione con colossi geopolitici come Cina, India e Brasile, o ci si ritira nell’autoeletto “Terziario Mondiale”, quella ristretta cerchia di paesi che offrono servizi ad alto tasso tecnologico e culturale. Tentare di combattere la via delle grandi industrie e dei grandi poli produttivi vuol dire avere un gran cuore donchisciottesco. La demografia, la geografia e la sociologia impediscono uno sbocco del genere.
La via potrebbe essere una reindustrializzazione a misura di uomo. E non per cedere all’ecologismo militante. La struttura produttiva italiana, da sempre basata su piccole e medie imprese, si è dimostrata negli anni più elastica nell’affrontare i problemi del ricollocamento del capitalismo mondiale. Unire queste esperienze di piccola dimensione in gruppi a controllo Statale, inseriti in un dialogo economico continuo con omonimi d’oltreconfine, potrebbe salvare sia il “movimentismo” imprenditoriale italiano, che tutt’ora salva l’economia italiana, ripetendo la parabola dei mammiferi che prendono il posto dei dinosauri, sia superando il grande problema delle Piccole e Medie imprese: l’innovazione.
Questo modello produttivo è, per l’appunto, il “modus fabricandi” funzionante al Sud. Ma dev’essere aiutato. E allora torna al centro del discorso una profonda revisione di come il credito viene elargito alle imprese che si federano per sopravvivere. In un articolo di Luigi dell’Olio, uscito per Repubblica, si fa notare come solo un intervento statale nel garantire tassi di interesse umani possa diminuire la pressione bancaria sul tessuto produttivo. Anche qui, solo più Stato può riuscire a garantire il dinamismo della piccola e media impresa, sia al Sud che al Nord, spezzando il diffuso stereotipo dello Stato in Economia come “moltiplicatore di gigantismi industriali a perdere”.
Il Mediterraneo ai Mediterranei
Un altro ritornello che suona spesso nelle cantilene socialiste e nazionali è la necessità che l’Italia diventi un paese realmente Mediterraneo, e che la smetta di stare dietro alle sirene teutoniche e anglosassoni. A questa cantilena mi aggiungo spesso anche io, che ritengo il Mediterraneo, prima ancora dell’Europa (L’Occidente potrebbe anche bruciare, per quanto mi riguarda) la vera casa comune di tutti gli Italiani. Ma troppe volte chi parla di Mediterraneo lo fa pensando da Celto, o, peggio ancora, da Padano.
Il Mediterraneo impone, poeticamente, un’apertura totale. Bisogna farne parte. Essendo un mare interno ed intimo, non è disposto a lasciarsi amare da sconosciuti (come invece fa l’Atlantico, il mare di Nessuno). Per questo è necessario che a parlare di Mediterraneo siano i Meridionali.
Fin da Mussolini, che aprì la Fiera del Levante nel 1929, l’unico modo perché il Mediterraneo non diventi un vezzo dell’esotismo è sempre stato quello di parlare la lingua del Mediterraneo. I tentativi, lodevoli, anche paneuropei, di aprire fiere inter-Mediteranee puntando sul dialogo Europa-Mediterraneo, hanno fallito, perché il salto è troppo ampio. In tempi di magra, la Fiera del Levante, che ha un approccio rigidamente “localistico” (a livello di Mare Nostrum), muove annualmente 150 Milioni di Euro, senza contare le varie partecipazioni di tale Fiera all’estero (Albania, Germania, Libia, Romania). Questo dinamismo è possibile perché la lingua economica parlata è simile. Creare gruppi uniti, mobili ma solidi, è il futuro della concorrenza: grazie ad un centro studi unitario sulla concorrenza in tema, l’UCIMU-Sistemi per Produrre, un collettivo di aziende interessate alla produzione di macchinari ad alto tasso tecnologico, riesce a competere con colossi cinesi ed indiani, e a produrre una vasta documentazione su come e dove investire e produrre in Italia.
Addentrandoci nelle relazioni internazionali, le prossime sfide Italiane saranno Mediterranee. Non solo sarà necessaria una gestione oculata e profonda delle recenti scoperte idrocarburiche in terra di Lucania, ma bisognerà che non diventi un ennesima occasione per mantenere in vita un sistema produttivo moribondo. La nuova disponibilità di materia prima dovrebbe invece far partire un ripensamento di tutta l’Industria Italiana, che dal razionalismo produttivo meridionale (quando l’impresa funge) può solo trarre beneficio. Non solo: il petrolio Meridionale sarà anche il banco di prova per un progetto unitario Italiano nell’Adriatico, dove, ragionevolmente, la lotta con la Croazia per i giacimenti sottomarini si farà aspra e senza esclusione di colpi. L’ideale sarebbe la nascita di un consorzio di imprese estrattive italiane, che produca un ente di utilizzo delle risorse unico italiano, sotto l’egida dell’Eni e del Ministero dell’Economia italiano.
Meglio ancora se a condurre tutto questo dovessero essere le eccellenze della Zona. Come prospettato da molte associazioni della zona, i proventi del Petrolio (sulla entità del quale, tuttavia, resistono forti dubbi) dovrebbero essere redistribuiti con un sistema hub and spoke. Invece di drenare risorse finanziarie da questo frangente, è necessario reinvestire questi soldi al Sud, creando un nuovo polo petrolchimico.
In definitiva, per evitare che l’Italia si spacchi definitivamente in due, e parimenti per evitare che l’unico collante a tenerla insieme sia una asfissiante burocrazia coloniale europea, è necessario che la dirigenza Italiana leghi insieme le disgrazie italiane, per obbligare tutti a correre una staffetta. Il neoborbonismo (da non stigmatizzare come “deviazione secessionista”) deve diventare una sfida da superare in qualità verso un cosciente paradigma meridionalista. Come le intemperanze leghiste hanno portato alla ribalta temi nuovi (Federalismo e maggior libertà d’azione e di spesa per gli organi del territorio, Provincie e Comuni), così l’intransigenza meridionalista deve immettere nel discorso politico repubblicano tematiche nuove, come un Industria più equilibrata e un riposizionamento geopolitico italiano.
Per questo l’Italia deve sfruttare il semestre di Presidenza, per quanto può valere, per porre in essere progetti di rivalorizzazione di un processo Mediterraneo, magari impegnandosi per contare qualcosa al prossimo Forum Economico del Mediterraneo, a Barcellona, in programma per il 23 Ottobre, al quale parteciperanno Spagna, Italia, Francia, Algeria, Libia, Malta, Mauritania, Marocco, Portogallo e Tunisia, più delegati dell’Europa Unita.