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La rinascita della comunità

di Francesco Fistetti - 01/09/2014

Fonte: Corriere della Sera



L’uomo deluso dai processi di mondializzazione insegue vincoli forti nella «tribù» o nella «piccola patria». E un altro patto con lo Stato

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Con il termine glocalization, coniato dallo studioso inglese Roland Robertson, si indica l’articolazione ambivalente tra il globale e il locale, tra l’interdipendenza dell’economia-mondo e l’interconnessione planetaria delle comunicazioni frutto della rivoluzione digitale, da un lato, e la dimensione particolare dei contesti locali, con le loro tradizioni e le loro forme di vita, dall’altro. Si tratta di due realtà al contempo opposte e complementari che connotano la globalizzazione come un «fatto sociale totale», vale a dire non solo come un insieme di attività economico-finanziarie a opera soprattutto di quei global players che sono le multinazionali che, alla ricerca di profitti e rendite più alti, attraversano le frontiere degli Stati grazie a una sorta di tacito ius migrandi, ma anche come un complesso di codici simbolici, di pratiche sociali, di abiti culturali legati alle comunità territoriali.

Dopo il collasso dell’Urss e degli antichi regimi comunisti, abbiamo assistito sempre più alla riscoperta dell’etnicità, cioè delle radici e delle origini etniche — linguistiche e religiose — da parte di determinati popoli e gruppi umani, che hanno rivendicato il diritto all’autodeterminazione culturale che fino ad allora era stato loro negato. Come sappiamo, ciò ha aperto la strada a nazionalismi tribali e a sanguinosi conflitti interetnici (come nella ex Jugoslavia). Tuttavia, poco importa che una tale riscoperta avvenga attraverso una reinvenzione e una rimitizzazione delle tradizioni. Non si deve, in realtà, perdere di vista il fatto che questi fenomeni di comunitarismo locale esprimano un bisogno di identità e di riconoscimento che nasce dalla paura e dallo sconcerto provocati dalla crisi di senso e dal vuoto di legami sociali indotti dai processi anonimi e impersonali della modernizzazione e della globalizzazione.

Come aveva notato Jacques Le Goff, di fronte allo sradicamento delle culture tradizionali insorge il bisogno di «ancoraggi di affettività» o di quadri di appartenenza più rassicuranti rispetto al mostro freddo del moderno Leviatano dello Statonazione e all’onnivoro capitalismo finanziario.

Inoltre, la delusione verso le promesse mancate della modernità e delle sue ideologie politiche, dal liberalismo al comunismo e alla socialdemocrazia (in primo luogo la promessa che saremmo diventati tutti liberi ed eguali e avremmo tutti fruito di un benessere diffuso), ha ingenerato una rivolta contro la modernità attraverso una radicalizzazione delle fedi religiose con i loro messaggi teologico-politici di salvezza o addirittura di volontà di potenza totalitaria, come è avvenuto con l’islamismo jihadista.

L’età globale è destinata, dunque, ad essere segnata da un «doppio vincolo»: da un lato l’uomo mondializzato, che prende sempre più chiaramente coscienza di vivere in un mondo unificato o in quella che Manuel Castells chiama la «società delle reti» (network society), e dall’altro un individuo che si sente attratto da una comunità di origine che, per quanto artificialmente ricostruita, attraverso i referenti immediati della «tribù» o di una «piccola patria» gli procura una nuova identificazione. Ma sbaglieremmo se pensassimo di trovarci dinnanzi a un movimento lineare di omogeneizzazione e di standardizzazione delle culture e delle comunità locali (nazionali o regionali), a quella che sbrigativamente è stata chiamata la macdonaldizzazione del mondo.

Piuttosto abbiamo a che fare con una rinnovata dialettica tra la socialità primaria della comunità come luogo della famiglia, dell’amicizia, in una parola delle relazioni faccia-a-faccia da una parte, e la socialità secondaria delle istituzioni politiche e amministrative, in cui vigono rapporti regolati dalla legge o dalla sfera del diritto astratto, dall’altra. Naturalmente, la rete può dare vita a comunità virtuali o diasporiche, che condividono la stessa visione del mondo (essere vegetariani, punk, pacifisti…) o si mobilitano su determinati obiettivi, come è avvenuto nelle rivolte della cosiddetta «primavera araba», a conferma dell’esistenza di modalità inedite di partecipazione che passano attraverso i media audiovisivi, delineando i contorni di una società civile mondiale e di uno spazio pubblico in cui emergono nuovi movimenti sociali e attori politici (dagli Indignados a Occupy, per esempio).

Infatti, la dialettica tra comunità e società, che caratterizza i processi della globalizzazione, segnala due fenomeni concernenti la crisi di quel paradigma storico-politico che è lo Stato-nazione, «centro di riferimento» della modernità politica europea. In esso si erano incontrati, fino a fondersi, sia la tradizione etno-culturale di ascendenza tedesca (la Kulturnation, cioè la concezione della nazione come comunanza di lingua, simboli, miti e forme di vita) che il modello civico di cittadinanza risalente al repubblicanesimo francese (eguaglianza di diritti e obblighi nei confronti del governo e dell’amministrazione). Di fronte all’incapacità da parte delle istituzioni politiche democratiche di regolare la tendenza del capitalismo odierno a una mercificazione senza limiti o, come direbbe Habermas, a colonizzare tutti i mondi della vita sottoponendoli alla logica del mercato, quella sintesi tra visione etnoculturale della nazione e modello civico di cittadinanza è andata in pezzi, producendo una crisi di legittimità della democrazia rappresentativa senza precedenti.

L’ondata montante dei populismi e dell’antipolitica è l’esito ineluttabile di questa dissociazione tra comunità e società, a cui non riescono più a dare una risposta adeguata le stesse socialdemocrazie, che pure nel XX secolo erano state protagoniste di quella soluzione, civilizzando il capitalismo e riducendo le diseguaglianze sociali attraverso un equilibrio tra sviluppo mediato dal mercato e redistribuzione delle risorse. Ora, che cosa significa il bisogno di comunità nella nuova tappa della tensione tra capitalismo e democrazia che stiamo oggi vivendo, come dimostra la grave crisi economica iniziata nel 2008? Segnala l’urgenza di una transizione sociale, politica ed ecologica in cui le istanze della (o delle) comunità emergano e siano filtrate nella sfera pubblica e soprattutto incidano nella costruzione di istituzioni rivolte a favorire dinamiche effettive di solidarietà e di tutela della dignità delle persone.

Se assumiamo questa premessa, allora concorderemo con quanti, come i teorici del Mauss (Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali), sostengono che la società non può essere retta da un principio unico — lo Stato, il Mercato o qualsiasi altro feticcio ideologico —, ma da una pluralità più o meno conflittuale di princìpi, anche economici, da una miscela di Stato, mercato e associazionismo. Il bisogno di comunità, purgato delle sue tentazioni regressive e autoritarie, può essere incanalato nello sforzo di reinventare istituzioni ancorate a pratiche sociali capaci di regolare mediante norme democratiche le logiche del mercato che, lasciate a se stesse, producono effetti sociali perversi e talvolta disastri ambientali.