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L’intervento italiano a quattro anni dalla caduta di Gheddafi

di Fabrizio Ciannamea - 17/02/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


L’ombra nera del califfato è ormai reale minaccia a pochi chilometri dalle coste italiane. A portare la follia wahhabita in Libia ci ha pensato l’Occidente, che probabilmente non si assumerà mai le sue responsabilità. Tuttavia combattere il fondamentalismo, ora, è doveroso e le bombe sembrano l’unico mezzo idoneo. Il Governo Italiano è intenzionato all’intervento armato a fianco di una coalizione Onu, ma in Parlamento alcuni non sono d’accordo, e intanto sull’altra sponda del Mediterraneo si continuano a sgozzare “crociati”.

  


Oggi ricorre il quarto anniversario della “rivoluzione del 17 febbraio”, evento simbolico rappresentante l’inizio del processo politico-militare che nel 2011 prima destabilizzò e poi fece cadere l’allora discussa guida del popolo libico Mu’ammar Gheddafi. Da quel momento il vento innovatore che soffiava da Occidente, da molti definito “primavera araba”, sembra aver portato solo morte e distruzione sull’arida terra libica. Le bombe ricolme di libertà targate “Nato”, oltre ad aver distrutto gran parte delle infrastrutture e dei villaggi , hanno eliminato l’unico tappo (quello della “Guida”) che, una volta venuto meno, ha fatto esplodere lo Stato più ricco d’Africa. Dalla fine del conflitto la Libia ha visto le proprie tribù, effettiva struttura portante del Paese, farsi la guerra al fine di accaparrarsi “ gli appalti” per la protezione dei pozzi petroliferi, spesso sfruttati proprio da imprese Occidentali. Questa terra è finita col diventare, inoltre, il “gran bazar” dello smercio illegale di armi, e del traffico di esseri umani, probabilmente il business più redditizio per le organizzazioni criminali operanti sulle coste libiche. In questi quattro anni la profonda destabilizzazione, la balcanizzazione sociale e politica e la mancanza di uno Stato hanno portato alla naturale proliferazione di movimenti islamici “fondamentalisti” quali Ansar Al Sharia e Fajr Lybia che insieme allo Stato Islamico attualmente controllano il territorio e il popolo libico. Una situazione, quella creatasi, più che prevedibile sin dal 2011, profetizzata dallo stesso Gheddafi, poco prima della sua morte.

In questa storia le responsabilità dell’Occidente liberatore, che ha tolto “un tiranno” per metterne altri mille, sono tante e spesso non vengono ricordate adeguatamente. Proprio  in questi giorni  il Governo Italiano e gran parte dell’arco Parlamentare sembrano essersi improvvisamente accorti che in Libia c’è il radicalismo islamico e che sì, è un’effettiva minaccia per l’Italia. In queste ultime ore ,infatti, militanti che si rifanno alla struttura e alla dottrina dello Stato Islamico hanno preso, dopo Tripoli, anche il controllo di Syrte, inviando un messaggio radio nel quale si definiva il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni un “ministro crociato” e l’Italia sostanzialmente una nazione nemica.  In seguito a tali  minacce il Governo Italiano nelle persone del Ministro della Difese Pinotti e del Premer Renzi ha dichiarato di essere propenso a   partecipare ad un’azione militare Onu in Libia, senza tuttavia farsi prendere da “inutili isterie”, attendendo il responso del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel frattempo è stata chiusa l’ambasciata Italiana a Tripoli, i pochi connazionali rimasti in Libia rimpatriati dalla Marina, e l’Isis  continua con i video delle macabre decapitazioni “crociate”. Insomma la situazione libica ormai è al collasso, e l’intervento armato sembra ormai l’extrema ratio.

Attualmente la strada più facile e sicura da percorrere è quella dell’intervento militare Onu a fianco di altri Paesi. Nel caso in cui il Parlamento, il Governo e infine il Presidente della Repubblica decidessero per l’invio di truppe oltre i confini, attraverso una missione Onu, dovrebbero imporre il comando Italiano dell’operazione per una serie di ragioni storiche, sociali ed economiche che legano l’Italia e la Libia. Quello Italiano è il Paese del Mediterraneo che meglio conosce logisticamente e culturalmente il popolo libico e che meglio potrebbe gestire sotto il profilo militare gli attacchi e  la situazione sul territorio attraverso l’intermediazione (fondamentale nelle operazioni di terra) tra i soldati e le popolazioni civili. Inoltre la Siria dovrebbe ricordare che il “bubbone pestilenziale” del radicalismo islamico non lo si estirpa unicamente  con l’utilizzo di bombe, con i proiettili e con la morte.  Un’eventuale intervento militare dovrà essere integrato da uno politico, soprattutto a guerra terminata,  quando le bandiere nere del califfato saranno ammainate e le popolazioni martoriate. In questa situazione il supporto delle forze Onu e nello specifico quelle Italiane sarà fondamentale per restituire al popolo libico la sua terra e la sua libertà, che potrà essere ripresa da quest’ultimo soltanto quando l’Occidente avrà ridato alla Libia gli ospedali, le scuole e le infrastrutture sottrattegli, senza lasciare spazio ad ulteriori sentimenti di rancore.

Infine il Governo Italiano, sostenendo l’intervento, dovrà ricordarsi di tutelare ad ogni costo gli interessi nazionali in gioco; da una parte di sicurezza interna legati al fenomeno migratorio, e dall’altra economici, connessi al controllo dei giacimenti petroliferi in Libia. La domanda è questa: è dunque necessario che l’Italia faccia e conduca la guerra al fondamentalismo? Forse ancor più importante è che non lo faccia “all’italiana”.