La stagnazione secolare dell’Occidente
di Benedetta Scotti - 17/02/2015
Fonte: L'intellettuale dissidente
Nel 1937 l’economista americano Alvin Hansen parlò di “stagnazione secolare” per descrivere la depressione economica che continuava ad affliggere gli Stati Uniti dal 1929 nonostante gli sforzi del New Deal rooseveltiano, lanciato quattro anni prima. Attribuendo le cause della stagnazione al declino demografico e all’assenza di innovazioni tecnologiche, Hansen, “il Keynes americano”, vedeva nella spesa pubblica a deficit il solo modo per risollevare domanda, prezzi e crescita. Poi vennero la seconda guerra mondiale, che con le sue nuove tecnologie fu il carburante della ripresa statunitense, e la crescita demografica seguita alla fine del conflitto. Le circostanze screditarono le previsioni di Hansen e la teoria di una depressione perdurante e difficilmente guaribile, perché legata non a eventi contingenti bensì a problemi strutturali, venne accantonata. Tuttavia, il prolungato malessere che affligge le economie “avanzate”, manifestatosi in tutta la sua gravità a partire dal 2008, ha recentemente rievocato nel dibattito accademico la prospettiva della stagnazione secolare, spettro dormiente ma mai scomparso.
Da trentacinque anni a questa parte, la storia dell’economia globale è stata un susseguirsi di bolle finanziarie, costruite su montagne di debito (pubblico e privato) finalizzato a sostenere tanto lo stato di welfare quanto la crescita smodata dei consumi, entrambi minati dal drammatico crollo demografico dei paesi “sviluppati”. Si è pensato che la soluzione alla depressione degli anni ’70, che mise in crisi il regime monetario vigente e le teorie keynesiane, potesse essere la deregulation, in particolare quella dei mercati finanziari, senza la quale lo stratosferico accumulo di debiti non sarebbe stato possibile o sarebbe stato, perlomeno, limitato. Si è pensato, in altre parole, di alimentare – artificiosamente – la crescita tramite la costruzione di quel gigantesco casinò che è il sistema finanziario attuale. Un ammasso di scommesse che, ad oggi, si traducono in qualcosa come 700mila miliardi di prodotti derivati. Un castello di carte che continua ad ingrandirsi, nonostante sia praticamente imploso nel 2008, e che non contribuisce affatto ad alimentare la domanda reale. Così come non vi contribuisce, de facto, l’abbondante liquidità monetaria che, tuttavia, ha il merito di perpetuare l’estrema illusione: che l’Occidente possa tornare a crescere a ritmi sostanziosamente superiori allo “zero virgola” pur essendo condannato, dati alla mano, ad un’agonizzante vecchiaia.
Tutti lo sanno e non lo vogliono dire: le sature e satolle economie occidentali vivacchiano nel ristagno perché sono al collasso demografico, quella italiana in primis. Nel Belpaese, nel 2014, sono nati solo 509mila bambini, mai così pochi dall’Unità d’Italia. Ma il fenomeno coinvolge tanto il Nuovo quanto il Vecchio Continente. Se nel 1985, l’Europa poteva vantare un rapporto tra potenziali lavoratori (15-64 anni) e pensionati (over 65 anni) di cinque ad uno, entro il 2050 si prevede che tale rapporto scenderà ad un misero due ad uno. In altre parole, il cosiddetto indice di dipendenza degli anziani (ossia la percentuale degli over 65, non lavoranti e, quindi, dipendenti, rispetto alla potenziale forza lavoro) è destinato a passare dal 20% al 50%. Considerato che un’inversione del trend demografico appare, nell’immediato, alquanto improbabile, per provare ad evitare l’implosione del sistema rimangono due possibilità: una nuova ondata di radicali innovazioni in grado di aumentare drammaticamente la produttività degli sparuti lavoratori oppure un consistente innalzamento dell’età pensionabile (processo già avviato). Insomma, qualora la prima possibilità non dovesse materializzarsi, nell’era dell’homo senectus si morirà stramazzando sul posto di lavoro. Sforzo peraltro vano se poi non vi è domanda sufficiente ad assorbire quanto faticosamente prodotto. E rischia di non esserci affatto domanda sufficiente non per l’assenza di politiche monetarie o fiscali adeguate (spiegazione possibile, ma tali fattori sono, rispetto al crollo demografico, relativamente contingenti) ma perché in Occidente rischiano di non esserci più abbastanza bocche a domandare, per quanto l’iper-consumismo mitighi l’effetto demografico. Per dirla come Chesterton, che scriveva pressapoco negli stessi anni di Hansen, l’odierna società commerciale si fonda su un’eresia che, in’ultima analisi, è alla radice del problema in questione: “la suprema blasfemia che la mela sia fatta per il mercato e non per la bocca”.