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Marino, Gotham City e il garantismo all’italiana

di Simone Sauza - 09/06/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


Ma Roma è così, una città bella ma feroce, eterna, ma inutile; provinciale anche quando si parla di grande crimine organizzato. All'immaginario tarantiniano preferirà sempre l'impero di Giordano Tredicine con i camion-bar di bengalesi a vendere porchetta e fusaje.

  

Un altro giorno è passato nella città di Gotham-capitale, e qualche cavaliere oscuro è già pronto a intascarsi il merito del sole che spunta. Del resto, oggi la politica si fa per autoproclamazione Pochi giorni fa, Marino ha incontrato l’ex presidente del Brasile Lula; a margine dell’incontro non potevano mancare gli echi delle vicende di Mafia Capitale. Così, alle domande su di un’eventuale dimissione, Marino ha risposto: «Io ho cacciato i cattivi». Sull’onda del linguaggio fumettistico, Bat-Marino è arrivato ad intestarsi, parole sue, la disfatta di questo piano criminale. Eppure, non è chiarissimo cosa abbia fatto in prima persona per intascarsi il merito di questa seconda ondata di arresti; tanto che lui stesso afferma: «Io non mi preoccupo di queste cose. Come un chirurgo in sala operatoria mi preoccupo di far bene ogni giorno il mio lavoro». Qualcosa non torna, sarà il caldo dell’estate romana. Si ha quasi l’impressione, a volte, che l’appellativo poco lusinghiero di “Marziano” lo si voglia furbescamente capovolgere. Insomma, intenderlo come l’ingenuo ma buono, estraneo alle logiche torbide del potere, che se ne sta lì a fare il suo dovere, mentre attorno il mondo si fa melma. E invece non è così. Perché voltarsi dall’altra parte non è mai stata annoverato tra le virtù civiche. Ad esempio, già nel gennaio 2014, il Ministero Economia e Finanza – era il governo Letta – aveva denunciato l’irregolarità degli appalti per le cooperative Eriches 29 e Domus Caritatis, entrambe coinvolte in Mafia Capitale. La relazione fu consegnata anche al nostro, ma evidentemente la trovò poco interessante.

Il secondo punto sono i compagni coinvolti, su cui svetta il nome di Daniele Ozzimo. Questi inizia come giovane promettente nei Democratici di Sinistra con tanto di segreteria del Municipio V. Poi la scalata: prima il consiglio comunale di Roma, poi il posto di Assessore alla Casa, membro della Commissione Lavori Pubblici, e, soprattutto, la carica di vice-Presidente della Commissione Politiche Sociali. Ora le sbarre del Regina Coeli, forse. Le parole del gip sono state: «Ozzimo nella sua qualità prima di consigliere capitolino e vicepresidente della Commissione Politiche Sociali e membro della Commissione Lavori Pubblici, Scuola e Sanità, poi, dal 2013, anche nella sua qualità di assessore al Comune di Roma, poneva a servizio di Buzzi la sua funzione». Senza contare le approvazioni di debiti fuori bilancio e la riscossione di quelle che nel linguaggio tecnico vengono definite “utilità a contenuto patrimoniale”, ma che dai tempi della Roma papalina e dei cravattari si chiamano più prosaicamente stecche e mazzette. Eppure Marino si è vantato di non avere membri della giunta coinvolti; salvo poi correggere il tiro, nel momento in cui gli si faceva notare l’affaire Ozzimo, specificando che quel nome non lo avesse scelto lui, ma gli fosse stato imposto dal PD. A questo punto ci sono un paio di conseguenze logiche che andrebbero tratte. Se così fosse, Marino, per sua stessa ammissione, non ha nessuna autonomia come sindaco. Se così fosse, Marino nomina assessori senza nessuna verifica, perfino là dove egli stesso mostra qualche perplessità; a maggior ragione alla luce di quella certa relazione del MEF prima menzionata. Allora ecco che questa figura del marziano che fa surf sopra una Capitale sommersa dal liquame, senza macchiare di un millimetro la camicia bianca, comincia a sgretolarsi. Aut-aut: o è un furbo, o un incompetente. Altro caso per i più smemorati: Salvatore Buzzi viene arrestato. Marino interviene dicendo che non sa minimamente chi sia e che mestiere faccia. Poi viene fuori che la Cooperativa 29 Giugno (afferente al Buzzi) contribuì alla campagna elettorale con la cifra di trentamila euro (con annesse foto di Marino in visita in sede, ma come si usa dire in questi casi: i politici incontrano tante persone in continuazione. Peccato siano sempre quelle sbagliate). Ripetiamo: il silenzio non è una virtù civica. Senza contare i Figurelli, i Mirko Coratti (presidente dell’assemblea capitolina), gli Odevaine (braccio destro di Walter Veltroni e di Nicola Zingaretti), i Pierpaolo Pedetti (consigliere comunale del PD). Ora, maestro Veltroni, gira un film anche su questo.

Intorno a Marino, il PD si sta muovendo con tutto il peso della sua egemonia culturale per modificare la narrazione – come si usa dire oggi con quel linguaggio postmoderno che fa tanto spin doctor. L’imperativo: lo scaribarile. Insomma, Renzi comincia a temere l’erosione della sua leadership. Lui che ha basato la sua ascesa interamente sul voto d’opinione (modello Leopolda), bypassando e inimicandosi tutta quella serie di corpi intermedi su cui si è sempre basato il consenso della sinistra: dai sindacati, agli insegnanti, al radicamento territoriale di sindaci e presidenti di regione. Come ha sottolineato correttamente Claudio Cerasa sul Foglio, la questione di Mafia Capitale non è riducibile ad un intoppo locale: dopo il caos delle regionali – il 5-2 che suona tanto come il bersaniano “vincere perdendo” – il rischio di trovarsi a fare i conti con una base sociale inesistente è forte.

Si cerca di correre ai ripari muovendo la grande macchina della fuffa: Orfini che accusa il M5S di essere colluso con i clan di Ostia; Marino che afferma che dalle intercettazioni emerge il timore di Carminati e co. verso lui e la sua giunta – salvo poi tralasciare il lusinghiero accenno di Buzzi: «Se resta sindaco Marino ci mangiamo Roma», marziano sbadato. Infine il tentativo di colorare Mafia capitale di nero-azzurro e trasformarla in un malaffare fascio-forzista, con Gramazio eretto a a bestia sacrificale. Sembrano così lontani quei tempi berlusconiani in cui ci si stracciava le vesti per ogni politico d’oltralpe che si dimetteva alla minima quisquilia, se scandinavo e socialdemocratico ancora meglio. Si faceva a gara: io mi dimetto perché ho preso una multa, io perché sono passato con il giallo. E poi ci riempivamo la bocca di parole come “moralità”, “senso dello stato”, e di tutti quei “In un paese normale”, “in un paese civile…”. Amarcord. Qui abbiamo invece il privilegio di questo garantismo un tanto al chilo di Renzi, che gongola sulle dimissioni di Lupi, e si riscopre ultra-garantista al momento opportuno. Ma la tegola della realtà è che negli ambienti giudiziari impermeabili al vaniloquio renziano si parla costantemente della possibilità concreta di uno scioglimento della giunta per mafia. Fatto storico, epocale, il quale, se si verificasse, sarebbe praticamente un colpo di fucile direttamente alle gambe non solo di questo PD, di questa classe dirigente, ma dell’intero futuro di questo partito; quell’erede della questione morale che riuscirebbe così definitivamente a sancire la parabola della sinistra romana: dagli amati Petroselli e Argan alla miseria umana e piccolo-borghese di questi mazzettari con la camicia arrotolata da laburista e le caldarroste nelle tasche.

Sull’altra sponda del Tevere, la Meloni si sbraccia per le dimissioni immediate di Marino, cercando di preparare il terreno per la sua candidatura. Dimenticando però il neo-fratello (d’italia) Alemanno. Quello che, tra le indagini del 2014, un processo penale per presunto finanziamento illecito e un’ordinanza del 4 Giugno secondo cui avrebbe ricevuto voti da Salvatore Buzzi in vista delle elezioni europee del 2014 con l’aiuto della ‘Ndrina Mancuso, come il Dandi voleva prendersi Roma, e invece si prepara a prenderselo in quel posto. Ma Roma è così, una città bella ma feroce, eterna, ma inutile; provinciale anche quando si parla di grande crimine organizzato. All’immaginario pulp tarantiniano preferirà sempre l’impero di Giordano Tredicine con i camion-bar di bengalesi a vendere porchetta e fusaje.