«Una delle carattAnnex-Chaplin-Charlie-Modern-Times_01eristiche dell’èra economica secondo i suoi aspetti più squallidi e plebei è appunto questa specie di autosadismo, che consiste nel glorificare il lavoro come valore etico e dovere essenziale, e nel concepire sotto specie di lavoro qualsiasi forma di attività». Così si esprimeva Julius Evola nella sua celebre opera Gli Uomini e le Rovine (1953). Nell’epoca moderna infatti, a differenza che nelle società antiche, il lavoro cessa di significare qualcosa che si impone semplicemente per soddisfare delle esigenze materiali per divenire un fine in se stesso. Da condanna a cui l’uomo è costretto per soddisfare i propri bisogni materiali («ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte» è scritto nella Genesi) esso diventa un valore in se stesso. La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazioni e orrori. Ci sono voluti diversi secoli di aperta violenza su larga scala per sottomettere gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo del lavoro.

Nell’Antichità europea, il lavoro veniva disprezzato proprio perché era considerato il luogo per eccellenza dell’assoggettamento alla necessità. Tale disprezzo lo troviamo tanto nei Greci e nei Romani quanto nei Traci, nei Lidii, nei Persiani e negli Indiani. In Grecia soprattutto esso era percepito come un’attività servile, che in quanto tale, era in antagonismo con la libertà, e quindi con la cittadinanza. Tanto è vero che in greco il termine ponos che sta ad indicare l’attività lavorativa era sinonimo di sforzo, fatica, pena e sofferenza.

Lo stesso stato d’animo vigeva a Roma. A proposito del lavoro manuale Seneca dice che è «privo d’onore e non potrebbe rivestire neppure la più semplice apparenza dell’onestà».

Cicerone aggiunge che «il salario è il prezzo di una servitù», che «niente di nobile potrà mai uscire da un negozio», che «il posto di un uomo libero non è in officina». La lingua latina distingue nettamente il labor, che evoca il lavoro penoso ed oppressivo, e l’opus, l’attività creativa. “Lavorare” (laborare) ha spesso il significato di “soffrire”: «laborare ex capite», “soffrire di mal di testa” Viceversa la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non fare niente”, bensì l’attività superiore orientata verso la creazione, di cui il commercio rappresenta la negazione (negotium, “negozio”).

Quanto alla parola moderna francese travail, essa scaturisce dal termine tripalium, che in origine era uno strumento di tortura.

Sarebbe sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente il riflesso di una visione gerarchica della società e la conseguenza della “comodità”, rappresentata dall’esistenza di schiavi; essa esprime, in realtà, un concetto molto più importante: la libertà – come d’altra parte anche l’eguaglianza – non può risiedere nella sfera della necessità e che vi è autentica libertà solo nell’affrancamento da tale sfera, ovverosia al di là dell’economico.

L’idea contemporanea del lavoro ha origine con il capitalismo manifatturiero. Sino a quel momento, cioè sino al secolo XVIII, il termine “lavoro” (laboul; Arbeit, travail) designava la pena dei servi e dei giornalieri, che producevano beni di consumo o servizi necessari alla vita, che dovevano essere rinnovati giorno dopo giorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito. Gli artigiani, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli acquirenti di regola trasmettevano ai posteri, non “lavoravano” “operavano” e nella loro “opera” potevano utilizzare il “lavoro” di uomini di fatica, chiamati a svolgere compiti grossolani. La produzione materiale non era dunque, nell’insieme, retta dalla razionalità economica.

Benché Marx nella sua Critica al Programma di Gotha (1875) avesse affermato contro Lassalle che non il lavoro bensì la natura era la fonte di ogni ricchezza i regimi comunisti hanno sempre esaltato il lavoro quale strumento di liberazione dell’uomo dal regno della necessità. In Unione Sovietica Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906 – 1907) venne celebrato quale “lavoratore modello” ed esempio per tutti gli operai sovietici. Stalin in un suo celebre discorso disse: « […] Il movimento stacanovista rappresenta l’avvenire della nostra industria, reca in sé il germe del futuro slancio culturale e tecnico della classe operaia e ci apre la sola strada per la quale possiamo raggiungere quegli alti indici produttivi indispensabili per passare dal socialismo al comunismo ed eliminare il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale.»

L’obiettivo che dobbiamo porci oggi non è dunque rinunziare a lavorare bensì fare in modo di vivere in una società in cui non si viva più per produrre ma si produca per vivere.

Perché come scrisse Friedrich Nietzsche in Aurora (1881): «In fondo […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidigia, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare.»